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Le parole sono ovunque

Le parole sono ovunque, sui manifesti pubblicitari, nelle voci di sottofondo e nella nostra testa. E non sono mai parole e basta. Sono musica, significati e collocazioni, ricordi e suoni increspati nelle pieghe della vita.

Ad esempio, ci sono parole bellissime, come pastello e frangiflutti, e altre evocative, come grano o tramonto. Frangiflutti è una musica, la pronuncia scorre con una pausa intensa dopo le prime due sillabe, e la ripresa con il suono “fl” provocato dalla lingua che scorre dal palato verso i denti, ci piace sia nel gesto che nel suono. Ci piace sempre. La “L” è una lettera affascinante, amiamo pronunciarla e per questo molte parole che la contengono ci piacciono più di altre.
Pastello, dicevo. Ma anche ciò che evocano è altrettanto importante, perché martello, ad esempio, non è bella quanto pastello.

La “L” inoltre è anche leggera, sia nel suono che nella grafia. Molte parole che contengono con frequenza questa lettera diventano anch’esse leggere, come libellula.
Fatte eccezione per la “L”, troppe consonanti rendono le parole complicate e zoppe, soprattutto quando ci sono di mezzo le lettere “Z”, e “T”, che interrompono il suono – la musica – delle parole. Ottimizzare, assicurazione, trattore, torrefazione, zattera e zanzara sono ricche di spigoli e inciampi. Orizzonte no, il significato e i pensieri che evoca sono più forti del taglio provocato dalla doppia zeta.

Anche troppe vocali tutte vicine tra loro possono peggiorare il suono: ad esempio, ghiaia è terribile. Ma nella lingua italiana ci sono parole che contengono anche tutte le vocali e molte di esse sono bellissime, come estuario, sequoia e aquilone.

Come frangiflutti e pastello sono bellissime anche nuvola, lucciola, pagina e coccinella.
Ma ci sono anche parole orribili, come ruga, cranio e grattugia. Parole nostalgiche come lontano e tramonto – forse perché tutti i tramonti sono nostalgici -, o parole pesanti, come gravità e capitalismo. Altre sono rigide, come vetro, o eleganti, come perla, ma ce ne sono anche di fastidiose come spigolo, spina e microbo. Ne esistono anche di silenziose, come intimità, o altre sempre fuori luogo, come droga. Alcune hanno un suono curioso, come buco. Ci sono parole che pronunciamo con parsimonia, come rugiada e tepore, e altre di cui abusiamo, come cuore, amore e tumore. Potrei andare avanti all’infinito, dimenticando che le parole possono essere descritte con aggettivi anche improvvisati eppure precisi.

Le parole si impadroniscono del loro significato, o forse viceversa, ecco perché vanno scelte con cura. Pensa ad una parola come buio, che per me è quasi inquietante. Pensa alla sua capacità di inghiottire tutto il resto della frase. Rende il buio ancora più pauroso. Buio. Parola brevissima, quasi un tuono o un colpo di fucile, e in entrambi i casi c’è una luce, un abbaglio, in cielo o davanti ai tuoi occhi, e in un solo caso vieni attraversato da un proiettile, e poi tutto diventa buio per davvero.

Infine ci sono le parole non dette, e siamo tutti bravissimi nel sceglierle e soppesarle. Quelle non si trovano nei manifesti pubblicitari, nelle voci di sottofondo o nelle strade. Mi piace pensare che siano dentro la nostra testa, se così fosse sono davvero abili nel non farsi mai trovare al momento giusto. Eppure tornano, come echi lontani. Ne ho incontrate alcune in sorrisi mancati, in fotografie ingiallite e nelle linee sul viso che ci ricordano la vita è un soffio.

London, Museum of Brands

Ho appena letto l’interessante articolo “Londra da scoprire: Museum of Brands, Packaging & Advertising su Ninja Marketing”. Questo breve articolo mi ha ricordato un curioso aneddoto del mio ultimo viaggio nella capitale inglese.

