C’è una croce d’acciaio che ciondola dallo specchio retrovisore, le sta avvolta attorno al collo di plastica regolabile, ciondola a lungo anche a motore spento. E questo non me lo spiego. Accendo e parto, attraverso la notte a fari spenti, guido verso nessun posto e alla fine ci arrivo per davvero. Da nessuna parte. Il luogo ideale in cui fermarsi, spegnere l’auto ma non l’autoradio, con i Pink Floyd a basso volume e la croce d’acciaio che non si ferma un momento. La sensazione è quella di sostare in un luogo mai segnato su alcuna mappa, mai raccontato o indicato. Eppure è qui, nemmeno il Tom Tom ha le idee chiare, eppure io sono qui, dove non arrivano le mappe ma giungo io durante l’assolo di Time e la croce che ciondola con un ritmo ansioso e impreciso. In questa notte le lucciole emanano più luce della luna, un’altra cosa che non mi spiego, ma capisco quanto sia facile nel buio della pianura confonderle per lanterne.
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Michele guardava la luce affievolirsi, la fissava mentre cambiava colore e filtrava con sempre meno tenacia dalla porta d’ingresso del Circolo Kappa. Sembrava avere una sorta di conto in sospeso con le ombre delle tazzine sul bancone. Non le perdeva di vista un secondo, studiando l’allungarsi delle ombre e quel loro impazzire come fiamme di teatrale oscurità ogni volta che qualcuno passava davanti all’ingresso e faceva da scudo ai raggi di sole. Ombre come fiamme impazzite. Sempre più lunghe, e fredde, fievoli. Se ne stava buono lì anche parecchi minuti nella stessa posizione con lo sguardo fisso su qualcosa che solo lui conosceva. Fermo lì e vai a capire cosa gli passava per la mente. Di tanto in tanto perdeva la concentrazione, e sbadigliava, controllava che il delfino appeso al collo di Lara Loire fosse sempre al suo posto e lo replicava a memoria nella mente. E pensava alla forma della sua ombra se si fosse trovato sul bancone accanto alle tazzine. All’ombra di un delfino, che s’allunga fino a gettarsi via dalla superficie del banco e scivolare via da qualche altra parte. Come tuffarsi nel pavimento, mare di ogni ombra.
Anche i colori non hanno senso e intensità, non bastano più e non servono con un cielo di perla sopra l’erba e sopra l’inverno. È un pretesto per restare al freddo, è una scusa per congelarsi e non congedarsi da ciò che vorremmo ibernato tra l’erba umida di nebbia e madida di noia. È solo un cielo color perla, che rende il mondo più freddo e più fermo, guardato attraverso un filtro più demoniaco dell’oscurità. Perché non c’è mattino e non c’è sera sotto il cielo perlato, le ore disperse in una miscela di lancette oliate, solo la notte è reale, quando è buio per davvero e non si ha paura. Nessuna paura perché ci si barrica in casa con la tv accesa. Ma di giorno si sta come cani senza guinzaglio fuori dal recinto. Fuggiti e fermi, immobili, tra la nebbia e le colline, con una zampa alzata, e piegata, a tenersela vicina al cuore, come a sentire se batte ancora e quanto, per la paura e gli orrori degli inverni, freddi lunghissimi e interminabili, che attraversano le ossa e i polmoni, fracassano muscoli e tendini per trovarsi faccia a faccia con l’anima. E cosa si raccontano non lo saprei dire, e nessuno ne parla mai, o nessun altro mai è tornato dall’aldilà per raccontarci, raccontarmi, di come sopravvivono le stagioni.
Di solito con Dio ci parlo prima di andare a dormire. Quando sono già sdraiato nel letto e con le coperte fino al naso. Credo che molti scelgano quel momento lì perché è forse l’unico in cui ci si sente soli per davvero. Al buio, senza difese. Si chiede pietà. Un po’ come arrendersi. O almeno io la penso così.
Quello che è difficile è riuscire a restare concentrati. Recitare una preghiera senza pensare ad altro. Pregare dall’inizio alla fine senza altri pensieri in mente. Come quando si parla alla gente comune: si rimane concentrati su ciò che si racconta, sui significati e sull’esprimere un pensiero nel modo più preciso possibile. Con tono scherzoso, arrabbiato, annoiato, inferocito, contagioso o apatico.
Parlare con Dio, invece, è tutt’altra cosa. Pregare non è per niente facile. Farlo a voce alta aiuta. Ma nella mente, parlare nella mente – perché Dio ti sente comunque – è una prova di fede e concentrazione. E mi capita ogni notte. Ogni notte comincio a recitare una preghiera, a chiedere un aiuto, un miracolo, una qualsiasi cosa e mentre parlo, in solitario segreto, la concentrazione viene dirottata verso altri pensieri, anche i più banali. A volte mi accorgo che concludo una frase del Padre Nostro con quella di un Ave Maria, e non ricordo dove e quando ho sbagliato.
