Tag Archivio per: content writing

Le parole sono ovunque

Le parole sono ovunque, sui manifesti pubblicitari, nelle voci di sottofondo e nella nostra testa. E non sono mai parole e basta. Sono musica, significati e collocazioni, ricordi e suoni increspati nelle pieghe della vita.

Ad esempio, ci sono parole bellissime, come pastello e frangiflutti, e altre evocative, come grano o tramonto. Frangiflutti è una musica, la pronuncia scorre con una pausa intensa dopo le prime due sillabe, e la ripresa con il suono “fl” provocato dalla lingua che scorre dal palato verso i denti, ci piace sia nel gesto che nel suono. Ci piace sempre. La “L” è una lettera affascinante, amiamo pronunciarla e per questo molte parole che la contengono ci piacciono più di altre.
Pastello, dicevo. Ma anche ciò che evocano è altrettanto importante, perché martello, ad esempio, non è bella quanto pastello.

La “L” inoltre è anche leggera, sia nel suono che nella grafia. Molte parole che contengono con frequenza questa lettera diventano anch’esse leggere, come libellula.
Fatte eccezione per la “L”, troppe consonanti rendono le parole complicate e zoppe, soprattutto quando ci sono di mezzo le lettere “Z”, e “T”, che interrompono il suono – la musica – delle parole. Ottimizzare, assicurazione, trattore, torrefazione, zattera e zanzara sono ricche di spigoli e inciampi. Orizzonte no, il significato e i pensieri che evoca sono più forti del taglio provocato dalla doppia zeta.

Anche troppe vocali tutte vicine tra loro possono peggiorare il suono: ad esempio, ghiaia è terribile. Ma nella lingua italiana ci sono parole che contengono anche tutte le vocali e molte di esse sono bellissime, come estuario, sequoia e aquilone.

Come frangiflutti e pastello sono bellissime anche nuvola, lucciola, pagina e coccinella.
Ma ci sono anche parole orribili, come ruga, cranio e grattugia. Parole nostalgiche come lontano e tramonto – forse perché tutti i tramonti sono nostalgici -, o parole pesanti, come gravità e capitalismo. Altre sono rigide, come vetro, o eleganti, come perla, ma ce ne sono anche di fastidiose come spigolo, spina e microbo. Ne esistono anche di silenziose, come intimità, o altre sempre fuori luogo, come droga. Alcune hanno un suono curioso, come buco. Ci sono parole che pronunciamo con parsimonia, come rugiada e tepore, e altre di cui abusiamo, come cuore, amore e tumore. Potrei andare avanti all’infinito, dimenticando che le parole possono essere descritte con aggettivi anche improvvisati eppure precisi.

Le parole si impadroniscono del loro significato, o forse viceversa, ecco perché vanno scelte con cura. Pensa ad una parola come buio, che per me è quasi inquietante. Pensa alla sua capacità di inghiottire tutto il resto della frase. Rende il buio ancora più pauroso. Buio. Parola brevissima, quasi un tuono o un colpo di fucile, e in entrambi i casi c’è una luce, un abbaglio, in cielo o davanti ai tuoi occhi, e in un solo caso vieni attraversato da un proiettile, e poi tutto diventa buio per davvero.

Infine ci sono le parole non dette, e siamo tutti bravissimi nel sceglierle e soppesarle. Quelle non si trovano nei manifesti pubblicitari, nelle voci di sottofondo o nelle strade. Mi piace pensare che siano dentro la nostra testa, se così fosse sono davvero abili nel non farsi mai trovare al momento giusto. Eppure tornano, come echi lontani. Ne ho incontrate alcune in sorrisi mancati, in fotografie ingiallite e nelle linee sul viso che ci ricordano la vita è un soffio.

scrittura creativa

La creatività non è una lampadina che s’accende e si spegne. È piuttosto un percorso, un lungo esercizio. Non posso di certo metterci la mano sul fuoco ma l’esperienza in ambito artistico e professionale mi dice che è così. A mio avviso l’immagine della lampadina è un luogo comune che tenta di semplificare qualcosa di troppo complesso.

Per un copywriter, in particolare, credo sia impossibile distinguere tra scrittura creativa e scrittura non creativa. Nel senso: esiste forse una regola che segna il confine tra l’una e l’altra? Io non la conosco. Mi riesce persino difficile trovare una definizione convincente di scrittura creativa. Eppure spesso mi confronto con colleghi e altri professionisti del mestiere che marcano con orgoglio e sicurezza numerose sfaccettature della scrittura: creativa, tecnica, funzionale, SEO, tradizionale, professionale.

