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la traduzione dei nomi plurali inglesi in italiano

In questi giorni non si fa altro che parlare di cookie. Cosa sono, a cosa servono, come adeguarsi alla cookie law, eccettera eccetera.

Purtroppo e per fortuna, lavorando nel campo della comunicazione mi son trovato a leggere di tutto e di più sull’argomento, e la cosa che più mi ha colpito, per deformazione professionale, è stato leggere la parola cookie con la S plurale, cookies.

Siccome sono pignolo, secondo alcuni eccessivamente pignolo, ci tengo a chiarire che cookie è un termine inglese ormai d’uso anche nell’italiano tecnico, e come altri nomi inglesi segue una sola regola:

in italiano, i nomi stranieri sono invariabili.

Questa affermazione è testualmente tratta da “Italiano – corso di sopravvivenza” di Massimo Birattari (la Bibbia per chi scrive, e non solo) e come tutte le regole è ricca di eccezioni, soprattutto per lingue come il francese o lo spagnolo, ben evidenziate nel volume. È anche una questione di orecchio, perché frasi come ho comprato due computers fanno davvero venire i brividi. O anche ho parlato con gli art directors, brrr, o ancora i festivals estivi, aiuto! C’è poi chi scrive Ronaldo ha fatto due goals, quando esiste anche l’italiano gol (guai a chi scrivi gols!).

Probabilmente è capitato a tutti di soffermarsi a riflettere sulla questione e di cercare online diverse definizioni. Il consiglio per non sbagliare è sempre quello di utilizzare di più il dizionario e ricordarsi che i nomi inglesi, al plurale, sono sempre invariabili, niente S finale. Punto.

Quindi, tornato alla parola cookie, anche nel caso fossero dieci, venti o centomila, restano sempre cookie, mai cookies.

La grammatica ai tempi di Facebook

I social network hanno evidenziato una delle più grandi debolezze di noi abitanti dello stivale: la scarsa padronanza della lettera “h”, degli accenti e degli apostrofi.

Basta leggere una comunicazione a caso – a caso, per davvero – su Facebook, per trovare errori devastanti come “oggi o comprato un paio di scarpe”, “la Juventus a pareggiato”, “l’hanno scorso sono stato in vacanza”, “oggi e stata una bella giornata”, “ò vinto” e, combo suprema: “un’hanno fa”.

Il vero pasticcio, tuttavia, è che molti, me compreso, hanno iniziato a farci il callo.

A furia di leggere una quantità enorme di errori tremendi, abbiamo iniziato a commetterne molti di più e, quasi, a tollerarli, con la scusa che “tanto sbagliano tutti”.

Capita che, nella fretta di scrivere un post o un commento (perché si è sempre di fretta, giusto?), si ometta qualche apostrofo qua e là, o non si faccia distinzione tra gli accenti gravi e quelli acuti – effettivamente, anche quando non si scrive di fretta la differenza è poco chiara ai più -, e allora nascono combinazioni come: é vero che, una tazza di té e, la più diffusa, E’.

Giusto per mettere i puntini sulle “i” e gli accenti al posto giusto, il tè, la bevanda, si scrive tè, tutte le altre versioni, tea – all’inglese – e thé – al francese -, non appartengono all’italiano. Per tornare invece sulla “e” maiuscola accentata, bisogna precisare che è sempre sbagliato scrivere E’, poiché questa formula utilizza un apostrofo al posto di un accento. Bisognerebbe scrivere È, ma molti quotidiani e telegiornali, spesso anche alcuni prodotti del supermercato, non lo sanno o non ci badano.

Scrivere alla tastiera di un computer richiede un impegno differente rispetto allo scrivere da uno smartphone.

Quando si scrive da un computer, gli errori di accenti e apostrofi nascono solitamente per due motivi: il più frequente riguarda una pura carenza grammaticale, mentre l’altro dipende dalla difficoltà tecnica di comporre le lettere accentate maiuscole, come la “e” accentata, “È”, che richiede la padronanza degli shortcut o l’utilizzo della tabella dei caratteri speciali.

Da smartphone è tutto più semplice, soprattutto grazie al correttore automatico, vera manna dal cielo.

Come rimediare?

Leggere di più. Soprattutto i classici.

Ma anche gli articoli scritti da chi sa scrivere davvero, chi ha il talento di prenderti, rapirti e portarti via con le parole. Come Luisa Carrada, sempre attenta al peso e all’eleganza delle parole, o anche Annamaria Testa, una delle menti più elevate del copywriting italiano, o ancora Massimo Birattari, che padroneggia il linguaggio italiano come Cristiano Ronaldo un pallone da calcio.