Se Dio ascoltasse veramente tutto, tutto, sai che confusione. E come potrebbe aiutarci. La mia percezione delle cose, e del mondo, di quello che accade e non accade, è che Dio ascolta ogni pensiero, anche il più distratto.
Franco il caffè lo serve solo nel vetro, in tazzine senza manico. A forma cilindrica, con il cerchio della base più stretto della bocca su cui si appoggiano le labbra, somigliano ad un tamponamento tra un cono ed un cilindro, trasparenti. L’istinto porta a sollevarle sempre con due o tre dita, il pollice, l’indice e talvolta il medio, come per ogni altra tazzina con il manico. Il caffè di Franco, bollente, scalda la superficie di vetro, e non tutti i clienti apprezzano particolarmente trattenere con due dita un oggetto rovente. Perché il vetro reagisce in un modo più accogliente al calore, rispetto alla fredda stitichezza della ceramica. Il caffè, al Circolo Kappa, si beve solo in questo modo.
Lara Loire rimase qualche istante a fissare la tazzina di vetro senza manico. Tutti fissavano Lara Loire senza sapere nulla di lei. Nessuno parlava, solo il rumore del mondo fuori che entrava attutito dal varco della porta, spalancata, verso l’interno. Nessuno parlava e nessuno parlò. Tutti gli uomini presenti al Circolo Kappa guardarono il modo, il gesto, di posare la borsetta viola sullo sgabello a lei più vicino, e le sue mani, piene di dettagli invisibili, che modellavano l’aria innalzandosi verso la tazzina. Lara Loire sollevò la tazzina con otto dita. Otto. Lasciò liberi i mignoli, un po’ per dolcezza, un po’ per inutilità, con otto dita accompagnò la tazzina di vetro sino alla bocca. Chiuse gli occhi mentre le prime lacrime di caffè le scivolavano sulla lingua, scaldando prima la gola poi l’anima. Quando riaprì gli occhi la tazzina era ancora imprigionata tra le sue dita senza smalto e le sue labbra senza rossetto. Silenzio. Lara Loire appoggiò la tazzina con le sue otto dita sul vetro e i due mignoli che scodinzolavano nell’aria come le gambe dei bambini seduti sugli sgabelli, troppo alti, di un bar. Richiuse gli occhi, come per concentrarsi, fece un lungo respiro e li riaprì pieni di luce e bagliori. Sorrise, con un sorriso che non si può raccontare, gli occhi quasi lucidi, come se una lacrima, una sola, li avesse inumiditi quel tanto che basta per rafforzare luci e riflessi, e la bocca, stretta e carnosa, chiusa con gli spigoli d’incontro tra il labbro inferiore e quello superiore alzati verso l’arco, che disegnano un piccolo arco, uno spicchio di luna, sul viso. Il sorriso di Lara Loire.
Piena di una felicità nuova, lei non smise di tenere sotto tiro lo sguardo del barista mentre gli diceva non so se è per via del vetro, ma non credo, ma questo caffè risveglia una cosa, ogni cosa, del corpo, come dire.
Grazie, lo so.
Ah beh, modesto.
No, nel senso, io il caffè lo faccio buono, e basta, non c’è molto da aggiungere, diversamente non lo so fare.
Ah d’accordo.
D’accordo.
Non le è mai venuto un caffè cattivo?
No.
Mai?
Forse il primo, il primo in assoluto, e magari il secondo.
E basta?
E basta.
E basta.
C’è una nave piena d’oro, una nave piena d’oro e gioielli preziosi, gremita di gente dalla pelle nera senza capitano, senza timone. Marinai che guardano in cagnesco, disarcionati dalla vita e salpati a bordo di una nave zeppa d’oro massiccio. Quasi affonda. Quasi va a fondo. Scompare presto all’orizzonte. Si nasconde in naufragi sottomarini, o in qualche città sommersa, ce ne sarà pure qualcuna, ancora. Imbarca acqua, una goccia al giorno, una sola e mai di più, anche nei giorni di tempesta, una e una soltanto. E per quanto possa pesare una goccia d’acqua salata, una goccia di un mare immenso, di quella lunghezza il veliero affonda. Alba dopo alba. I marinai, neri con la faccia di chi nella vita non ha mai sorriso, vanno a fondo, vanno a picco con tutto quell’oro, tutto quell’oro che non è loro e non sarà mai di nessuno, mai più di qualcuno. Chissà se nelle città sommerse avrà ancora valore. Chissà se quella gente mancherà mai a qualcuno, o a nessuno. Demoni e pensieri in balia di un cavallo d’acqua scura, come un’onda che cavalca e non ascolta, non si ferma e tutto porta via in un denso trascinare.