Sfogliando il mio portfolio trovo headline e bodycopy per campagne pubblicitarie on e offline, nomi di prodotto, nomi di aziende, nomi di eventi, concept di comunicazione, storyboard, copioni per video, testi per spot radiofonici, contenuti per siti web e landing page, testi tradotti dal burocratese all’italiano, payoff, call to action, articoli per riviste specializzate e per la stampa locale, manuali di istruzioni, locandine, discorsi per convegni e manifestazioni, progetti di lettering design, layout per preventivi e tonnellate di manuali per la comunicazione interna di imprese ed enti pubblici. Ecco, tra tutte queste cose, esattamente, cosa rientra sotto l’etichetta “scrittura creativa”? Cosa invece no?

Scrivere è sempre un gesto creativo

Quando scriviamo, in realtà, svogliamo un gesto molto più ampio. Scrivere è anche disegnare, creare mappe e percorsi di lettura, rassicurare. Questo perché, parafrasando Luisa Carrada, le parole prima si guardano poi si leggono:

“Anche una lunga e monotona relazione di lavoro può apparire invitante se scritta con il font più adatto, un titolo e un sottotitolo informativi, un abstract che riassume in 50 righe il contenuto di 60 pagine, spazi bianchi per far respirare e riflettere, box che evidenziano i punti più importanti, didascalie laterali che permettono di navigare tra i contenuti e trovare rapidamente quello che serve – Il mestiere di scrivere, 2007 © Apogeo”.

Lavorare al fianco di persone competenti di grafica e visual design aiuta a scrivere meglio, a disporre correttamente i paragrafi, ordinare gli spazi vuoti, crearne di nuovi ed eliminare il superfluo (sostituendolo talvolta con icone studiate ad hoc, come hanno recentemente fatto Widiba e CheBanca!). Lavorare accanto queste figure professionali aiuta a considerare la scrittura come qualcosa di visivo, e a capire che lo sforzo mentale richiesto per la creazione di una buona headline è lo stesso di quello necessario per scrivere i testi di un libretto di istruzioni.

Quando scriviamo, dicevo, facciamo moltissime cose: uniamo l’esperienza con il gusto personale, costruiamo un ordine gerarchico di significati che disponiamo secondo una precisa architettura visiva (layout). Disegniamo. Illustriamo. Facciamo chiarezza. Mettiamo in moto un processo che coinvolge il nostro sapere e il desiderio di raggiungere risultati eccellenti.

Ma allora cos’è la scrittura creativa?

Mi riesce difficile dare una definizione, penso però che lo scrivere in modo creativo, che non ritengo diverso dallo scrivere bene, abbia fortemente a che fare con l’esperienza. Le buone idee possono venire a chiunque, ma per concretizzarle (e venderle) è necessario lavorarle con le conoscenze acquisite nel tempo.

Non c’è una lampadina che si accende o si spegne, ma piuttosto una luce fioca che ci fa sempre compagnia, perché anche nei momenti di mancanza di ispirazione la macchina delle parole non si ferma mai, brucia carburante e produce milioni di frasi, talvolta bruttissime. L’esperienza ci aiuta a migliorarle, pulirle e trasformarle in periodi perfetti per il canale cui sono destinati.

La regola del gratta e vinci - copywriter

Gratta e vinci. È semplice, breve, immediato. Perfetto. Prova a pensarlo diversamente: gratta per vincere; gratta e scopri se hai vinto; gratta e vincerai qualcosa. Nessuna di queste formule funziona. “Gratta e vinci” invece si. È una questione di precisione o, meglio ancora, di soppesare le parole giuste e scegliere il tempo verbale adatto.

Per assurdo, la frase “Ti darò un pugno”, non fa poi così paura perché il futuro esprime un certo senso di incertezza, mentre “Ti do un pugno” è tutt’altra cosa.

Il presente e l’imperativo sono forti, decisi, convincenti. Non è un caso che siano i più utilizzati nel linguaggio pubblicitario: “La lavatrice lava di più con Calfort”, “La scarpa che respira”, “Just do it”, “Ascolta la tua sete”, “Un diamante è per sempre” e così via. Questi due tempi verbali trasformano una frase in una promessa o in un messaggio pubblicitario, che a pensarci bene sono la stessa identica cosa.

