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La grammatica ai tempi di Facebook

I social network hanno evidenziato una delle più grandi debolezze di noi abitanti dello stivale: la scarsa padronanza della lettera “h”, degli accenti e degli apostrofi.

Basta leggere una comunicazione a caso – a caso, per davvero – su Facebook, per trovare errori devastanti come “oggi o comprato un paio di scarpe”, “la Juventus a pareggiato”, “l’hanno scorso sono stato in vacanza”, “oggi e stata una bella giornata”, “ò vinto” e, combo suprema: “un’hanno fa”.

Il vero pasticcio, tuttavia, è che molti, me compreso, hanno iniziato a farci il callo.

A furia di leggere una quantità enorme di errori tremendi, abbiamo iniziato a commetterne molti di più e, quasi, a tollerarli, con la scusa che “tanto sbagliano tutti”.

Capita che, nella fretta di scrivere un post o un commento (perché si è sempre di fretta, giusto?), si ometta qualche apostrofo qua e là, o non si faccia distinzione tra gli accenti gravi e quelli acuti – effettivamente, anche quando non si scrive di fretta la differenza è poco chiara ai più -, e allora nascono combinazioni come: é vero che, una tazza di té e, la più diffusa, E’.

Giusto per mettere i puntini sulle “i” e gli accenti al posto giusto, il tè, la bevanda, si scrive tè, tutte le altre versioni, tea – all’inglese – e thé – al francese -, non appartengono all’italiano. Per tornare invece sulla “e” maiuscola accentata, bisogna precisare che è sempre sbagliato scrivere E’, poiché questa formula utilizza un apostrofo al posto di un accento. Bisognerebbe scrivere È, ma molti quotidiani e telegiornali, spesso anche alcuni prodotti del supermercato, non lo sanno o non ci badano.

Scrivere alla tastiera di un computer richiede un impegno differente rispetto allo scrivere da uno smartphone.

Quando si scrive da un computer, gli errori di accenti e apostrofi nascono solitamente per due motivi: il più frequente riguarda una pura carenza grammaticale, mentre l’altro dipende dalla difficoltà tecnica di comporre le lettere accentate maiuscole, come la “e” accentata, “È”, che richiede la padronanza degli shortcut o l’utilizzo della tabella dei caratteri speciali.

Da smartphone è tutto più semplice, soprattutto grazie al correttore automatico, vera manna dal cielo.

Come rimediare?

Leggere di più. Soprattutto i classici.

Ma anche gli articoli scritti da chi sa scrivere davvero, chi ha il talento di prenderti, rapirti e portarti via con le parole. Come Luisa Carrada, sempre attenta al peso e all’eleganza delle parole, o anche Annamaria Testa, una delle menti più elevate del copywriting italiano, o ancora Massimo Birattari, che padroneggia il linguaggio italiano come Cristiano Ronaldo un pallone da calcio.

Siamo pur sempre il popolo di Dante Alighieri, facciamoci valere, altrimenti finirà che scriveremo cose sbagliate è tutti ci prender’anno in giro.

whatsapp

Ok, perfetto, ti wazzappo stasera.
Ti cosa???

Di tutte i termini diventati di uso comune, ti wazzappo è davvero il più terribile. Dal famoso e ormai vecchio chattiamo (pronuncia esatta: ciattiamo), che si coniuga in modo piuttosto morbido, io chatto, tu chatti, egli chatta, ecc…, al più moderno followami, da cui io followo, tu followi, egli followa, noi followiamo (con la i, come per il verbo scavare), voi followate, essi followano. Per non parlare di cliccare, che ormai è davvero attempato: io clicco, tu clicchi e così via.

I ragazzini hanno trasformato in verbo anche il famoso Like di Facebook, con un dissonante ti laiko. Qui la coniugazione diventa davvero fantasiosa: io laiko, tui laiki, egli laika (come il cane), noi laikiamo, voi laikate, essi laikano. Continua a leggere

word as image - ji lee

Le immagini valgono più delle parole? Io non credo.
Più delle parole valgono i fatti, secondo alcuni, ma questo è un altro discorso.

In comunicazione, immagini e parole, non si trovano le une contro le altre, giocano piuttosto nella stessa squadra. Ci sono le volte in cui si comunica solo per immagini, grazie a campagne pubblicitarie fortemente espressive, o in altri casi solo con le parole.

A dirla tutta oggi le parole sono anche immagini. Questione di font, di grandezze, di grazie, di punteggiatura e di interlinee. O ancora, l’assenza di immagini è a sua volta una scelta grafica, anche fortissima. Continua a leggere

Spionaggio è una parola negativa, di solito è il nemico a praticarlo. I Governi, per apparire più fini ed eleganti, usano il termine intelligence. In realtà intelligence e spionaggio sono la stessa identica cosa. E anche Governi e nemici, probabilmente, lo sono.

A volte non riesco a scrivere nulla. Nemmeno una frase, nemmeno un tweet. Ci sono momenti in cui vorrei scrivere anche parole a caso, per il semplice gesto di pigiare i polpastrelli sulla tastiera e trovare rifugio in un qualche sentiero ricamato dentro un racconto, una storia, o anche un semplice post.

