inventori

Ti dico una cosa, lo faccio con un dispiacere nell’anima, davvero: gli inventori sono gente di altri tempi. Gente sempre fuori luogo, insoddisfatta per natura, ambiziosa, gente di altra pasta e altri posti.

Devi metterti in testa che gli inventori non esistono più. Oggi ci sono gli ingegneri, i designer, i progettisti. Si, c’erano anche una volta, ma oggi la loro figura professionale ha guadagnato terreno ed importanza, togliendone, come ti dicevo, agli inventori. Apparentemente la differenza è sottile, anche i dizionari faticano a scandire bene il ruolo di uno e dell’altro. Beh, te la spiego io questa faccenda che, ti assicuro, è molto più romantica e lungimirante di quanto si possa immaginare.

La differenza tra inventori e ingegneri

Gli inventori sono ossessionati dall’esigenza di creare cose che non esistono e che migliorano la vita, anche in modo assurdo. Hanno inventato oggetti geniali come la cannuccia e il cavatappi, tu ora dirai che sono cavolate ma prova a pensare ad un mondo senza cannucce e cavatappi. Capisci di cosa parlo? Hanno trascorso l’intera esistenza a semplificare la vita di noi coglioni. La radio, per esempio, quasi abbiamo smesso di ascoltarla, se non quando siamo al volante o in un centro commerciale. Ma hai idea di quanto genio serva per concepire un apparecchio del genere? Non costruire ma concepire. Non solo la radio, pensa alla tastiera dalla quale stai scrivendo, ti sei mai chiesto perché i tasti sono disposti in quel modo? Lo sai perché iniziano con la Q e non con la A? C’è stato un tizio, un certo Christopher Sholes, inventore, che ha brevettato un nuovo modo di disporre le lettere: lo ha chiamato QWERTY, come le prime sei consonanti che trovi sulla tastiera, e ha permesso a chiunque di battere a mano più velocemente evitando che s’inceppassero i merletti della macchina per scrivere. Sholes ha fatto tutto questo nel 1864, ascolta bene, milleottocentosessantaquattro. Non c’erano ancora le penne a sfera.

Per inventare queste cose serve un certo genio. Una sorta di follia che non ha niente a che fare con la visione progettistica, di certo affascinante, degli ingegneri che hanno costruito veicoli per andare sulla Luna. Vedi, anche le astronavi spaziali sono invenzioni, ci mancherebbe, ma appartengono ad una categoria differente, dove la scienza si evolve di pari passo con la creatività. Tali invenzioni sono proprie, come ti dicevo, degli ingegneri, dei progettisti, talvolta dei designer. Un inventore non costruirebbe mai una navicella spaziale. Si impegnerebbe, piuttosto, nell’invenzione di una macchina volante, capisci dove sta la differenza?

Gli inventori si riuniscono nei club degli inventori, o almeno così facevamo fino a quando esistevano (entrambi). Oggi quanti ne conosci? Quanti ne hai visti? Nessuno, perché loro non ci sono più, si sono portati nella tomba anche la parola stessa: inventore. Non la trovi bellissima?

Se dovessi darti una definizione più precisa di quella che trovi sul dizionario, ti direi questo:

l’inventore inventa per il gusto, il gesto e la passione di creare cose che ancora non esistono fisicamente. Queste cose lui le vede prima che qualcuno ne senta l’esigenza. Le inventa prima che chiunque si possa chiedere come migliorare la vita quotidiana. L’inventore inventa oggetti e marchingegni incredibili per dimostrare che tutto è possibile. Inventa per consentire alle persone di fare cose grandiose, come volare, telefonare, scrivere meglio, respirare. Lo fa perché ha una sorta di dono che interpreta come un dovere, quasi avesse fatto uno sgarbo al mondo e si sentisse in dovere di farsi perdonare.

eccetera

Poveretta la parola eccetera. La accorciamo in continuazione, non la scriviamo mai completa di tutte le sue lettere. Che ci ha fatto di male? Nove caratteri e solo cinque lettere uniche. Niente di particolarmente complicato da scrivere, sia con la penna che con la tastiere o magari il pollice, o l’indice. Non avrei particolari obiezioni sull’accorciare parole lunghissime come precipitevolissimevolmente (26 lettere), spettroeliocinematografia (25), elettroencefalograficamente (27) o il più assurdo esofagodermatodigiunoplastica (29). Ma eccetera, poveretta, cosa diavolo ha fatto per meritarsi l’abbreviazione? E poi perché alcuni la accorciano utilizzando due “c” mentre altri utilizzano anche la “t”?

