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Il dizionario dei sinonimi e contrari è un’arma pericolosa, ricco di munizioni, idee e parole in grado si salvarci da noiose ripetizioni, ma pieno zeppo, pure, di trappole e mine nascoste tra le parole. Servono esperienza e attenzione per scovarle e per disinnescarle. È che a pensarci con un pizzico di pignoleria e di amore per significati e significanti, i sinonimi non sono mai abbastanza sinonimi. Sono finti amici. Non dobbiamo cercarli a tutti i costi, sarebbe come cercare una persona identica a noi stessi, non c’è e non ci sarà mai. Simile, magari, con certe qualità e somiglianze, può darsi, ma mai identica. Allo stesso modo, i veri sinonimi non esistono. C’è sempre una minima differenza, talvolta sottile e apparente come tra assicurare e rassicurare (che si costruiscono e si usano in modi differenti), o anche tra polpo e polipo (si pensi al significato in medicina di quest’ultimo). Non è dunque sufficiente sceglierli con cura, ma è necessario cercarne il significato e l’origine, approfittando di tutte le informazioni incastonate nel dizionario di italiano e in quello etimologico.

Tornando invece alla ricerca di un sinonimo di noi stessi, una sorta di gemello fisico e spirituale, esiste uno strumento che ci viene in soccorso, Facebook, sul quale vale sempre la stessa regola: per quanto evidenti e apparenti siano le analogie e le affinità, andando a scavare in profondità si scoprono sempre, con una precisione matematica, acute e disarmanti differenze. Viene da pensare che bisogna fidarsi molto di più dei sentimenti e delle intuizioni (della propria cultura e della propria anima) che di quelle guide che dovrebbero facilitarci il vivere e lo scrivere.

Antonio percepì che involontariamente era scappata una parola di troppo, e subito pensò a Melissa e Mattia, poi a Michele, poi al figlio che non aveva mai avuto, al bambino inteso come figura, come immagine in sospensione nel mondo, di cui è figlio e futuro, di cui è meraviglia e trasposizione di quell’amore, quel grande amore che supera ogni tentazione e s’impadronisce di un’immensa forma di benevolenza. La stessa con cui dovevano essere stati concepiti poi forgiati il mondo e l’universo. Un bene intenso e grave, di smisurata lunghezza e cieca profondità, talmente grande da non poter essere visto o toccato, ma solo percepito, percepito, come solo si percepisce la fede, si percepisce Dio.

Che non si vede ma chi ci crede lo sente, dentro, lo percepisce con un senso che non ha nulla a che fare con qualcosa di sensoriale, ma pulsa in profondità, in profondità, giù, giù nella gola e poi nell’anima, dentro alle ossa, nei polmoni e in ogni respiro, ogni respiro, magari un soffio, un fiato, uno spasmo, un istante, un segreto, un movimento impercettibile di un nervo, uno scatto improvviso di un dito, la punta di un dito che si muove senza volere e indica qualcosa, indica un punto, una direzione, e lì in quel sentiero non c’è niente che si vede con gli occhi ma si percepisce, si sente che c’è, capisci? Capisci questa cosa?

È tutto qui, non si può spiegare se non con le parole, con qualche esempio, ma solo con le parole perché sono l’unica formula in grado di descrivere questa cosa. Se parlassi di un castello, se mi riferissi ad una cosa che è possibile costruire, con i mattoni, la carta o la sabbia, la costruirei identica per farti capire questa cosa, e invece quel percepire non lo puoi lasciar percepire a tua volta, agli altri, non puoi, e allora sei costretto a descriverlo, con un esempio una storia una religione una filosofia un pensiero magari una poesia o anche un solo sguardo ma lo puoi solo descrivere con una certa forma di comunicazione si quella comunicazione fatta di tasselli che sono poi lettere e parole e frasi e versi tutti insieme uniti magari senza punteggiatura si senza punteggiatura perché nel descrivere queste cose non si sa mai se e quando andare a capo. Se e quando si può andare a capo. Se capisci quello che intendo. Antonio la pensa così, su tutta quella questione dei bambini.

Scrivere è una piacevole abitudine e trascurarne il gesto è come strappare via un tasto da un pianoforte.

Suonaci ora, sul quel pianoforte, che non è di quelli antichi, in cui il tasto mancante è un elegante segno di antiquariato. Devi suonarci ora, su quel pianoforte moderno e luccicante, privo di un tasto, mettiamo che sia un re diesis, stai tranquillo che presto o tardi ti capita, anche nel più banale degli spartiti.

Da quando sono stati introdotti i software di dettato negli smartphone, come Siri, si tende a scrivere un po’ meno. Basta dettare o anche dare un ordine vocale e il telefono esegue con tiepida precisione. Effettivamente è una grande tecnologia, un superamento del brevetto QWERTY di Christopher Sholes. Io detto, lui scrive. A pensare quante macchine per scrivere deve avere consumato Sholes per trovare il giusto ordine delle lettere sulla tastiera mi viene la febbre.