Rassicurare

pubblicità PayPal

 

Questa pubblicità online di PayPal acclama:

Basta esitare. Se non ti vanno bene, rimandale indietro. Ti possiamo rimborsare i costi di reso.* Attiva il servizio gratuito con PayPal.

L’imperativo “attiva il servizio gratuito” è deciso e diretto ma quel “Ti possiamo” distrugge l’intero messaggio. Nel senso: come sarebbe a dire “ti possiamo”? Esiste dunque una possibilità che io non venga rimborsato? Eccome se esiste! Dunque PayPal comunica che attivando il servizio gratuito si accende una vaga possibilità che tu possa ottenere un rimborso. Nessuna garanzia, nessuna promessa, ma solo una vaga speranza che, forse, nella migliore delle ipotesi, qualcuno potrebbe venire rimborsato di qualche centesimo.

Dal momento che in fondo alla frase appare un asterisco che rimanda alle condizioni (obbligatorie), sarebbe meglio scrivere

Rimborsiamo le spese di reso.

Questo è deciso, diretto, non lascia scampo alle incertezze (a quelle ci pensa l’asterisco che rimanderà a tutte le condizioni necessarie per ottenere il rimborso, un po’ come fanno le banche).

Meglio un uovo oggi che una gallina domani

Il futuro è la morte della pubblicità, l’esatto contrario di una promessa. Copio e incollo questa frase dalla brochure di una nota compagnia telefonica:

Con il pacchetto ADSL Plus potrai navigare più velocemente e in totale sicurezza.

Come sarebbe a dire “potrò”? Con quello che mi costa esigo che il servizio acquistato faccia esattamente le cose che mi sono state raccontate. Il futuro “potrai” esprime una condizione, che potrebbe accadere ma non è detto che lo faccia, anzi, in un periodo di estrema diffidenza io stento a credere alle promesse della pubblicità. Peggio del futuro c’è solo il condizionale, ma credo che a nessuno venga in mente di scrivere “Con il pacchetto ADSL Plus potresti navigare più velocemente e in totale sicurezza”.

Se fossi il copywriter di quella compagnia telefonica, andrei dall’art director a puntualizzare che, a mio avviso, sarebbe (ecco qui uso il condizionale) meglio scrivere:

Con il pacchetto ADSL Plus navighi veloce e sicuro.

Ma ovviamente con i se e con i ma non si vincono le guerre e non si scrivono headline migliori di altri.

Ad ogni modo, la regola del gratta e vinci è un primo appunto dal quale iniziare una comunicazione chiara e concisa. Poi bisogna lavorarci su: scrivere, cancellare, riscrivere, ascoltare, disegnare, litigare con l’account per poi trovare, dopo lividi e fatiche, la soluzione migliore (che solitamente non è mai la prima).

Riassumendo, la regola del gratta e vinci dice che:

  • un messaggio chiaro e memorabile è composto da pochissime parole che inducono all’azione;
  • l’azione è una promessa, e viene rassicurata dai tempi verbali presente e imperativo;
  • il futuro fa a pezzi la promessa.

Un copywriter davvero bravo (che non sono io) può anche fare a meno dei verbi per fare una promessa davvero rassicurante. Come? Lo slogan storico di Martini è forse il più alto esempio:

No Martini, no party!

Quattro parole, di cui due ripetute, zero verbi e una semplicità disarmante nel descrivere la promessa del brand. Chapeau.

C-Come - LEGO - Kronkiwongi

La distanza tra Rimini e Roma è di circa 360 chilometri. In auto si percorre in quattro ore scarse salvo traffico o altri imprevisti, anche se a Roma il traffico non è mai un imprevisto.
Ad ogni modo è per colpa di questi ultimi se non sono riuscito a partecipare alle prime due edizioni di C-Come, ma quest’anno è andato tutto liscio.

Per la prima volta nella mia vita mi sono presentato ad un convegno senza penna e Moleskine, con l’intenzione di memorizzare e vivere il momento invece di prendere appunti. Solitamente mi incavolo perché mentre scrivo qualche frase importante mi perdo frammenti del discorso, o peggio ancora finisce che scrivo cose senza capirne correttamente il senso, e quando torno a casa gli appunti non servono più a granché. Quindi niente penna e niente Moleskine. Solo orecchie. E occhi. E mani, olfatto e gusto.