Si scrive ecc. o etc.?

Il termine viene dal latino (et cetera) come un milione di altre parole della nostra lingua. Quindi non lo abbreviamo per una questione di razzismo, altrimenti dovremmo amputare gran parte delle voci presenti nel dizionario. Ma almeno capiamo perché alcuni, soprattutto inglesi e americani, usano la formula etc. In realtà anche noi italiani la utilizziamo, spesso senza conoscerne il motivo o con la convinzione che un inglesismo possa arricchire il nostro testo. Tecnicamente non è sbagliato scrivere etc., ma in questo periodo in cui la terminologia straniera ha invaso ogni nostro scritto (pensiamo a parole come brioche, cloud, marketing, meeting) preferisco attenermi alla formula italiana ecc. D’altra parte, se le abbreviaziani fossero vietate scriveremmo mai la parola completa et cetera?

Una dieta vegana evita tutti gli alimenti di origine animale come latte, uova, formaggi et cetera.

Chiaramente no, sarebbe molto più carino scrivere eccetera. Quindi, in italiano, preferisco scrivere ecc.

Il punto dopo l’abbreviazione

La grammatica impone l’utilizzo del punto in seguito ad una parola abbreviata, per cui scriviamo ecc., egr. e dott., affiancando un punto ad una virgola, come mi è appena accaduto. Inoltre, nel caso di una frase scritta all’interno di due parentesi, possiamo trovare anche la combinazione .).

Nella mia cassetta per gli attrezzi trovi tutto ciò che può servirti per riparare il guasto (cacciaviti, martelli, brugole, fascette ecc.).

Il primo punto completa l’abbreviazione, il secondo termina la frase mentre la parentesi, semplicemente, li separa. Se quest’ultima non ci fosse, però, sarebbe sbagliato (e brutto) chiudere un periodo con due punti, per cui bisogna utilizzarne uno soltanto, come evidenzia anche l’Accademia della Crusca:

… in una frase che si concluda con una parola abbreviata non si ripete il punto (presero carte, giornali, lettere ecc. Non presero i libri).

C’è poi chi aggiunge i puntini di sospensione dopo ecc., creando così “ecc…”. Questa formula è sbagliata perché i puntini (tre, solo tre, mai di meno e mai di più), hanno diverse funzioni ma non quella di concludere una abbreviazione.

Abbreviazioni assurde

La lingua italiana si comporta spesso in modo bizzarro. Permette di accorciare parole semplici come eccettera e allo stesso tempo permette soluzioni di dubbio gusto come dott.ssa, gent.mo o anche f.lli. Ogni riduzione grafica viene utilizzata per risparmiare tempo e spazio, come ricorda anche l’Enciclopedia Treccani, e trovo abbia un senso in certi contesti: scrivere una email, un SMS, un preventivo, un articolo di giornale (soprattutto cartaceo), un tweet, ecc.

Tuttavia, preferisco evitare l’utilizzo delle abbreviazioni, soprattutto quando la mia scrittura non viene dirottata da confini di spazio. Il tempo non è un problema, è piuttosto una scusa, un pretesto, una giustificazione. Provate a misurare quanti secondi impiegate a scrivere ecc. e quanti ve ne servono per scrivere eccetera. A quanto ammonta il divario? Un secondo? Due? Bene, questo lasso di tempo lo regalo alle parole, come forma di rispetto, e amore.

Iron Man - logo - lettering design

Le parole non sono solo parole, sono anche immagini. E anche le immagini sono parole. A farla breve, immagini e parole sono la stessa identica cosa. Davvero.