A Londra ci sono andato tre volte e penso che ci tornerò presto. È una città in cui riesco sempre a fare il pieno di idee e quando mi trovo lì le mie Moleskine si riempiono di appunti, disegni e indirizzi.

Cerco sempre di visitare luoghi che non ho visto nei soggiorni precedenti, tra questi c’è anche il Museum of Brands, Packaging & Advertising di cui parla appunto l’articolo dei ninja. Ecco, avevo un’aspettativa altissima, sapevo cosa mi aspettava, avevo studiato le immagini presenti in rete e gli appunti di viaggio di tanti colleghi che mi hanno detto, tutti, “devi assolutamente andarci”. Questo per rendere l’idea di quanto fossi emozionato alla sola idea di mettere piede in un museo di cimeli riguardanti il mio mestiere.

Quella mattina mi sono alzato di buon ora, avevo già pronto il complesso piano per raggiungere il luogo (complesso perché in quei giorni alcune linee della metropolitana ero chiuse per lavori). Avevo anche cercato gli orari di apertura nella pagina Facebook e contavo di presentarmi all’ingresso poco prima dell’apertura, pronto ad evitare un’eventuale fila (che poi, mi hanno detto che la fila non c’è mai ma io sono un tipo paranoico e prudente).

Con qualche buffa combinazione di autobus sono riuscito a scendere a poche centinaia di metri dal luogo e con passo spedito l’ho raggiunto in pochi minuti. Da lontano ho intravisto l’insegna e ho subito notato una certa desolazione all’ingresso, cosa che negava una qualunque forma di fila per entrare. Non ho pensato nemmeno per un minuto che potesse essere chiuso. Nemmeno per un minuto. Solo quando sono arrivato all’entrata ho notato le luci spente e il cartello, piccolissimo, con scritto

closed on monday.

Ho così ricontrollato la pagina Facebook, dove non appariva da nessuna parte un ipotetico giorno di chiusura. Così ho provato a navigare il sito web e solo lì ho letto che il museo è chiuso proprio il lunedì.

Coglione io a non aver controllato prima il sito web o negligenti loro a non aver aggiornato la pagina Facebook?

Il sito web non è l’unico canale di comunicazione

Il giorno di chiusura è un’informazione fondamentale da fornire al pubblico, e questo vale per qualunque tipologia di attività: dal piccolo bar di paese al celebre museo londinese.

Sui social, belle immagini e belle parole servono a poco se le informazioni basilari dell’attività non vengono compilate.

Quindi, prima di pianificare un piano editoriale, prima di iniziare un percorso pubblicitario o di comunicazione, beh, ecco, sulla vostra bellissima paginina social, segnalate quando siete chiusi, così non distruggerete le aspettative del vostro pubblico. Ma soprattutto, fatelo su ogni canale web, non solo sul sito, perché il sito non è più il canale più ricercato dagli utenti.

Come si è conclusa questa storia?

Tornato in Italia, ho subito pensato di inviare un messaggio alla pagina del museo per segnalare di aggiungere l’informazione. Mi ero preparato un messaggio gentile e amichevole, ma quando sono andato sulla loro pagina ho trovato le informazioni aggiornate con la scritta “chiuso il lunedì”. Qui mi è sorto un nuovo dubbio: coglione io a non essermene accorto pochi giorni prima o bravi loro ad avere aggiunto l’informazione?

Non vorrei lodarmi eccessivamente, ma sono abbastanza sicuro che prima non ci fosse, perché nel mio diario di viaggio mi ero segnato i luoghi da visitare in base ai loro giorni di chiusura e alla loro posizione geografica.

Il messaggio carino e amichevole si è trasformato in un “perché cazzo non lo avete fatto prima?”. In tutto questo c’è però un lato positivo: ho un nuovo pretesto per tornare a Londra.

scrittura creativa

La creatività non è una lampadina che s’accende e si spegne. È piuttosto un percorso, un lungo esercizio. Non posso di certo metterci la mano sul fuoco ma l’esperienza in ambito artistico e professionale mi dice che è così. A mio avviso l’immagine della lampadina è un luogo comune che tenta di semplificare qualcosa di troppo complesso.