Un convegno si segue con tutti i sensi

Ognuno dei presenti avrà notato l’odore antico delle sedute, la stampa a rilievo sulla copertina della copia omaggio di Digitalic, la Coca-Cola a temperatura ambiente gentilmente offerta dagli organizzatori e anche il caffè servito in bicchieri di plastica, anch’esso offerto con altrettanta gentilezza. Queste cose si percepiscono e ricordano più di molte altre. Un po’ come i movimenti, gli atteggiamenti e i sorrisi dei relatori. La loro personalità, infatti, non viene messa in mostra unicamente nei venti minuti sul palco, ma soprattutto nei gesti che compiono durante il resto della giornata, nelle parole scambiate con i partecipanti, nelle strette di mano – che comunicano tantissimo -, nel modo in cui prestano attenzione alle domande e addirittura nello stile – si, lo stile – che dimostrano nel sapersi muovere tra la folla che sottovoce pronuncia il loro nome.

Tra i relatori del C-Come 2016 ce ne sono alcuni che mi hanno davvero impressionato, come Giuseppe Brugnone, Alessandro Zaltron, Luisa Carrada, Vera Gheno e Francesca Parviero. Con questo elenco non intendo di certo screditare gli altri protagonisti dell’evento, ma ognuno dei partecipanti avrà i suoi preferiti, beh, questi sono i miei.

Giuseppe Brugnone

Prima del C-Come non avevo idea di chi fosse il social media manager di LEGO, in realtà non me lo ero nemmeno mai chiesto, nonostante io sia un fan piuttosto scatenato dei mattoncini danesi. Di Giuseppe Brugnone ho ammirato l’entusiasmo e la freschezza che ha saputo trasmettere con disarmante semplicità. Non come i big di Apple che hanno sempre quel sorriso stampato che pare ti stiano prendendo per il culo. L’espressione sul suo viso è autentica tanto quanto l’entusiasmo. Inoltre mi ha fatto scoprire il Kronkiwongi, un progetto dalla creatività smisurata che ha incantato tutti gli ascoltatori e “obbligato” loro a twittare in proposito di questo oggetto misterioso. Ah, il mio Kronkiwongi si è prepotentemente guadagnato l’immagine di copertina di questo post.

Alessandro Zaltron

Definirlo scrittore è più che riduttivo. Alessandro è un professionista dalla penna colta e affilata. Conoscevo il personaggio, avevo intercettato il suo potenziale in qualche articolo sparso in rete e alcuni colleghi mi avevano messo in guardia su quanto fosse mostruosamente abile nel suo mestiere. Ero dunque preparato ad incontrare un professionista con la “p”, la “r”, la “o” e tutte le altre lettere maiuscole, ma non potevo assolutamente immaginare la sua incredibile padronanza del palco – e delle parole. Il suo intervento è stato uno dei più elevati della giornata perché è riuscito a coinvolgere il pubblico e portarlo esattamente dove voleva: dritto davanti alle mille frasi e parole inutili che tutti noi scriviamo ogni giorno – questo testo probabilmente ne è pieno.

Luisa Carrada

Il Mestiere di Scrivere è uno dei pochi blog che leggo quando decido di prendermi il tempo di leggere sul serio. I post che contiene sono dei veri esercizi, momenti di analisi e riflessione. Non si possono scorrere con disinvoltura perché richiedono una certa attenzione, a prescindere dalla loro lunghezza. Proprio di lunghezza ha parlato Luisa:

  • si possono scrivere articoli lunghi in rete?
  • C’è davvero un pubblico che li legge?
  • C’è ancora chi si prende così tanto tempo per leggere post di oltre diecimila parole?

La risposta è si per ognuna di queste domande. Luisa Carrada ne ha mostrato le ragioni con la semplicità che da sempre la contraddistingue. Nel suo blog trovate anche un post dedicato: “I miei testi lunghi a C-Come“.

