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Me lo avevano già detto all’università, un professore di Costruzione del Messaggio Pubblicitario una volta mi disse qualcosa tipo

i libri che promettono di insegnare a diventare creativi, a scrivere bene e a persuadere le persone, sono tutti un lungo bla bla bla.

Quel professore mi aveva segnalato un solo testo, uno soltanto, datato 1962: Confessioni di un Pubblicitario di David Ogilvy. In un modo pazzesco, quel professore aveva ragione. Anche dopo la laurea ho continuato a studiare, investire tempo e denaro in libri di ogni genere, e ho scoperto che tra quelli di content marketing  e scrittura creativa non c’è alcuna differenza. Tutti riportano più o meno gli stessi esempi, stesse citazioni (anche di Confessioni di un Pubblicitario), e stesse promesse.

Non ne comprerò più uno che parli del mio lavoro. Almeno per un po’. Studierò invece tutti i contorni di esso. Un workshop di scrittura comica per racconti brevi e copioni teatrali, diretto da Stefano Benni, mi ha insegnato molte più cose sul mondo pubblicitario che le milioni di pagine dei libri didattici. Molti romanzi che ho letto, soprattutto i classici, si sono rivelati i migliori insegnanti, i migliori esempi. Credo che non ci sia nessuno che può insegnarti cose come lo stile, il gusto, la punteggiatura. Queste sono cose che maturano nel tempo, in base alle esperienze della vita, alle persone con cui ci si relaziona, ai libri. Quei libri. Quelli che non nascono a scopo didattico ma raccontano la mente di uno scrittore, un romanziere. Quelli che in una sola frase rinchiudono il senso di un intero discorso:

L’unica cosa importante è scrivere bene.

Facile a dirsi. Ma è tutto li. Credo che nessuno si debba mai permettere di dirti cosa scrivere, e come farlo. Quello che si può imporre, al massimo, è di scrivere in maniera corretta. Lo stile appartiene ad ognuno di noi, ed è unico. Poi tra le mille pieghe della vita lo si infarcisce con le influenze degli scrittori, attori, registi o inventori che ci hanno emozionato. Si, anche gli inventori, e i matematici. La vita di Nikola Tesla mi ha emozionato: lui voleva scoprire un’energia unica, l’etere, capace di comprendere e magari sostituire tutte le altre forme di energia in natura. Proprio come ridurre tutti i concetti, i libri e i metodi sullo scrivere in un’unica frase: scrivere bene. Una frase di due parole e 13 caratteri, tanto per azzittire anche Twitter.

Scrivere bene. Quello che vuoi, quello che devi, dalle email agli sms, dal biglietto d’amore al graffito sul muro. Scrivere bene. Metterci tutti gli aggettivi che si vuole, per poi capire quali servono davvero e quali no. Scrivere bene e leggere ad alta voce. Leggere come se fosse l’ultimo grappolo di parole che ci passa sotto gli occhi. Scrivere come se fossero finite tutte le parole del mondo. Scrivere e leggere ad alta voce, per capire se le frasi scorrono con una certa eleganza e una ricercata precisione.

Scrivere bene. A farla breve. Scrivere.

Ho letto quasi tutti i libri di Cormac McCarthy, quasi. E per tre volte mi è capitato di pensare, appena un attimo dopo aver letto l’ultimo capoverso, qualcosa come “non ho mai letto nulla di così intenso, e bello”. O qualcosa del genere. L’ho pensato dopo aver terminato Non è un Paese per Vecchi, La Strada e ora, di nuovo, al termine di Cavalli Selvaggi (Einaudi, 1996). Sarà per la pulizia del testo, lo spogliarsi delle dense descrizioni che hanno caratterizzato altri scritti di McCarthy, o anche per l’affluenza delle solite frasi straordinarie che svelano segreti della vita, della sua, che vorresti avere anche tu, ma son segreti, e non saranno mai tuoi. O miei. La cosa che più mi ha colpito è la raffinata descrizione di un amore nella sua essenza più primitiva e nella sua durezza più feroce. Senza tanti giri di parole, o metafore, l’autore crea un desiderio immenso senza smielare la narrazione.