Per un copywriter, in particolare, credo sia impossibile distinguere tra scrittura creativa e scrittura non creativa. Nel senso: esiste forse una regola che segna il confine tra l’una e l’altra? Io non la conosco. Mi riesce persino difficile trovare una definizione convincente di scrittura creativa. Eppure spesso mi confronto con colleghi e altri professionisti del mestiere che marcano con orgoglio e sicurezza numerose sfaccettature della scrittura: creativa, tecnica, funzionale, SEO, tradizionale, professionale.

Sfogliando il mio portfolio trovo headline e bodycopy per campagne pubblicitarie on e offline, nomi di prodotto, nomi di aziende, nomi di eventi, concept di comunicazione, storyboard, copioni per video, testi per spot radiofonici, contenuti per siti web e landing page, testi tradotti dal burocratese all’italiano, payoff, call to action, articoli per riviste specializzate e per la stampa locale, manuali di istruzioni, locandine, discorsi per convegni e manifestazioni, progetti di lettering design, layout per preventivi e tonnellate di manuali per la comunicazione interna di imprese ed enti pubblici. Ecco, tra tutte queste cose, esattamente, cosa rientra sotto l’etichetta “scrittura creativa”? Cosa invece no?

Scrivere è sempre un gesto creativo

Quando scriviamo, in realtà, svogliamo un gesto molto più ampio. Scrivere è anche disegnare, creare mappe e percorsi di lettura, rassicurare. Questo perché, parafrasando Luisa Carrada, le parole prima si guardano poi si leggono:

“Anche una lunga e monotona relazione di lavoro può apparire invitante se scritta con il font più adatto, un titolo e un sottotitolo informativi, un abstract che riassume in 50 righe il contenuto di 60 pagine, spazi bianchi per far respirare e riflettere, box che evidenziano i punti più importanti, didascalie laterali che permettono di navigare tra i contenuti e trovare rapidamente quello che serve – Il mestiere di scrivere, 2007 © Apogeo”.

Lavorare al fianco di persone competenti di grafica e visual design aiuta a scrivere meglio, a disporre correttamente i paragrafi, ordinare gli spazi vuoti, crearne di nuovi ed eliminare il superfluo (sostituendolo talvolta con icone studiate ad hoc, come hanno recentemente fatto Widiba e CheBanca!). Lavorare accanto queste figure professionali aiuta a considerare la scrittura come qualcosa di visivo, e a capire che lo sforzo mentale richiesto per la creazione di una buona headline è lo stesso di quello necessario per scrivere i testi di un libretto di istruzioni.

Quando scriviamo, dicevo, facciamo moltissime cose: uniamo l’esperienza con il gusto personale, costruiamo un ordine gerarchico di significati che disponiamo secondo una precisa architettura visiva (layout). Disegniamo. Illustriamo. Facciamo chiarezza. Mettiamo in moto un processo che coinvolge il nostro sapere e il desiderio di raggiungere risultati eccellenti.

Ma allora cos’è la scrittura creativa?

Mi riesce difficile dare una definizione, penso però che lo scrivere in modo creativo, che non ritengo diverso dallo scrivere bene, abbia fortemente a che fare con l’esperienza. Le buone idee possono venire a chiunque, ma per concretizzarle (e venderle) è necessario lavorarle con le conoscenze acquisite nel tempo.

Non c’è una lampadina che si accende o si spegne, ma piuttosto una luce fioca che ci fa sempre compagnia, perché anche nei momenti di mancanza di ispirazione la macchina delle parole non si ferma mai, brucia carburante e produce milioni di frasi, talvolta bruttissime. L’esperienza ci aiuta a migliorarle, pulirle e trasformarle in periodi perfetti per il canale cui sono destinati.

come scrivere bene - david ogilvy

Nel diario di un copywriter ci sono appunti di ogni genere, anche insensati. Spesso si tratta di bozze, citazioni, consigli (di altri), disegni (solitamente pessimi), versi di canzoni, scritte indecifrabili che non hanno avuto il dono di incontrare una grafia elegante, idee per ipotetiche startup che non diventeranno mai startup e un mucchio di altre cose più o meno ordinate.