Ma gli inventori e gli ingegneri hanno il compito di facilitare e velocizzare ogni azione, e l’unico prezzo da pagare, nel tempo, è la perdita del gesto, in questo caso del sedersi con i gomiti sul tavolo e iniziare a scrivere, con carta e penna o monitor e tastiera. Quei gesti li. Io parlo lui scrive, non c’è nemmeno più bisogno di appoggiare i gomiti. Poi però lo voglio vedere nelle ore notturne, quando in casa tutti dormono e io scrivo, no cioè parlo e lui scrive, ma non posso far baccano e detto sottovoce, capirà?
Si perdono i gesti, come il posare la puntina sul disco, o il rumore dei polpastrelli che nella fioca luce della abat-jour martellano sui morbidi rilievi della tastiera. E ci si ritrova a suonare su pianoforti senza un re diesis, che quando serve, non c’è.

“Non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute, per colpa o per destino le penne le ho perdute”.

Le Bic blu. A centinaia, così tante che potrei definirmi un endorser, ma le penne non me le hanno mai regalete, e nemmeno le parole. Costano così poco, le Bic, costano ancora meno ma valgono molto di più, i versi e le frasi. Quante ne ho usate. Finite e sfinite, mangiucchiate, rosicchiate e rotte, perse, prestate dimenticate lanciate e regalate. Quanto inchiostro, a fiumi, densi e scuri, di color blu navy. Le penne rosse o verdi non mi sono mai piaciute, nemmeno per correggere. Quelle nere poi, le detesto, ci vedo una tristezza in quel loro graffiare e tingere di un nero che non è mai nero per davvero, tende certamente ad un lucido fumo di Londra, e non dà vigore e colore, per definizione, al testo.

Anche se ho smesso di scrivere a mano dopo l’ultimo esame universitario, e se ci riprovo dopo pochi minuti i tendini cominciano a incazzarsi, l’appuntare e l’abbozzare non smettono mai di riempire manciate di minuti in ogni mia giornata. Come se dovesse pur sempre rimanere un tratto analogico in ogni gesto del quotidiano. Che per me è gesto di nobile piacere, di lavoro, e di passatempo. La velocità che raggiungo con la tastiera del computer, la comodità dei tasti morbidi e il rumore dei polpastrelli che colpiscono i martelletti gommati raggiungono perfezioni che la mia Bic blu nemmeno si sogna. Eppure rimane sempre lì nel mio portapenne, assieme a gomma e matita, che hanno lo stesso compito della Bic, perché io non disegno, non sono proprio capace, ma a volte quello che scrivo e attraverso con la penna capita che lo eseguo con la HB 2.

E ora non sto a parlare di grafite e durezza, ma solo di un’instancabile e continua permanenza della mia Bic blu, a cui devo qualche riga di omaggio, perché più di una volta mi ha salvato, dall’impazzire, dallo scrivere di fretta, dal gettare parole istintive e da tutti quegli errori che si commettono per non badare mai al fatto che compiere certi gesti con calma ci aiuta a respirare. Ossigenare. Quando parlo non riesco a misurare, dosare e contenere le parole, proprio come quando scrivo al computer. Ma se uso la penna blu, quella Bic fedele e sincera inforcata a testa in giù nel portapenne, solo allora, evito di esplodere, com’è già accaduto, assieme a tutte le lettere e le frasi compresse nella mia testa, ben legate da una miccia che conduce al centro della sfera, centro di gravità fatto di tritolo e disperazione, quasi follia, che se esplode non c’è speranza, ma solo assenza ed una lunghissima rincorsa a raccogliere tutte le lettere sfuggite via. Ricomporle secondo il giusto ordine. E quando tutto torna al suo posto, è sempre troppo tardi.

(Non me ne voglia Francesco Guccini per lo scempio che ho commesso)

Votare è un dovere, un diritto. E tutto quello che ne consegue è effettivamente qualcosa di importante che ha più o meno a che fare con il volere, e il potere. Votare è in alcuni casi il gesto che da il senso alla giornata degli uomini soli. Di certi uomini soli. Che seduti sulla poltrona davanti alla tv un po’ spenta un po’ accesa controllano lo scorrere del tempo con il palinsesto televisivo e i programmi che si susseguono e rincorrono, ma mai si raggiungono e mai s’incontrano, passano uno alla volta e mai assieme, in una triste e buffa solitudine.