Le parole si muovono, dentro la nostra testa compiono gesti che corrispondono al loro esatto significato. Mentre leggiamo la parola “salto”, ad esempio, immaginiamo effettivamente una sorta di balzo da parte di qualcuno o qualcosa. Ora proviamo a collegare la nostra immaginazione alla parola scritta, facendo compiere un un balzo ad una delle lettere che la compongono.

jump - lettering design

 

L’esercizio che mi piace svolgere con non ordinaria frequenza consiste proprio nello spingere il significato a modificare il significante, e far sì che il senso di una parola ne vada a modificare il segno grafico, i contorni e perché no, anche la fonetica.

Si tratta solo di concentrarsi sulla forma e sul significato di una parola. Certe volte l’immagine che viene evocata può realmente concretizzarsi e modificare la grafia o l’intero visual della parola: è necessario pensare al termine non come un insieme di lettere ma come un incubatore di tratti e segni, modificiabili e sostituibili a nostro piacimento. La parola deve quindi essere “letta” come se fosse un disegno. Perché anche i disegni si leggono.

 

autumn - lettering design
Dal momento che le parole sono immagini nessuno ci vieta di utilizzare i colori nel processo di fusione tra significante e significato. Personalmente preferisco utilizzarli in quantità minime per non appesantire il disegno e non perdere le sembianze originali del testo. L’idea creativa alla base del disegno “Autumn”, come è ovvio, sta nel far cadere le lettere dalla parola come le foglie degli alberi, richiamando così un comune immaginario autunnale.

Lettering design: come si trasforma una parola in un’immagine?

Dicevo prima di non pensare alla parola come un insieme di lettere ma come un incubatore di tratti che possono essere spostati, capovolti e modificati. Prendo in esempio il nome “Titanic”. Quando leggiamo questa parola il nostro cervello esegue una lunga serie di collegamenti mentali, tra questi:

  • una nave che affonda;
  • Leonardo Di Caprio;
  • un iceberg;
  • Kate Winslet;
  • un prezioso gioiello blu;
  • una nave che si spezza in due.

La domanda è: uno di questi collegamenti può essere facilmente rappresentato modificando graficamente le lettere della parola Titanic? Dobbiamo impegnarci a rispondere sempre di si, trovando una soluzione creativa che non alteri il messaggio e che faccia possibilmente sorridere. La mia interpretazione personale è questa, dove l’idea creativa si concentra sulla lettera A che “affonda”.

 

Titanic - lettering design

 

Ok, con un nome così noto è troppo facile? Proviamo allora con quello di una serie TV: X-Files.
Quali collegamenti mi vengono in mente?

  • Due agenti dell’FBI.
  • Gli alieni.
  • UFO e navicelle spaziali.
  • Fenomeni paranormali.
  • I capelli rossi (ora biondi) dell’agente Scully.
  • L’uomo che fuma.

Mi concentro ora sullo stesso ragionamento elaborato per Titanic aggiungendo però qualche colore:

 

X- Files - lettering design

 

Troppo facile anche questa? Proviamo con The Walking Dead?
Dunque, si tratta di un telefilm concentrato sugli zombie che, per definizione, sono morti che camminano. Posso trasformare questo titolo in un titolo-zombie? Ci provo modifico l’ordine di tutte le lettere che compongono il nome:

The Walking Dead - lettering design

 

Ovviamente non è sempre così semplice trovare una composizione creativa. soprattutto con nomi più “anonimi” come nel caso di Quantico. Non sapendo come conciliare i significati della serie TV sugli aspiranti agenti dell’FBI ho pensato alla situazione attuale della serie: al momento è in pausa, i nuovi episodi usciranno in primavera. Quindi in un certo senso si “riaccenderà” il programma, da qui:

 

Quantico

 

Prendiamo ora il nome di un brand che ha fatto discutere non poco negli ultimi mesi, Yamaha. Con lo scontro tra Valentino Rossi e Jorge Lorenzo i tifosi si sono letteralmente divisi in due fazioni e allo stesso tempo gli equilibri interni dell’azienda hanno accusato una bella scossa.

 

Yamaha - lettering design

 

Questo esempio è utile per spiegare che talvolta anche la situazione culturale può incidere sul rapporto tra immagini e parole, significanti e significati.