Le giurò che se gli avesse affidato la vita non l’avrebbe mai tradita né abbandonata e l’avrebbe amata fino alla morte e lei disse che gli credeva. […] Loro tirarono le tende, fecero l’amore e dormirono abbracciati. Si svegliarono all’imbrunire. Lei uscì dalla doccia avvolta in un asciugamano, si sedette sul letto, gli prese la mano e lo guardò. Non posso fare quello che mi chiedi, gli disse. Vorrei. Ma non posso. Lui percepì chiaramente che quel momento era l’esito di tutta la vita e che dopo non c’era più nulla.

E che dopo non c’era più nulla. In questa frase c’è il senso dell’amore, l’ampiezza, la portata nella vita di un uomo. Qualcosa che riempie ogni senso. E ognuno capisce benissimo di cosa sta parlando. Senza descrizioni, senza colori, e forme, o piani, ogni lettore capisce perfettamente – perfettamente – questo senso di vuoto, l’orizzonte opposto della felicità. Con la stessa durezza Cormac affronta un instancabile legame fra l’uomo e la natura, fra l’uomo e il male, e Dio.

Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore.

C’è un viaggio a cavallo, con due protagonisti, una donna – Alejandra, con i suoi occhi che possono in un batter di cuore sconvolgere il mondo -, c’è un grande silenzio, e la speranza di un mondo migliore che, di solito, non arriva. Ci sono quelle cose che non cambieranno mai, e tanta sofferenza, in ogni sua forma, misura e dimensione. Non mancano gli spari, e il sangue, le questioni d’onore, e ancora attesa, un treno che arriva e se ne va portandosi via qualcosa di profondo che ha a che fare con l’anima.

Neanche finito di leggere MrGwyn ed ecco una nuova pubblicazione di Alessandro Baricco. Tra le pagine “del romanzo con le lampadine” avevo intuito che i conti non tornavano, che c’era qualcosa che, effettivamente, mancava. Come se Baricco non ce la volesse raccontare tutta. Proprio nel finale, pazzesco, c’era questo titolo che si ripeteva in continuazione, Tre volte all’alba. Una ripetizione ridondante che doveva chiarire questa mancanza che il lettore percepisce  sempre più pagina dopo pagina. Tre volte all’alba, che, stando alla storia narrata in MrGwyn, è il titolo di un libro scritto da uno scrittore “mascherato”. Un titolo che esiste nella storia ed ora, magicamente – marketing, ad essere precisi – è realtà. Un libro raccontato è ora un libro reale. Che tutti possono leggere.

Io ne parlo e ancora non ce l’ho tra le mani. E ho una voglia pazzesca di leggerlo. So già che mi piacerà da morire. Senza averne letta la trama so già di cosa parlerà: del gesto, stupendo, dello scrivere. Precisamente, del gesto di Alessandro Baricco.

Allora sollevò lo sguardo da quelle righe e capì che tutti i ritratti fatti da Jasper Gwyn sarebero rimasti nascosti, come lui aveva desiderato, ma due lo avrebbero fatto in modo singolare, girando per il mondo cuciti segretamente nelle pagine dei libri. Uno lo conosceva molto bene, ed era il suo. L’altro l’aveva appena riconosciuto ed era il ritratto che qualsiasi pittore prima o poi prova fare – quello a se stesso. Da lontano, le parve, si guardavano, una spanna sopra tutti gli altri. Adesso sì, pensò – adesso è come non avevo mai smesso di immaginarla. – MrGwyn, A. Baricco

L’ho incontrato una volta sola, Alessandro Baricco, in un bar qualunque, mi piace pensare sia stato un caso. È successo un paio d’anni fa, a Cattolica, e alla domanda faresti una foto con me?, ha negato di essere sé stesso. Come se quel pomeriggio non gli andasse di essere Alessandro Baricco. L’ho odiato. E pensare che i suoi libri spiccano tutti nella mia libreria, li tengo accanto a quelli che mi hanno lasciato qualcosa, accanto a McCarthy, per rendere l’idea. M’ero anche promesso di non comprare più nulla di suo. Tuttavia la delusione dell’incontro non ha inciso sull’ammirazione dello stile. Pochi giorni fa, a denti stretti e con ancora un velo di rabbia addosso, ho comprato Mr Gwyn. Un’amico mi ha letto una frase, una sola, che mi ha condannato all’acquisto:

Ogni tanto qualcuno lo riconosceva, e allora lui negava di essere chi era.