Vera Gheno

Finalmente ho conosciuto la persona che si nasconde dietro il profilo Twitter di Accademia della Crusca, quella figura che sa rispondere in modo così preciso, elegante, colto e talvolta sarcastico a messaggi di ogni genere: da quelli presuntuosi a quelli curiosi, da quelli volgari a quelli farciti con refusi grammaticali. Di lei mi hanno colpito la simpatia, l’utilizzo di termini italiani al posto di altri inglesismi che solitamente invadono il nostro lessico – ha parlato di ingaggio invece di engagement, ad esempio – e persino l’utilizzo di qualche parolaccia che, conti fatti, ha rafforzato il senso di quello che intendeva dire.

Francesca Parviero

Nel pomeriggio romano Francesca Parviero ha parlato di LinkedIn Pulse e della sua rilevanza nelle strategie di content marketing e personal branding. Cosa sono i Pulse, a cosa servono, perché non puoi farne a meno eccetera eccetera. Con un linguaggio chiaro e spigliato ha parlato del social network più “serio” per eccellenza, evidenziando i giusti comportamenti da adottare per risultare non solo credibili ma soprattutto trasparenti e professionali. Si è inoltre soffermata sull’importanza delle regole all’interno di un qualsiasi social network:

“le regole determinano l’efficacia di una piattaforma”.

Cosa ho imparato al C-Come

Partito senza penna e Moleskine ho preferito raccogliere sensazioni, non parole. Scelta mia poco condivisa dai presenti visto che tantissimi hanno versato litri di inchiostro dalla loro Bic nera – offerta dagli organizzatori – e riempito le pagine dei loro quaderni – anche questi offerti – con bozze, citazioni, appunti, scarabocchi.

Sensazioni, dicevo. Ma anche momenti, storie, sorrisi, confronti, bisticci, chiacchiere e stupidaggini. Coca-Cola e caffè gratuiti hanno alimentato tutto questo, creando situazioni importanti quanto gli interventi dei relatori.

Tra le tante cose che mi sono portato a casa, le due più rilevanti sono:

  • l’esigenza di costruire un Kronkiwongi;
  • la voglia di scrivere un post più lungo del solito, come questo.

Ed eccomi qui alle prese con un post di quasi 1.100 parole, tra i più lunghi presenti in questo blog. Se Luisa Carrada non avesse dato così tanto valore ai testi lunghissimi, dandomi una dose smisurata di coraggio, lo avrei certamente accorciato di parecchio. Non me ne voglia se non ho rispettato il suo decalogo, ma almeno il titoletto tra un paragrafo e l’altro l’ho inserito, cosa che non accade così spesso da queste parti.

 

come scrivere bene - david ogilvy

Nel diario di un copywriter ci sono appunti di ogni genere, anche insensati. Spesso si tratta di bozze, citazioni, consigli (di altri), disegni (solitamente pessimi), versi di canzoni, scritte indecifrabili che non hanno avuto il dono di incontrare una grafia elegante, idee per ipotetiche startup che non diventeranno mai startup e un mucchio di altre cose più o meno ordinate.

Le mie Moleskine sono piene di tutte queste cose, molte delle quali non attraversano mai l’evoluzione da cartaceo a digitale, ma ce ne sono alcune, come in questo caso, che trascrivo dalla carta a questo blog che è, a tutti gli effetti, un vero diario, proprio come le Moleskine, con la differenza che qui sul web le pagine non ingialliscono.

Da mesi e mesi trascrivo e ritrascrivo i consigli che David Ogilvy consegnò ai dipendenti di Ogilvy & Matther nel 1982. Semplicemente dieci velocissimi consigli. Come se per lui fosse davvero tutto li il segreto per scrivere bene, che di conseguenza significa lavorare meglio.

La traduzione che ho ricavato, tuttavia, non rende giustizia al suono ricercato dall’autore, per cui suggerisco di leggere anche la versione in lingua originale.

Come scrivere bene

Meglio scrivi e più carriera farai in Ogilvy & Mather. Le persone che pensano bene, scrivono bene. Scrivere bene non è una dote innata, bisogna imparare a farlo.
Ecco dieci regole:

  1. Leggi il libro sulla scrittura di Roman e Raphaelson. Leggilo tre volte;
  2. Scrivi come parli, in modo naturale;
  3. Usa parole brevi, frasi brevi, periodi brevi;
  4. Non usare parole come riconcetualizzare, demistificazione, attitudinalmente, giudicante. Sono il marchio di somari presuntuosi;
  5. Non scrivere mai più di due pagine riguardo un argomento;
  6. Controlla le citazioni;
  7. Non inviare mai una lettera o un appunto il giorno stesso in cui li hai scritti. Rileggili ad alta voce il mattino dopo e correggili;
  8. Se è una cosa importante, chiedi aiuto ad un collega per migliorarla;
  9. Priva di inviare la tua lettera o appunto, assicurati che sia assolutamente chiaro quello che vuoi che venga fatto;
  10. Se vuoi che qualcuno faccia qualcosa, non scriverglielo. Alzati e vai a dirglielo.