Provateci voi ora: scegliete il nome di un film, un animale, una stagione dell’anno, un verbo o il nome di un oggetto che portate sempre con voi, e se vi divertite continuate a farlo, così facendo terrete in allenamento la vostra creatività.

Io lo sto svolgendo proprio in questi giorni con “Superheroes: a lettering design project”, dove mi diverto a gicoare con i nomi, i poteri e le caratteristiche dei super eroi di Marvel e DC Comics.

 

Superman - lettering design

 

Seguite l’evoluzione del progetto sulla mia pagina Facebook o nell’apposita board di Pinterest.

C-Come - LEGO - Kronkiwongi

La distanza tra Rimini e Roma è di circa 360 chilometri. In auto si percorre in quattro ore scarse salvo traffico o altri imprevisti, anche se a Roma il traffico non è mai un imprevisto.
Ad ogni modo è per colpa di questi ultimi se non sono riuscito a partecipare alle prime due edizioni di C-Come, ma quest’anno è andato tutto liscio.

Per la prima volta nella mia vita mi sono presentato ad un convegno senza penna e Moleskine, con l’intenzione di memorizzare e vivere il momento invece di prendere appunti. Solitamente mi incavolo perché mentre scrivo qualche frase importante mi perdo frammenti del discorso, o peggio ancora finisce che scrivo cose senza capirne correttamente il senso, e quando torno a casa gli appunti non servono più a granché. Quindi niente penna e niente Moleskine. Solo orecchie. E occhi. E mani, olfatto e gusto.

Un convegno si segue con tutti i sensi

Ognuno dei presenti avrà notato l’odore antico delle sedute, la stampa a rilievo sulla copertina della copia omaggio di Digitalic, la Coca-Cola a temperatura ambiente gentilmente offerta dagli organizzatori e anche il caffè servito in bicchieri di plastica, anch’esso offerto con altrettanta gentilezza. Queste cose si percepiscono e ricordano più di molte altre. Un po’ come i movimenti, gli atteggiamenti e i sorrisi dei relatori. La loro personalità, infatti, non viene messa in mostra unicamente nei venti minuti sul palco, ma soprattutto nei gesti che compiono durante il resto della giornata, nelle parole scambiate con i partecipanti, nelle strette di mano – che comunicano tantissimo -, nel modo in cui prestano attenzione alle domande e addirittura nello stile – si, lo stile – che dimostrano nel sapersi muovere tra la folla che sottovoce pronuncia il loro nome.

Tra i relatori del C-Come 2016 ce ne sono alcuni che mi hanno davvero impressionato, come Giuseppe Brugnone, Alessandro Zaltron, Luisa Carrada, Vera Gheno e Francesca Parviero. Con questo elenco non intendo di certo screditare gli altri protagonisti dell’evento, ma ognuno dei partecipanti avrà i suoi preferiti, beh, questi sono i miei.

Giuseppe Brugnone

Prima del C-Come non avevo idea di chi fosse il social media manager di LEGO, in realtà non me lo ero nemmeno mai chiesto, nonostante io sia un fan piuttosto scatenato dei mattoncini danesi. Di Giuseppe Brugnone ho ammirato l’entusiasmo e la freschezza che ha saputo trasmettere con disarmante semplicità. Non come i big di Apple che hanno sempre quel sorriso stampato che pare ti stiano prendendo per il culo. L’espressione sul suo viso è autentica tanto quanto l’entusiasmo. Inoltre mi ha fatto scoprire il Kronkiwongi, un progetto dalla creatività smisurata che ha incantato tutti gli ascoltatori e “obbligato” loro a twittare in proposito di questo oggetto misterioso. Ah, il mio Kronkiwongi si è prepotentemente guadagnato l’immagine di copertina di questo post.

Alessandro Zaltron

Definirlo scrittore è più che riduttivo. Alessandro è un professionista dalla penna colta e affilata. Conoscevo il personaggio, avevo intercettato il suo potenziale in qualche articolo sparso in rete e alcuni colleghi mi avevano messo in guardia su quanto fosse mostruosamente abile nel suo mestiere. Ero dunque preparato ad incontrare un professionista con la “p”, la “r”, la “o” e tutte le altre lettere maiuscole, ma non potevo assolutamente immaginare la sua incredibile padronanza del palco – e delle parole. Il suo intervento è stato uno dei più elevati della giornata perché è riuscito a coinvolgere il pubblico e portarlo esattamente dove voleva: dritto davanti alle mille frasi e parole inutili che tutti noi scriviamo ogni giorno – questo testo probabilmente ne è pieno.