Boom. È stronzo e non lo nasconde, ho pensato. Poi però, con una precisa riflessione, ho cominciato a pensare ad una sorta di perdono. Ecco dunque Mr Gwyn tra le mie mani.

Il protagonista è davvero pazzesco, conquista per la sua visione dell’arte e delle piccole cose, per il suo nascondersi dai riflettori e per i gesti, incredibili, e i dialoghi, assurdi. Un personaggio talmente gustoso che a metà libro scompare. Basta, da metà libro in poi non c’è più. Come se fosse fisicamente scappato dalle pagine. È come le cose di cui ci si innamora, quelle che a un certo punto della vita scompaiono e non tornano più. Lui passa la staffetta ad uno splendido personaggio femminile, Rebecca, una sorta di Lisbeth Salander ma più dolce, e più grassa. Mr Gwyn è un romanzo (breve) che riassume la carriera dell’autore, con personaggi curiosi come quelli di Castelli di Rabbia e Oceano Mare, la sottile drammaticità di Emmaus e le dinamiche di City. Pazzesco e perfetto, non ci sono altri aggettivi.

Nella cura dei dettagli trovava immediato sollievo. Questo lo portava, alle volte, a raggiungere vette di perfezionismo quasi letterario. Gli accadde, ad esempio, di trovarsi davanti a un artigiano che faceva lampadine. Non lampade: lampadine. Le faceva a mano. Era un vecchietto con un lugubre laboratorio dalle parti di Camden Town. Jesper Gwyn l’aveva a lungo cercato, senza neppure sapere se esistesse, e alla fine l’aveva trovato. Quello che aveva in mente di chiedergli non era soltanto una luce molto particolare – infantile, avrebbe spiegato – ma soprattutto una luce che durasse un certo tempo determinato. Voleva lampadine che morissero dopo trentadue giorni di funzionamento.
– Di colpo, o agonizzando un po’?, chiese il vecchietto, come se conoscesse a fondo il problema.

Credo che ogni città abbia con sé una certa magia, un’intensa bellezza che può nascondersi in cose anche banali, è solo questione di trovarle. Mica c’è bisogno di un monumento, una torre, la barriera corallina o cose del genere. Quelle sono altre cose. Io parlo di quello che c’è per le strade, i negozi, le luci, i neon, i profumi, cose così. Mi ricordo quando qualche anno fa alle 5 del mattino rientravo in albergo passeggiando tra le vie di Milano, e ho visto una delle albe più intense della mia vita. Cioè, sono abituato a veder sorgere il sole dal mare – e questo la dice lunga – ma quella mattina li, tra i palazzi annoiati di Milano, c’era una costellazione di colori straordinari che sfondavano le strade, e tutto era, incredibilmente, lilla e perla. E mi viene in mente quel paese sperduto ai confini di Londra, Swan Place, due strade che s’incrociano e decine di negozi di fiori, un laghetto con i cigni che danzano silenziosi, un caffè con dei muffin fatti in casa, l’odore caldo del cioccolato fuso. Questa magia qui.

Non ho mai creduto di riuscire a trovare meraviglie del genere anche in città apparentemente fredde e mute, come Pesaro, che per certe cose mi ha sempre lasciato indifferente alla sue nebbie ed i suoi silenzi. Viverci così, però, qualche giorno alla settimana, mi ha cambiato il modo di vedere le cose e insegnato ad usare tutti e cinque i sensi, cosa che prima non mi era capitato mai. Pesaro e l’odore di cipolla all’ora di pranzo per le vie del corso, si sente solo odore di cipolla, non ne si capisce il motivo. Non è nemmeno un granché per chi come me la odia, ma la cosa mi fa quasi sorridere. Il mare invece, a Pesaro, credo sia molto più salato, o qualcosa del genere, perché al porto e sulla spiaggia lo senti conficcarsi nelle tue narici e ti rimane li per ore, quel calore bianco salato. E come ti allontani dalla spiaggia arriva quello di cipolla, e basta. Mare e cipolla, pazzesco.