Certi uomini soli nel giorno delle elezioni indossano l’abito migliore, scelgono persino il cappello più adatto per l’occasione, solitamente dalla trama scura e tenebrosa, che nasconde dietro al velluto buio gli occhi e lo sguardo. Stringono forte tra le mani la scheda elettorale, la leggono e la rileggano, cercando di ricordare ogni data timbrata al suo interno. Cercando di rianimare un flashback di tutti quei giorni così simili e lontani. E pensare a quel singolo momento in cui si trovano ora, a come sia stato possibile arrivare sino a li, e superare tutto quel dolore e quella fatica, quel sudore e quei tormenti, le voci e gli avvenimenti, uno per volta in fila e a ripetizione, come i programmi televisivi. Votare è l’unico impegno della giornata, e in quell’azione c’è un certo orgoglio e una certa importanza di un singolo gesto, e tutto il resto, poi, conta ben poco.

Nell’incertezza politica si leggono i programmi elettorali e i sondaggi.
Nell’incertezza sul da farsi si leggono gli oroscopi, le notizie dei giornali e i numeri della lotteria.
Nell’incertezza del lavoro si leggono annunci e offerte con speranza e disperazione, voglia, bisogno o ambizione.
Nell’incertezza del tempo si legge il cielo, i suoi colori e le direzioni dei venti, la quantità e la densità delle nuvole, la loro trama che tende o alla panna o al piombo.
Nell’incertezza dell’orario si leggono gli orologi con o senza lancette, i tabelloni alla fermata dell’autobus, le targhette sulle porte dei negozi.

Nell’incertezza su quanto si conosce e quanto non si conosce della vita si cerca di leggere tra le righe, anche quando non c’è davvero niente da leggere, quando non ci sono nemmeno le righe, e le linee, ma solo imponenti discorsi di una certa poesia ed elevazione, e tutto quello che c’è da capire non si nasconde affatto.

Nell’incertezza di ogni giorno si leggono segnali stradali, messaggi pubblicitari e grandi manifesti, si cercano parole di consolazione a domande sempre differenti che alla fine hanno tutte a che fare con il motivo per cui ci troviamo in un posto e spostiamo in un altro.
Si leggono ovunque notizie, orari, segni, preghiere, immagini, paesaggi, situazioni di ogni genere, si codificano apparenze e casualità, distanze e mancanze, così tanto, così a lungo, che capita con incessante severità di non leggere più dentro sé stessi.

Michele guardava la luce affievolirsi, la fissava mentre cambiava colore e filtrava con sempre meno tenacia dalla porta d’ingresso del Circolo Kappa. Sembrava avere una sorta di conto in sospeso con le ombre delle tazzine sul bancone. Non le perdeva di vista un secondo, studiando l’allungarsi delle ombre e quel loro impazzire come fiamme di teatrale oscurità ogni volta che qualcuno passava davanti all’ingresso e faceva da scudo ai raggi di sole. Ombre come fiamme impazzite. Sempre più lunghe, e fredde, fievoli. Se ne stava buono lì anche parecchi minuti nella stessa posizione con lo sguardo fisso su qualcosa che solo lui conosceva. Fermo lì e vai a capire cosa gli passava per la mente. Di tanto in tanto perdeva la concentrazione, e sbadigliava, controllava che il delfino appeso al collo di Lara Loire fosse sempre al suo posto e lo replicava a memoria nella mente. E pensava alla forma della sua ombra se si fosse trovato sul bancone accanto alle tazzine. All’ombra di un delfino, che s’allunga fino a gettarsi via dalla superficie del banco e scivolare via da qualche altra parte. Come tuffarsi nel pavimento, mare di ogni ombra.

Anche i colori non hanno senso e intensità, non bastano più e non servono con un cielo di perla sopra l’erba e sopra l’inverno. È un pretesto per restare al freddo, è una scusa per congelarsi e non congedarsi da ciò che vorremmo ibernato tra l’erba umida di nebbia e madida di noia. È solo un cielo color perla, che rende il mondo più freddo e più fermo, guardato attraverso un filtro più demoniaco dell’oscurità. Perché non c’è mattino e non c’è sera sotto il cielo perlato, le ore disperse in una miscela di lancette oliate, solo la notte è reale, quando è buio per davvero e non si ha paura. Nessuna paura perché ci si barrica in casa con la tv accesa. Ma di giorno si sta come cani senza guinzaglio fuori dal recinto. Fuggiti e fermi, immobili, tra la nebbia e le colline, con una zampa alzata, e piegata, a tenersela vicina al cuore, come a sentire se batte ancora e quanto, per la paura e gli orrori degli inverni, freddi lunghissimi e interminabili, che attraversano le ossa e i polmoni, fracassano muscoli e tendini per trovarsi faccia a faccia con l’anima. E cosa si raccontano non lo saprei dire, e nessuno ne parla mai, o nessun altro mai è tornato dall’aldilà per raccontarci, raccontarmi, di come sopravvivono le stagioni.