Siamo pur sempre il popolo di Dante Alighieri, facciamoci valere, altrimenti finirà che scriveremo cose sbagliate è tutti ci prender’anno in giro.

Ci sono parole che andrebbero bandite dalla lingua italiana per almeno un paio d’anni. Parole che affollano il mondo della pubblicità, della radio, della tv e soprattutto della politica. Sono dei tormentoni linguistici che provocano seri danni alla comunicazione. Il termine più odioso, come segnala anche Massimo Birattari in “È più facile scrivere bene che scrivere male”, è criticità. Ascoltate le interviste dei nostri parlamentari e provate a farci caso: criticità territoriali, occupazionali, criticità nel tratto autostradale e tante altre tipologie di criticità, delle più creative. Stop! Creatività è un altro tormentone. Le agenzie pubblicitarie ne fanno grande uso in autocelebrazioni come “siamo un’agenzia giovane e creativa”, “offriamo soluzioni creative”, “la creatività è il nostro punto di forza”. Su LinkedIn, addirittura, chiunque può aggiungere la voce creativity alle proprie competenze ed esperienze.

Oltre ai singoli termini, ci sono delle espressioni che riempiono di parole senza significato il parlato e lo scritto quotidiano: soluzioni concrete è la migliore. Le banche offrono soluzioni concrete, mica ti fregano – ci tengono a precisarlo, si sa mai. Ma allora perché le usiamo? Perché siamo insicuri, crediamo che un lessico apparentemente ricercato ci dia una certa credibilità, ma purtroppo ci rende imprecisi e logorroici.

Due guru della comunicazione italiana, come il già citatato Massimo Birattari e Luisa Carrada, bocciano un’abbondante quantità di parole ed espressioni: esclusivo, prestigioso, creativo, trasgressivo, provocatorio, scomodo, impietoso – lui; coniugare, contaminazione, contesto, lavoro di gruppo, mediatico, momento di, monitorare, qualità della vità, riscoperta, segnale forte, significato simbolico, società civile, strumenti concreti, tempi tecnici, territorio – lei. A queste aggiungo: auspicare, stress, design, immagini d’impatto, potenzialità, molteplicità e ottimizzazione.

Queste parole andrebbero evitate in virtù di un linguaggio chiaro e preciso, e onesto, che non si perde e non si nasconde dietro alle criticità dell’italiano.

È importante distinguere gli apostrofi dagli accenti, perché non sono la stessa cosa. È banale dirlo, eppure…
Capita spesso di trovare su riviste, confezioni di prodotti – qualsiasi prodotto – e talvolta anche nei titoli del telegiornale, E’ al posto di È. Questo problema appartiene solo al mondo dello stampatello ed è causato dalla mancanza di alcuni caratteri speciali in un determinato font (o, purtroppo, ad una debolezza grammaticale).
Quando appunto ci si trova a scrivere in maiuscolo e il font non mette a disposizione l’accento, si può ricorrere a qualche scappatoia di fortuna:

  • Cambiare la frase: prendendo come esempio il primo verso di questo post, lo si potrebbe riscrivere così: Bisogna distinguere gli apostrofi dagli accenti. A volte basta davvero poco.
  • Se si tratta di un manifesto, può bastare un ritocco grafico per aggiungere l’apostrofo mancante – significa che chi scriverà il testo dovrà momentaneamente scriverlo con un errore grammaticale.

Una terza ipotesi, la più drastica, che non amo particolarmente, è quella di cambiare font. È però difficile rinunciare ad un font solo perché manca di un carattere speciale. Anche se quelli più usati hanno quasi sempre tutti i caratteri necessari per scrivere, stampare e pubblicare con serenità e, soprattutto, precisione.

Come dice Massimo Birattari nel manuale È più facile scrivere bene che scrivere male, “La semplicità è un importante strumento per comunicare con efficacia”. A pagina 17 affronta subito un argomento che merita particolare attenzione: Il burocratese. A guadagnarsi un nome tanto terribile è la lingua scritta – ma anche parlata – di politici, medici, avvocati, assicuratori e banchieri, usata anche in contratti e comunicazioni di ogni tipo. È una lingua che deve essere giuridicamente inattaccabile, e proprio per questo usa parole come espletare, encomio e apporre, quando sarebbe molto più comprensibile usare termini come compiere, lode e mettere. Il linguaggio tecnico non è dunque facile da comprendere per il pubblico a cui è rivolto. Io ho enormi difficoltà a capire gli intrighi e gli intrugli dei documenti relativi al mio conto in banca, e non solo. M’è capitato pochi giorni fa di leggere questo testo su di un contratto di lavoro di un amico:

Oggetto: Comunicazione di proroga del contratto di lavoro In riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato con decorrenza dal 29/03/2013 e scadente il 02/04/2013 con la presente Le comunichiamo che lo stesso contratto è prorogato fino al 15/05/2013 per la seguente motivazione: incremento di lavoro.