Pesaro è ferma, muta, silenziosa, a volte sembra che non ci viva nessuno. Bisogna toccarla per sentire che effettivamente c’è. E se si trova gente lungo il corso, o una fiera nella piazza del centro, vige sempre una certa calma, un preciso equilibrio che non ho mai visto spezzarsi. Ma la cosa più bella è che ci sono decine e decine di librerie. I libri. Ci sono ancora persone, a migliaia direi, che amano comprare libri e toccare la carta nuova con l’odore di fresco tra le pagine ed il sapore giallognolo delle librerie. Se a Swan Place ad ogni cinquanta metri ci trovi un negozio di fiori, nel cuore di Pesaro ad ogni dieci passi ci trovi una libreria.

Questa cosa delle librerie mi fa pensare a quanto cavolo debbano leggere i pesaresi. Quanto tempo debbano trovare, nella loro vita, per leggere. Come se le persone si riprendessero il proprio tempo. Penso a tutte quelle pagine sfogliate, alle dita che scivolano sulle parole e sulle copertine, e tutto quello scrivere che attraversa le persone, al fermare la frenesia e squarciare la nebbia, con i libri. Sembra una cosa da niente, ma se invece ci pensiamo proprio bene è qualcosa di grandioso. È un’armonia, un ritrovare sé stessi. Ritrovarsi in una città che forse ha la forza di rompere la velocità e i rumori. Gli unici suoni che si elevano sul sottofondo della quotidianità sono le note che trapelano dal conservatorio Rossini, una gran confusione a dirla tutta, di fiati ottoni e voci.

È un’atmosfera inquieta e ansiosa, certe volte. Non è facile capirla, Pesaro. Ci sono ancora alcuni conti che non mi tornano, come ad esempio dove cavolo vadano le persone la sera, o come facciano (quelle poche che passeggiano) a non far rumore. Non c’è nemmeno il McDonald’s, forse si sono dimenticati di Pesaro anche loro. Forse se ne sono dimenticati in tanti. Forse sono in tanti che si sono dimenticati di leggere. E di usare tutti e cinque i sensi quando si cammina per le vie di una città. Sembra che stiamo accusando problemi di percezione, del sentire come i posti vivono, e come noi viviamo mentre attraversiamo le strade e i corsi del centro.

Non lo so di preciso che diamine stia accadendo, quando tutto cambierà magari avrò più chiara la questione. Perché solo quando le cose cambiano si capisce cos’è che davvero viene a mancare. Forse è per questo che Pesaro è immobile, e zitta, credo che non voglia cambiare mai, per non perdersi.

Ieri stavo passeggiando sulla spiaggia, mano nella mano con Angelica, per un istante ho lasciato la presa, mi sono abbassato per raccogliere una conchiglia e m’è sembrato come se stessi raccogliendo la mia anima.

Dove finisce la terraferma inizia il mare. Tra i due s’intromette una linea sottile, fatta di porti e vecchie taverne affollate da pescatori e marinai. E tra le onde dell’oceano è possibile ritrovare l’anima perduta nel ventre della terra. Con questa consapevolezza cullata nella prigione intercostale, marinai, pirati e commercianti affrontano i pericoli dei mari, affrontano le tempeste e i mostri marini, calamari giganti e Leviatani. Sfidare tutto ciò è un po’ sfidare la natura, sfidare Dio e la morte, che visti dalla prua di una nave sono esattamente la stessa cosa. La natura dio e la morte. E poi i mostri. C’è un capodoglio, enorme, bianco neve, Moby Dick.