Non serve un genio per capire che i consigli di David Ogilvy vanno ben oltre lo scrivere ma si concentrano anche sul buon senso e l’educazione di ogni professionista, due concetti fondamentali per la salute di ogni ambiente lavorativo.

appunti di un copywriter

Le pagine delle mie Moleskine sono inzuppate di inchiostro e grafite. Frasi, pensieri, giochi di parole, appunti, nomi, disegni, briefing, esercizi per stimolare la creatività, cose che di solito hanno a che fare con il mio lavoro. Ci sono un sacco di annotazioni che si ripetono, scritte più volte da un taccuino all’altro, cose appuntate una volta, riaffiorate in altri fogli e diventate motivo di una nuova annotazione.

Se mi tornano a balenare nella mente, e le riappunto sul taccuino, dev’essere per un qualche motivo che, di preciso, non saprei descrivere, ma sono convinto, abbastanza convinto, che mi serviranno sempre.

Volevo scriverne un testo in prosa, ma mi rendo conto che è più semplice utilizzare un elenco puntato: riportandole in rispettoso ordine cronologico, ne trovo un senso che spiega il mio modo di operare nel mondo pubblicitario.

Effettivamente non ho mai redatto un manifesto personale, da rispettare e da consigliare a colleghi, clienti, amici o persone che capitano per mille motivi su questo sito o nella mia vita.

Chiamarlo manifesto è fuorviante. Ma di certo non si tratta né di regole né di consigli. Sono, piuttosto, appunti.

Appunti di un copywriter

  1. L’ego va messo da parte, sempre. I clienti non pagano per la tua bravura, pagano per i risultati.
  2. Il copywriter non è un barbaro. Nel senso sociologico del termine (inteso da Baricco nel saggio “I Barbari”).
  3. La creatività non (sempre) paga.
    La creatività non paga (molto).
    La creatività crea valore.
  4. Di umiltà non è mai morto nessuno.
  5. La “regola delle tre carte” non fallisce mai: prezzo basso, qualità, breve tempo. Ogni cliente ne può scegliere solamente due.
  6. La professionalità non passa mai di moda. Come l’etica.
  7. Salvo rarissime eccezioni, i libri che promettono di insegnare a scrivere bene (o in modo creativo, efficace e altri termini simili) non sono utili quanto i romanzi degli autori che sanno scrivere per davvero.
  8. Confessioni di un pubblicitario” è l’unico libro indispensabile. Il resto è tutto bla bla bla.
  9. Le persone che insegnano ad avere successo, hanno successo?
    Altra versione: quelli che insegnano ad avere successo, hanno un portfolio di spessore?
    Altra versione ancora: giacca e cravatta non fanno di te un professionista.
  10. Se non hai mai lavorato con la stampa, smetti di fare quello che stai facendo e lavora con la stampa. Devi toccare la carta, riconoscerne lo spessore, la porosità, l’odore. Devi capire come viene assorbito l’inchiostro e guardare i font deformarsi. Litigare con un art director sulla scelta dei colori e sulla posizione del testo.
  11. Raccontare è meglio di descrivere.
  12. Molte cosa sembrano innocenti, e sono invece visual design.
  13. È sbagliato mettere a confronto la stampa con il web, è giusto, piuttosto, cercarne la relazione.
  14. La storia dell’arte insegna più di un libro didattico.
    Altra versione: Van Gogh era un grande Art Director.
  15. Gli account pensano in modo totalmente differente dal tuo, ma spesso hanno ragione loro.
  16. Ci sono decine di font stupendi, non utilizzare solo Helvetica e Trade Gothic.
  17. Inventa progetti personali di comunicazione, servono a tenere in allenamento il cervello.
  18. Internet ha una memoria migliore della tua.
  19. SEO è una parola che ti farà imbestialire e una disciplina che spesso fa a pugni con la creatività. Eppure c’è, è meglio farsene una ragione e accoglierla, ma senza esagerare. In casi di emergenza rivolgiti ad un esperto SEO (che di solito non è un SEO writer).
  20. Le idee non finiscono mai. A volte sono timide, si mimetizzano, scappano e ti prendono in giro. Stando seduto non le trovi di certo, esci fuori, fai una passeggiata nella natura, di solito si nascondono dietro gli alberi.
  21. Le idee non si riciclano, vanno nell’indifferenziata.
    Altra versione: le idee degli altri sono sempre degli altri.
  22. La pubblicità pulita vince sempre su quella volgare.
    Altra versione: “il bene che c’è nel mondo supera il male, ma non di molto.” (cit. di Zalman Schachter-Shalomi).