Da notare l’uso mal curato della punteggiatura: manca il punto alla fine della prima frase e almeno una virgola nella seconda. Ci sono inoltre parole poco usate nel gergo di tutti i giorni, come prorogato e decorrenza. Anche il gerundio scadente non è così facile da digerire, si potrebbe evitare. E si potrebbe riscrivere il tutto in modo più chiaro:

Oggetto: rinvio della scadenza del contratto di lavoro a tempo determinato.
Gentile sig. Mario Rossi, la informiamo che la scadenza del suo contratto di lavoro ha subìto una modifica: l’incremento di lavoro ha posticipato la data di scadenza dal 02/04/2013 al 15/05/2013.

La comprensione di quest’ultimo richiede certamente uno sforzo mentale minore rispetto al primo. Sarebbe molto più chiaro se ogni comunicazione venisse scritta con le parole di tutti i giorni e senza l’uso del burocratese, che ha il sapore di fregatura e di inganno. Purtroppo spesso si scrive anche per fregare e ingannare. E la gente ci casca.

Me lo avevano già detto all’università, un professore di Costruzione del Messaggio Pubblicitario una volta mi disse qualcosa tipo

i libri che promettono di insegnare a diventare creativi, a scrivere bene e a persuadere le persone, sono tutti un lungo bla bla bla.

Quel professore mi aveva segnalato un solo testo, uno soltanto, datato 1962: Confessioni di un Pubblicitario di David Ogilvy. In un modo pazzesco, quel professore aveva ragione. Anche dopo la laurea ho continuato a studiare, investire tempo e denaro in libri di ogni genere, e ho scoperto che tra quelli di content marketing  e scrittura creativa non c’è alcuna differenza. Tutti riportano più o meno gli stessi esempi, stesse citazioni (anche di Confessioni di un Pubblicitario), e stesse promesse.

Non ne comprerò più uno che parli del mio lavoro. Almeno per un po’. Studierò invece tutti i contorni di esso. Un workshop di scrittura comica per racconti brevi e copioni teatrali, diretto da Stefano Benni, mi ha insegnato molte più cose sul mondo pubblicitario che le milioni di pagine dei libri didattici. Molti romanzi che ho letto, soprattutto i classici, si sono rivelati i migliori insegnanti, i migliori esempi. Credo che non ci sia nessuno che può insegnarti cose come lo stile, il gusto, la punteggiatura. Queste sono cose che maturano nel tempo, in base alle esperienze della vita, alle persone con cui ci si relaziona, ai libri. Quei libri. Quelli che non nascono a scopo didattico ma raccontano la mente di uno scrittore, un romanziere. Quelli che in una sola frase rinchiudono il senso di un intero discorso:

L’unica cosa importante è scrivere bene.

Facile a dirsi. Ma è tutto li. Credo che nessuno si debba mai permettere di dirti cosa scrivere, e come farlo. Quello che si può imporre, al massimo, è di scrivere in maniera corretta. Lo stile appartiene ad ognuno di noi, ed è unico. Poi tra le mille pieghe della vita lo si infarcisce con le influenze degli scrittori, attori, registi o inventori che ci hanno emozionato. Si, anche gli inventori, e i matematici. La vita di Nikola Tesla mi ha emozionato: lui voleva scoprire un’energia unica, l’etere, capace di comprendere e magari sostituire tutte le altre forme di energia in natura. Proprio come ridurre tutti i concetti, i libri e i metodi sullo scrivere in un’unica frase: scrivere bene. Una frase di due parole e 13 caratteri, tanto per azzittire anche Twitter.

Scrivere bene. Quello che vuoi, quello che devi, dalle email agli sms, dal biglietto d’amore al graffito sul muro. Scrivere bene. Metterci tutti gli aggettivi che si vuole, per poi capire quali servono davvero e quali no. Scrivere bene e leggere ad alta voce. Leggere come se fosse l’ultimo grappolo di parole che ci passa sotto gli occhi. Scrivere come se fossero finite tutte le parole del mondo. Scrivere e leggere ad alta voce, per capire se le frasi scorrono con una certa eleganza e una ricercata precisione.

Scrivere bene. A farla breve. Scrivere.