Se esiste un mostro c’è anche qualcuno che lo vuole sconfiggere. Qualcuno che sfida la natura, o Dio, o la morte. Melville ha costruito un suono unico che riusciamo tutti ad immaginarlo con una certa profonda precisione: è un colpo, la gamba di legno del vecchio capitano Ahab di Nantucket, colpisce con divina regolarità le assi del ponte del Pequod, nave quasi fantasma descritta con maestria in ogni suo nodo del legno. Un colpo ogni due passi, uno con la gamba viva, muto e silenzioso, l’altro con la gamba morta, che affonda un suono cupo quasi fosse l’urlo di un demonio. Come se la vita fosse un soffio quieto e la morte una caduta tra le fauci di una bestia.
Ahab è molto più di un capitano, è un uomo ferito nell’orgoglio, è un castello di sabbia che vuole resistere ad un uragano, è ognuno di noi. Sarà sempre ognuno di noi.

Per 600 pagine Melville descriva Moby Dick in tutto il suo terrore, bianco, la descrive senza farla vedere mai, nemmeno da lontano. Perché il male, bianco, è impregnato nelle pagine e nelle parole. Ce n’è talmente tanto che quello che il lettore percepisce non è il timore verso la balena, ma verso il suo cacciatore. Ahab. Io tremo pensando al capitano Ahab che in una notte di fulmini e tempesta grida all’equipaggio <<V’è un Dio che è padrone sopra la terra e un capitano che è padrone sul “Pequod”>>.

Ahab è cocciuto, ingordo e crudele, è al confine della sua cupa esistenza e quello che v’è oltre non è il chiarore del Paradiso ma il colore latteo di Moby Dick. Il male è bianco. E Ahab che riassume l’insofferenza di tutti gli uomini, è vivo ed è oscuro. Un gioco di colori  e significati capovolti, per 600 pagine. E proprio dopo tutta questa lunghissima e incantevole prosa, a meno di cento fogli alla fine, arriva, la balena bianca, stupenda e meravigliosa. Arriva mostrando la sua gobba, “una collina di neve”, come se fosse la morte a salire in superficie e strizzare l’occhio dall’orizzonte. Le ultime pagine sono tutte dedicate alla sua caccia, alla lotta tra la follia dell’uomo e la ragione celeste, tra il bianco e il nero, il nero e il bianco, Ahab e Moby Dick, la vita e l’ingiustizia, l’uomo e la natura, l’uomo e la morte, la morte, la nave affonda in un vortice spietato, e il male non potrebbe mai avere alcun colore, neppure il nero, no, mai il nero, solo, silenziosamente, il bianco.

Immagine: particolare di una foto di Marco Morosini, designer.

Penso alle grandi biblioteche e al loro odore sepolcrale di carta invecchiata, alle copertine rovinate e rugose, ricoperte di plastica dilatata e squarciata, le pagine ingiallite e quel romantico mistero che avvolge ogni volume. Penso al peso di tutte quella carta e inchiostro, ai mobili inclinati, distorti e dirottati dal carico della cultura. Librerie immense e infinite, come cimiteri viventi o parcheggi in affitto, versi in libertà vigilata. C’è qualcosa di magico e meraviglioso.
Penso agli anni che passano e all’inesorabile destino dei vinili, delle musicassette, e dei videoregistratori VHS. Penso che iTunes si sia portato via molto più di oggetti storici, credo che in realtà abbia strappato altre cose della quotidianità, come gesti, piaceri, contatti fisici e manie. In cambio ha lasciato leggerezza e velocità. Ha concesso spazio alle mensole e alle vetrine di casa, ha imprigionato l’usura e l’invecchiamento degli oggetti, dando loro l’incantesimo dell’immortalità.

Ho sempre creduto che anche i libri, quelli di carta, quelli che ingialliscono e puzzano di vecchio, quelli analogici, ho sempre creduto che alla fine ce l’avrebbero fatta a salvarsi. La difficoltà di leggere sugli schermi digitali non avrebbe mai vinto la morbidezza e la neutralità dell’inchiostro su carta. Ho sempre creduto.
Poi per una serie di imprecisi e improvvisi motivi, avvenimenti, tecnologie, ho scoperto questo Kindle. Un quaderno in cui è possibile incollare migliaia di storie e di romanzi, un taccuino senza pagine, con una sola lastra che non emette luce e non aggredisce la vista. E pesa poco più o meno come un iPod. Centinaia di libri in 170 grammi, 16×11 cm, meno di 1 cm lo spessore. 170 grammi. Inchiostro elettronico.