Luisa Carrada

Il Mestiere di Scrivere è uno dei pochi blog che leggo quando decido di prendermi il tempo di leggere sul serio. I post che contiene sono dei veri esercizi, momenti di analisi e riflessione. Non si possono scorrere con disinvoltura perché richiedono una certa attenzione, a prescindere dalla loro lunghezza. Proprio di lunghezza ha parlato Luisa:

  • si possono scrivere articoli lunghi in rete?
  • C’è davvero un pubblico che li legge?
  • C’è ancora chi si prende così tanto tempo per leggere post di oltre diecimila parole?

La risposta è si per ognuna di queste domande. Luisa Carrada ne ha mostrato le ragioni con la semplicità che da sempre la contraddistingue. Nel suo blog trovate anche un post dedicato: “I miei testi lunghi a C-Come“.

Vera Gheno

Finalmente ho conosciuto la persona che si nasconde dietro il profilo Twitter di Accademia della Crusca, quella figura che sa rispondere in modo così preciso, elegante, colto e talvolta sarcastico a messaggi di ogni genere: da quelli presuntuosi a quelli curiosi, da quelli volgari a quelli farciti con refusi grammaticali. Di lei mi hanno colpito la simpatia, l’utilizzo di termini italiani al posto di altri inglesismi che solitamente invadono il nostro lessico – ha parlato di ingaggio invece di engagement, ad esempio – e persino l’utilizzo di qualche parolaccia che, conti fatti, ha rafforzato il senso di quello che intendeva dire.

Francesca Parviero

Nel pomeriggio romano Francesca Parviero ha parlato di LinkedIn Pulse e della sua rilevanza nelle strategie di content marketing e personal branding. Cosa sono i Pulse, a cosa servono, perché non puoi farne a meno eccetera eccetera. Con un linguaggio chiaro e spigliato ha parlato del social network più “serio” per eccellenza, evidenziando i giusti comportamenti da adottare per risultare non solo credibili ma soprattutto trasparenti e professionali. Si è inoltre soffermata sull’importanza delle regole all’interno di un qualsiasi social network:

“le regole determinano l’efficacia di una piattaforma”.

Cosa ho imparato al C-Come

Partito senza penna e Moleskine ho preferito raccogliere sensazioni, non parole. Scelta mia poco condivisa dai presenti visto che tantissimi hanno versato litri di inchiostro dalla loro Bic nera – offerta dagli organizzatori – e riempito le pagine dei loro quaderni – anche questi offerti – con bozze, citazioni, appunti, scarabocchi.

Sensazioni, dicevo. Ma anche momenti, storie, sorrisi, confronti, bisticci, chiacchiere e stupidaggini. Coca-Cola e caffè gratuiti hanno alimentato tutto questo, creando situazioni importanti quanto gli interventi dei relatori.

Tra le tante cose che mi sono portato a casa, le due più rilevanti sono:

  • l’esigenza di costruire un Kronkiwongi;
  • la voglia di scrivere un post più lungo del solito, come questo.

Ed eccomi qui alle prese con un post di quasi 1.100 parole, tra i più lunghi presenti in questo blog. Se Luisa Carrada non avesse dato così tanto valore ai testi lunghissimi, dandomi una dose smisurata di coraggio, lo avrei certamente accorciato di parecchio. Non me ne voglia se non ho rispettato il suo decalogo, ma almeno il titoletto tra un paragrafo e l’altro l’ho inserito, cosa che non accade così spesso da queste parti.