Il cursore se ne sta immobile sul foglio bianco e non si sposta di un millimetro. Mi annoio e trovo un senso romantico anche in quel segmento digitale condannato ad un legame inscindibile con il mouse. Mi piacerebbe sapere come si chiama. Svolgo una ricerca sui nomi dei cursori, sono convinto che debbano avere denominazioni diverse, un po’ come gli alberi: ci sono gli olmi e i pioppi, i pini e le sequoie, eccetera.

E in effetti è proprio così. Ci metto poco a trovare un elenco ben fornito che li nomina uno ad uno. Li osservo velocemente e scopro che hanno nomi orribili, tristissimi. Quello che mi interessa, quel segmento verticale che appare sui fogli di testo, si chiama xterm. E basta.

Già, tutto qui. Poi la gente si illude di trovare un po’ di romanticismo, eleganza e filosofia anche solo in un nome. E questo di bello non ha nulla, nemmeno il suono. Forse è utile, facile da ricordare per uno sviluppatore. O almeno glielo auguro, altrimenti sai che fregatura.

Ci sono parole che andrebbero bandite dalla lingua italiana per almeno un paio d’anni. Parole che affollano il mondo della pubblicità, della radio, della tv e soprattutto della politica. Sono dei tormentoni linguistici che provocano seri danni alla comunicazione. Il termine più odioso, come segnala anche Massimo Birattari in “È più facile scrivere bene che scrivere male”, è criticità. Ascoltate le interviste dei nostri parlamentari e provate a farci caso: criticità territoriali, occupazionali, criticità nel tratto autostradale e tante altre tipologie di criticità, delle più creative. Stop! Creatività è un altro tormentone. Le agenzie pubblicitarie ne fanno grande uso in autocelebrazioni come “siamo un’agenzia giovane e creativa”, “offriamo soluzioni creative”, “la creatività è il nostro punto di forza”. Su LinkedIn, addirittura, chiunque può aggiungere la voce creativity alle proprie competenze ed esperienze.

Oltre ai singoli termini, ci sono delle espressioni che riempiono di parole senza significato il parlato e lo scritto quotidiano: soluzioni concrete è la migliore. Le banche offrono soluzioni concrete, mica ti fregano – ci tengono a precisarlo, si sa mai. Ma allora perché le usiamo? Perché siamo insicuri, crediamo che un lessico apparentemente ricercato ci dia una certa credibilità, ma purtroppo ci rende imprecisi e logorroici.

Due guru della comunicazione italiana, come il già citatato Massimo Birattari e Luisa Carrada, bocciano un’abbondante quantità di parole ed espressioni: esclusivo, prestigioso, creativo, trasgressivo, provocatorio, scomodo, impietoso – lui; coniugare, contaminazione, contesto, lavoro di gruppo, mediatico, momento di, monitorare, qualità della vità, riscoperta, segnale forte, significato simbolico, società civile, strumenti concreti, tempi tecnici, territorio – lei. A queste aggiungo: auspicare, stress, design, immagini d’impatto, potenzialità, molteplicità e ottimizzazione.

Queste parole andrebbero evitate in virtù di un linguaggio chiaro e preciso, e onesto, che non si perde e non si nasconde dietro alle criticità dell’italiano.

Come dice Massimo Birattari nel manuale È più facile scrivere bene che scrivere male, “La semplicità è un importante strumento per comunicare con efficacia”. A pagina 17 affronta subito un argomento che merita particolare attenzione: Il burocratese. A guadagnarsi un nome tanto terribile è la lingua scritta – ma anche parlata – di politici, medici, avvocati, assicuratori e banchieri, usata anche in contratti e comunicazioni di ogni tipo. È una lingua che deve essere giuridicamente inattaccabile, e proprio per questo usa parole come espletare, encomio e apporre, quando sarebbe molto più comprensibile usare termini come compiere, lode e mettere. Il linguaggio tecnico non è dunque facile da comprendere per il pubblico a cui è rivolto. Io ho enormi difficoltà a capire gli intrighi e gli intrugli dei documenti relativi al mio conto in banca, e non solo. M’è capitato pochi giorni fa di leggere questo testo su di un contratto di lavoro di un amico:

Oggetto: Comunicazione di proroga del contratto di lavoro In riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato con decorrenza dal 29/03/2013 e scadente il 02/04/2013 con la presente Le comunichiamo che lo stesso contratto è prorogato fino al 15/05/2013 per la seguente motivazione: incremento di lavoro.

Da notare l’uso mal curato della punteggiatura: manca il punto alla fine della prima frase e almeno una virgola nella seconda. Ci sono inoltre parole poco usate nel gergo di tutti i giorni, come prorogato e decorrenza. Anche il gerundio scadente non è così facile da digerire, si potrebbe evitare. E si potrebbe riscrivere il tutto in modo più chiaro:

Oggetto: rinvio della scadenza del contratto di lavoro a tempo determinato.
Gentile sig. Mario Rossi, la informiamo che la scadenza del suo contratto di lavoro ha subìto una modifica: l’incremento di lavoro ha posticipato la data di scadenza dal 02/04/2013 al 15/05/2013.

La comprensione di quest’ultimo richiede certamente uno sforzo mentale minore rispetto al primo. Sarebbe molto più chiaro se ogni comunicazione venisse scritta con le parole di tutti i giorni e senza l’uso del burocratese, che ha il sapore di fregatura e di inganno. Purtroppo spesso si scrive anche per fregare e ingannare. E la gente ci casca.