Inchiostro come? Elettronico. Roba da uscirne pazzi. Si risparmia spazio, fantastico, e si risparmiano anche tanti soldi, visti i prezzi dei libri virtuali che costano molto bene di quelli stampati. Pazzesco. Si risparmia carta, e Greenpeace ringrazia. Si risparmia praticamente su tutto, anche sul fascino di avere una bella libreria polverosa e ingiallita in casa, bellissima e poderosa. Si risparmia sulla magia delle librerie, con i librai geniali che hanno letto milioni di volumi e sanno consigliare, con loro si parla di cose straordinarie, di storie e nazioni, romanzi e viaggi, terre dimenticate dalle agenzie turistiche e dagli orizzonti comuni. Con i librai si parla di tutto l’universo narrativo. Con un Kindle risparmio proprio su questo universo. È questo il mio problema.

Ci penso di continuo e mi tormento. Sono tentato a comprarlo, anche solo per provare e dargli una possibilità. Sono tentato a rincorrere Moby Dick assieme al Capitano Ahab anche su di un libro che non ingiallisce, per vedere se anche in esso si riesce a sentire l’odore degli oceani e le grida dei marinai.

The Road, Cormac McCarthy

Tipo quando finisci di leggere un libro e sei convinto di non aver mai letto niente di più bello. Ecco.

Cormac McCarthy e la sua scrittura spoglia e minimale, o almeno quella dei suoi ultimi lavori, perché i primi romanzi li ha costruiti con mattoni di descrizioni e palate di aggettivi, anche impossibili da incastonare in uno stesso pensiero. McCarthy, che se in Non è un paese per vecchi e Sunset Limited mi aveva catturato per la sua spietata creatività e per l’arte del riuscire a impregnare in quattro parole un immaginario così grande che non basterebbero cento pagine per riuscire a descriverlo, con La Strada mi ha steso al tappeto, mi ha messo KO. Prima di commuovermi nelle ultime tre pagine, in cui è descritto con un miasma poetico il senso della vita, mi son davvero sentito mancare.

La strada

Ambientato in un mondo simile a quello del cartone giapponese Ken il Guerriero, quindi in una terra distrutta, dove tutto è stato bruciato e perduto, dove non cresce più erba verde e l’aria è tossica, con strade ponti e città distrutte. Un uomo e suo figlio camminano verso sud in cerca di qualcosa che nemmeno sanno cosa sia, ma sperano sia migliore della disperazione che stanno attraversando. C’è l’amore di un genitore, la solitudine, il freddo e la fame, c’è una speranza più forte della morte e della fame. C’è uno scrittore che ha disegnato un mondo incredibile nel quale è impossibile non immergersi. C’è il male che sembra non aver rivali, e il bene, ridotto in polvere, continua ancora a soffiare lungo le strade dei boschi desolati.

Non ci sono capitoli, ma molti paragrafi brevi che attraversano periodi a volte brevi come un respiro altri lunghi come un inverno. Qualcosa di stupendo e, soprattutto, creativo. L’oceano plumbeo e il cielo color catrame, e un fuoco di speranza che arde a stento nel cuore dei protagonisti. Ora non è che mi voglio improvvisare critico di libri, non ne son mica all’altezza. Però, un po’ per il lavoro che faccio, un po’ per l’amore per la letteratura e per lo scrivere, e anche per altre piccole cose che hanno a che fare con la comunicazione, insomma, dopo aver letto La strada mi son reso conto che tutte le parole scritte in 5 anni in questo blog, concentrate più o meno in 200 post, non valgono una sola frase scritta nel momento meno ispirato di un McCarthy svogliato in una domenica di noia.

La cenere si sollevava leggera in lenti mulinelli sopra l’asfalto. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I ritratti di strada laggiù fra gli alberi morti. In cerca di qualche traccia di colore. Un movimento. Un filo di fumo. Abbassò il binocolo e si tirò giù la mascherina di cotone dal viso, si asciugò il naso con il polso e riprese a scrutare la zona circostante. Poi rimase seduto lì con il binocolo in mano a guardare la luce cinerea del giorno che si rapprendeva sopra la terra. Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato.

Cormac McCarthy