– Bisogna farle una foto.
– Meglio di no.
– No dico, così vedremo sempre il suo sorriso.
– Appunto.
– Dai.
– Tu pensi che ti faccia bene?
– Beh almeno non la dimentico.
– Non la dimentichi comunque.
– Dai cazzo, tanto le fotografie servono a quello.
– Ma una fotografia di Lara Loire non ti darà pace.
– Le cose che non danno pace sono altre.
– Anche questa.
– Ma è solo una foto, cazzo.
– Fai come vuoi. Ma io non sono sicuro che il tuo cuore riesca a reggere a quegli occhi ogni mattina. Dai retta a uno più scemo di te, prima te la dimentichi meglio è.
Non la dimentichi e basta.
– Se non la vedi più, nemmeno in fotografia, col tempo le idee si confondono, e dopo molti anni, fidati che è vero, ti sembrerà quasi che lei non sia mai esistita. Col tempo confondi quello che è accaduto davvero e quello che invece avresti voluto accadesse, ma poi non s’è avverato. Non so se capisci cosa intendo.
– Capisco. Ma ho bisogno di una macchina fotografica.
– Non ce l’hai?
– Se l’è presa la mia ex moglie.
– Ma…da quant’è che se n’è andata?
– Sei anni.
– E da sei anni non hai più scattato fotografie?
– Nemmeno una.
– Sei anni senza foto.
– Proprio così. È come se non ci fosse stato più nulla di bello da vedere.
– Non dire cazzate.
– Fino ad oggi non c’è stato più niente di bello da vedere e immortalare se non gli occhi di Lara Loire, e quel suo modo magnetico di sorridere.
Con la solita eleganza nel cogliere ogni segreto aella città, Lara osservava ogni spigolo, ogni vetrina e passante, ne rubava i colori e i rumori. Gli odori dei panifici la facevano impazzire, quelli dei negozi di vestiti le causavano mal di testa, le mamme che spingevano i bambini in carrozzina la facevano arrossire. Lara Loire si emozionava per ogni sfaccettatura del mondo che la circondava, di ogni particella urbana, e s’impossessava delle meraviglie della vita usando tutti i cinque sensi, ma senza ingordigia, solo con una lieve curiosità che le attraversava gli occhi. Quegli occhi che parevano cambiar colore a seconda dell’intensità e della tonalità di luce che si poneva loro davanti. La luce del sole li tingeva di blu di Persia, con piccoli bagliori, quasi lucciole più chiare di un azzurro fiordaliso che sbocciavano ai confini dell’iride. Le giornate grigie parevano spingere le trame celesti verso sfumature ametista, porpora e magenta, concedendo indiscrete impressioni di furiose pennellate sulla tela dell’universo. Di notte e nei locali chiusi tutto dipendeva da quali luci le si riflettevano davanti, da quali espressioni cromatiche dominavano gli interni dei luoghi in cui Lara si soffermava, e i suoi occhi si ricoprivano di turchese e porpora, toccando momenti di pura ardesia che sfumava dalla pupilla all’iride.
Ma quanto di più bello c’era negli occhi di Lara Loire lo si scopriva solo in quelle situazioni temporali memorabili come il crepuscolo e, ancor più distintamente, in quelle giornate indecise tra pioggia e sole, sole e pioggia, quelle giornate in cui piove con il sole, magari all’ora del tramonto, o all’alba. In quelle rare situazioni in cui la luce si proietta nelle tracce di bagnato che il cielo, Dio o qualche forza della natura, hanno disegnato con mirabile abilità sul cemento, i palazzi, i vetri e le finestre, le automobili parcheggiate e tutti i frammenti di città sbriciolati in polvere sulle strade e i marciapiedi. In quelle ore assurde, in cui anche il mondo non si dà pace e ragione, in cui né cielo né terra sanno quale abito indossare, e le persone, impazzite, camminano per strada con ombrelli variopinti e occhiali da sole, in quelle giornate lì, anche gli occhi di Lara Loire si abbandonavano ad una follia cromatica che, tra riflessi, bagliori e sfondi di pittura, naufragava tra il verde marino e quello primavera, tra l’ametista e il magenta, con vari sentieri di porpora e ardesia, azzurro fiordaliso e indaco. Per ultimo, come se fosse il gran finale di una danza di pregiate tonalità, tornava quel suo blu di Persia. Lo stesso che condannava ogni uomo a precipitare in abissi dispersi fatti di desideri e tormenti.