Le mie Moleskine sono piene di tutte queste cose, molte delle quali non attraversano mai l’evoluzione da cartaceo a digitale, ma ce ne sono alcune, come in questo caso, che trascrivo dalla carta a questo blog che è, a tutti gli effetti, un vero diario, proprio come le Moleskine, con la differenza che qui sul web le pagine non ingialliscono.

Da mesi e mesi trascrivo e ritrascrivo i consigli che David Ogilvy consegnò ai dipendenti di Ogilvy & Matther nel 1982. Semplicemente dieci velocissimi consigli. Come se per lui fosse davvero tutto li il segreto per scrivere bene, che di conseguenza significa lavorare meglio.

La traduzione che ho ricavato, tuttavia, non rende giustizia al suono ricercato dall’autore, per cui suggerisco di leggere anche la versione in lingua originale.

Come scrivere bene

Meglio scrivi e più carriera farai in Ogilvy & Mather. Le persone che pensano bene, scrivono bene. Scrivere bene non è una dote innata, bisogna imparare a farlo.
Ecco dieci regole:

  1. Leggi il libro sulla scrittura di Roman e Raphaelson. Leggilo tre volte;
  2. Scrivi come parli, in modo naturale;
  3. Usa parole brevi, frasi brevi, periodi brevi;
  4. Non usare parole come riconcetualizzare, demistificazione, attitudinalmente, giudicante. Sono il marchio di somari presuntuosi;
  5. Non scrivere mai più di due pagine riguardo un argomento;
  6. Controlla le citazioni;
  7. Non inviare mai una lettera o un appunto il giorno stesso in cui li hai scritti. Rileggili ad alta voce il mattino dopo e correggili;
  8. Se è una cosa importante, chiedi aiuto ad un collega per migliorarla;
  9. Priva di inviare la tua lettera o appunto, assicurati che sia assolutamente chiaro quello che vuoi che venga fatto;
  10. Se vuoi che qualcuno faccia qualcosa, non scriverglielo. Alzati e vai a dirglielo.

Non serve un genio per capire che i consigli di David Ogilvy vanno ben oltre lo scrivere ma si concentrano anche sul buon senso e l’educazione di ogni professionista, due concetti fondamentali per la salute di ogni ambiente lavorativo.

appunti di un copywriter

Le pagine delle mie Moleskine sono inzuppate di inchiostro e grafite. Frasi, pensieri, giochi di parole, appunti, nomi, disegni, briefing, esercizi per stimolare la creatività, cose che di solito hanno a che fare con il mio lavoro. Ci sono un sacco di annotazioni che si ripetono, scritte più volte da un taccuino all’altro, cose appuntate una volta, riaffiorate in altri fogli e diventate motivo di una nuova annotazione.

Se mi tornano a balenare nella mente, e le riappunto sul taccuino, dev’essere per un qualche motivo che, di preciso, non saprei descrivere, ma sono convinto, abbastanza convinto, che mi serviranno sempre.

Volevo scriverne un testo in prosa, ma mi rendo conto che è più semplice utilizzare un elenco puntato: riportandole in rispettoso ordine cronologico, ne trovo un senso che spiega il mio modo di operare nel mondo pubblicitario.

Effettivamente non ho mai redatto un manifesto personale, da rispettare e da consigliare a colleghi, clienti, amici o persone che capitano per mille motivi su questo sito o nella mia vita.

Chiamarlo manifesto è fuorviante. Ma di certo non si tratta né di regole né di consigli. Sono, piuttosto, appunti.