Dicevo, sono frasi, bozze, appunti. Niente di più. Si sa mai che tornino utili a qualcuno.

Scrivere il titolo di un articolo non è semplice, soprattutto se ci tieni davvero a quello che scrivi, ancora di più se ne rispetti il gesto e la passione, o il mestiere.

In questo post non mi interessa insegnare la tecnica o i trucchi per farlo, non ne avrei mai il coraggio e la presunzione. Preferisco invece affrontare la tendenza che da un paio di anni a questa parte tempesta le redazioni di blog e magazine online: scrivere titoli (e articoli) sfruttando l’effetto elenco numerato.

Molti dei siti web che leggo quotidianamente lo fanno, spesso anche senza pietà, come Ninja Marketing che poche settimane fa riportava nella home page i seguenti titoli:

  • 6 modi per diventare leader di un team di sucesso
  • 5 storie che ti faranno venire voglia di cambiare vita
  • 10 app dalle quali c’è sempre qualcosa da imparare
  • 10 cose che gli startupper dovrebbero sapere
  • Love wins: 5 brand gay friendly prima che fosse mainstreem
  • I 6 gadget più cool per le vostre vacanze
  • 7 competenze social per lavorare nel mondo della musica

Su 20 articoli presenti nella home, 7 sono scritti con questa formula che non esito a definire acchiappa click.

Anche il seguitissimo Wired non è da meno, due settimane fa, nella home page spiccavano in ordine cronologico:

  • I 10 grandi film con trame impossibili
  • 10 ragioni per (ri)vedersi IT Cloud
  • 3 problemi matematici che ti faranno impazzire
  • I 5 consigli delle donne tech per lavorare (ed avere successo) nel mondo digitale

O ancora, su Agrodolce:

  • 12 trucchi per non piangere tagliando le cipolle
  • barbeque americano: 5 salse imprescindibili
  • 12 modi di cucinare i pomodori
  • 10 tipi di latte vegetale da provare
  • 20 varianti per ravvivare l’insalata caprese

Sul web di questi titoli se ne trovano a centinaia, perché funzionano, perché vanno di moda. O meglio: perché funzionano? Perché vanno di moda?

A mio avviso c’è una sola risposta per entrambe le domande:

Il mondo è un posto troppo grande per essere conosciuto tutto, eppure la voglia di leggere ed informarsi sembra non avere fine. Vogliamo conoscere e imparare nel minor tempo possibile. Preferiamo un elenco puntato ad un testo in prosa, e cerchiamo di spacchettare il sapere per leggerne solo le voci in grassetto, soltanto l’essenziale. Pretendiamo il controllo del tempo e temiamo che la lettura ce lo porti via.

I titoli con i numeri fanno risparmiare tempo, comunicano al lettore che l’articolo è semplice da fruire, che può essere letto in pochi istanti, e la promessa di un punto elenco rende tutto più leggero e ordinato.

Ecco perché funzionano e, di conseguenza, perché vanno così di moda. Perché questi non sono i giorni della prosa e della scrittura elegante, ma piuttosto i giorni dello schematizzare le cose, le storie, il sapere.

Tuttavia, la mia perplessità consiste nel fatto che questo meticoloso semplificare possa perdersi in un senso di superficialità.

E la superficialità è un batterio dello scrivere, diffusissimo, di quelli che fanno dimenticare il vero motivo per cui prendiamo in mano una penna o apriamo un foglio di testo.

Perché scriviamo.

Questo dovremmo sempre chiederci. Perché scriviamo?
E la risposta, che ci crediate o no, è sempre un titolo perfetto. Non ci sarà spazio per punti elenco o schemi numerati, salvo rare e obbligatorie eccezioni.