Appunti di un copywriter

  1. L’ego va messo da parte, sempre. I clienti non pagano per la tua bravura, pagano per i risultati.
  2. Il copywriter non è un barbaro. Nel senso sociologico del termine (inteso da Baricco nel saggio “I Barbari”).
  3. La creatività non (sempre) paga.
    La creatività non paga (molto).
    La creatività crea valore.
  4. Di umiltà non è mai morto nessuno.
  5. La “regola delle tre carte” non fallisce mai: prezzo basso, qualità, breve tempo. Ogni cliente ne può scegliere solamente due.
  6. La professionalità non passa mai di moda. Come l’etica.
  7. Salvo rarissime eccezioni, i libri che promettono di insegnare a scrivere bene (o in modo creativo, efficace e altri termini simili) non sono utili quanto i romanzi degli autori che sanno scrivere per davvero.
  8. Confessioni di un pubblicitario” è l’unico libro indispensabile. Il resto è tutto bla bla bla.
  9. Le persone che insegnano ad avere successo, hanno successo?
    Altra versione: quelli che insegnano ad avere successo, hanno un portfolio di spessore?
    Altra versione ancora: giacca e cravatta non fanno di te un professionista.
  10. Se non hai mai lavorato con la stampa, smetti di fare quello che stai facendo e lavora con la stampa. Devi toccare la carta, riconoscerne lo spessore, la porosità, l’odore. Devi capire come viene assorbito l’inchiostro e guardare i font deformarsi. Litigare con un art director sulla scelta dei colori e sulla posizione del testo.
  11. Raccontare è meglio di descrivere.
  12. Molte cosa sembrano innocenti, e sono invece visual design.
  13. È sbagliato mettere a confronto la stampa con il web, è giusto, piuttosto, cercarne la relazione.
  14. La storia dell’arte insegna più di un libro didattico.
    Altra versione: Van Gogh era un grande Art Director.
  15. Gli account pensano in modo totalmente differente dal tuo, ma spesso hanno ragione loro.
  16. Ci sono decine di font stupendi, non utilizzare solo Helvetica e Trade Gothic.
  17. Inventa progetti personali di comunicazione, servono a tenere in allenamento il cervello.
  18. Internet ha una memoria migliore della tua.
  19. SEO è una parola che ti farà imbestialire e una disciplina che spesso fa a pugni con la creatività. Eppure c’è, è meglio farsene una ragione e accoglierla, ma senza esagerare. In casi di emergenza rivolgiti ad un esperto SEO (che di solito non è un SEO writer).
  20. Le idee non finiscono mai. A volte sono timide, si mimetizzano, scappano e ti prendono in giro. Stando seduto non le trovi di certo, esci fuori, fai una passeggiata nella natura, di solito si nascondono dietro gli alberi.
  21. Le idee non si riciclano, vanno nell’indifferenziata.
    Altra versione: le idee degli altri sono sempre degli altri.
  22. La pubblicità pulita vince sempre su quella volgare.
    Altra versione: “il bene che c’è nel mondo supera il male, ma non di molto.” (cit. di Zalman Schachter-Shalomi).

Dicevo, sono frasi, bozze, appunti. Niente di più. Si sa mai che tornino utili a qualcuno.

Scrivere il titolo di un articolo non è semplice, soprattutto se ci tieni davvero a quello che scrivi, ancora di più se ne rispetti il gesto e la passione, o il mestiere.

In questo post non mi interessa insegnare la tecnica o i trucchi per farlo, non ne avrei mai il coraggio e la presunzione. Preferisco invece affrontare la tendenza che da un paio di anni a questa parte tempesta le redazioni di blog e magazine online: scrivere titoli (e articoli) sfruttando l’effetto elenco numerato.

Molti dei siti web che leggo quotidianamente lo fanno, spesso anche senza pietà, come Ninja Marketing che poche settimane fa riportava nella home page i seguenti titoli:

  • 6 modi per diventare leader di un team di sucesso
  • 5 storie che ti faranno venire voglia di cambiare vita
  • 10 app dalle quali c’è sempre qualcosa da imparare
  • 10 cose che gli startupper dovrebbero sapere
  • Love wins: 5 brand gay friendly prima che fosse mainstreem
  • I 6 gadget più cool per le vostre vacanze
  • 7 competenze social per lavorare nel mondo della musica

Su 20 articoli presenti nella home, 7 sono scritti con questa formula che non esito a definire acchiappa click.

Anche il seguitissimo Wired non è da meno, due settimane fa, nella home page spiccavano in ordine cronologico:

  • I 10 grandi film con trame impossibili
  • 10 ragioni per (ri)vedersi IT Cloud
  • 3 problemi matematici che ti faranno impazzire
  • I 5 consigli delle donne tech per lavorare (ed avere successo) nel mondo digitale

O ancora, su Agrodolce:

  • 12 trucchi per non piangere tagliando le cipolle
  • barbeque americano: 5 salse imprescindibili
  • 12 modi di cucinare i pomodori
  • 10 tipi di latte vegetale da provare
  • 20 varianti per ravvivare l’insalata caprese

Sul web di questi titoli se ne trovano a centinaia, perché funzionano, perché vanno di moda. O meglio: perché funzionano? Perché vanno di moda?

A mio avviso c’è una sola risposta per entrambe le domande:

Il mondo è un posto troppo grande per essere conosciuto tutto, eppure la voglia di leggere ed informarsi sembra non avere fine. Vogliamo conoscere e imparare nel minor tempo possibile. Preferiamo un elenco puntato ad un testo in prosa, e cerchiamo di spacchettare il sapere per leggerne solo le voci in grassetto, soltanto l’essenziale. Pretendiamo il controllo del tempo e temiamo che la lettura ce lo porti via.

I titoli con i numeri fanno risparmiare tempo, comunicano al lettore che l’articolo è semplice da fruire, che può essere letto in pochi istanti, e la promessa di un punto elenco rende tutto più leggero e ordinato.

Ecco perché funzionano e, di conseguenza, perché vanno così di moda. Perché questi non sono i giorni della prosa e della scrittura elegante, ma piuttosto i giorni dello schematizzare le cose, le storie, il sapere.

Tuttavia, la mia perplessità consiste nel fatto che questo meticoloso semplificare possa perdersi in un senso di superficialità.

E la superficialità è un batterio dello scrivere, diffusissimo, di quelli che fanno dimenticare il vero motivo per cui prendiamo in mano una penna o apriamo un foglio di testo.

Perché scriviamo.

Questo dovremmo sempre chiederci. Perché scriviamo?
E la risposta, che ci crediate o no, è sempre un titolo perfetto. Non ci sarà spazio per punti elenco o schemi numerati, salvo rare e obbligatorie eccezioni.

la traduzione dei nomi plurali inglesi in italiano

In questi giorni non si fa altro che parlare di cookie. Cosa sono, a cosa servono, come adeguarsi alla cookie law, eccettera eccetera.

Purtroppo e per fortuna, lavorando nel campo della comunicazione mi son trovato a leggere di tutto e di più sull’argomento, e la cosa che più mi ha colpito, per deformazione professionale, è stato leggere la parola cookie con la S plurale, cookies.

Siccome sono pignolo, secondo alcuni eccessivamente pignolo, ci tengo a chiarire che cookie è un termine inglese ormai d’uso anche nell’italiano tecnico, e come altri nomi inglesi segue una sola regola:

in italiano, i nomi stranieri sono invariabili.

Questa affermazione è testualmente tratta da “Italiano – corso di sopravvivenza” di Massimo Birattari (la Bibbia per chi scrive, e non solo) e come tutte le regole è ricca di eccezioni, soprattutto per lingue come il francese o lo spagnolo, ben evidenziate nel volume. È anche una questione di orecchio, perché frasi come ho comprato due computers fanno davvero venire i brividi. O anche ho parlato con gli art directors, brrr, o ancora i festivals estivi, aiuto! C’è poi chi scrive Ronaldo ha fatto due goals, quando esiste anche l’italiano gol (guai a chi scrivi gols!).

Probabilmente è capitato a tutti di soffermarsi a riflettere sulla questione e di cercare online diverse definizioni. Il consiglio per non sbagliare è sempre quello di utilizzare di più il dizionario e ricordarsi che i nomi inglesi, al plurale, sono sempre invariabili, niente S finale. Punto.

Quindi, tornato alla parola cookie, anche nel caso fossero dieci, venti o centomila, restano sempre cookie, mai cookies.