 

aggettivi inutili

Ci sono alcuni aggettivi che si trovano un po’ ovunque, dagli slogan pubblicitari ai titoli degli articoli di giornale, dai testi degli spot radiofonici al parlato di ogni giorno. Il loro continuo abuso li ha svuotati di fascino e significato in determinati contesti. In particolare, nella comunicazione di oggi sono diventati pressoché inutili e la colpa di ciò è data dalla pigrizia di cercarne di più precisi e adatti. Colpa che si può facilmente attribuire a chi parla e chi scrive – ovviamente per lavoro.

Ma quali sono questi aggettivi? Tra i tanti che mi sono appuntato, ce ne sono sei che proprio non sopporto: efficace, definitivo, pratico, facile, veloce, dinamico.

Efficace

Spesso nei siti web di agenzie di comunicazione si trovano frasi come “Realizziamo strategie efficaci per la tua attività”. C’è davvero bisogno di utilizzare l’aggettivo “efficaci”? Mi viene da pensare che sarebbe assurdo il contrario, perché in fondo quale azienda offrirebbe un servizio inefficace?

Tale aggettivo potrebbe essere utilizzato, invece, per accompagnare prodotti e servizi che solitamente sono rinomati per la loro inefficacia, come ad esempio un prodotto contro i brufoli, o una crema per dimagrare. Ma anche in questo caso, siamo davvero sicuri che non esista un aggettivo migliore?

Definitivo

“La guida definitiva per…”. Iniziano così molti titoli di articoli how to, arricchiti con l’aggettivo “definitivo” perché di guide online ne abbiamo lette così tante che oggi non ne riconosciamo più la qualità. Ci appaiono tutte uguali, per questo chi le scrive avverte il bisogno di utilizzare titoli più adeguati ai nostri giorni. Scrivere “Guida per produrre la birra in casa” andava benissimo fino pochi anni fa, ma oggi risulta apparentemente più convincente scrivere  “Produrre la birra in casa: la guida definitiva” (che in passato sarebbe risultato eccessivo e spavaldo). Tuttavia, la domanda è sempre la stessa: “Se la guida non fosse definitiva, sarebbe davvero una buona guida?”.

La combo facile e veloce

L’accoppiata di questi due aggettivi è diventata quasi un’automatismo dell’italiano scritto e parlato di ogni giorno: “Aprire un conto in banca è facile e veloce grazie a…”, “una crema per il corpo facile e veloce da applicare”, e così via. Tale espressione sottolinea che “ci vuole poco tempo, puoi farlo anche tu”. O meglio, “ci vuole un attimo, qualsiasi scemo è in grado di farlo”. Ecco che, allora, capiamo che la sua esatta collocazione risiede in quelle attività solitamente complicate per i più, come cucinare (una ricetta facile e veloce da preparare) o applicare le catene da neve alle ruote dell’auto (facili e veloci da montare). In fondo, aprire un conto in banca non dovrebbe essere sicuro e fruttuoso prima di facile e veloce?

Dinamico

“Cerchiamo persone dinamiche”.
Ogni volta che leggo questa richiesta negli annunci di lavoro mi viene sempre da sorridere. Chi sono e cosa fanno le persone dinamiche? Quali sono le differenze rispetto alle persone non dinamiche? Nel mondo del lavoro, un individuo è dinamico quando:

  • non dorme in piedi;
  • riesce a muovere autonomamente braccia e mani;
  • si dimostra volenteroso nei confronti del lavoro;
  • svolge i compiti assegnati in modo abbastanza rapido;
  • si adatta senza lamentarsi particolarmente ai cambiamenti improvvisi;
  • dimostra una certa capacità nella risoluzione dei problemi.

In sostanza, “Cerchiamo persone dinamiche” è un modo elegante di dire “No scalda-sedie”. Quindi, ha davvero senso specificare che la figura professionale debba essere dinamica? Chi lo vorrebbe mai uno scansafatiche? Non sarebbe meglio richiedere una caratteristica davvero rilevante per il posto di lavoro offerto?

L’aggettivo dinamico risultata particolarmente utile quando si parla di pagine web, che a loro volta si differenziano tra pagine statiche e pagine dinamiche (non perché le une siano più sveglie delle altre).

Mi rendo conto che non è poi così semplice uscire da questi cliché ormai troppo presenti nella comunicazione italiana, ma il buon vecchio dizionario è un fedele alleato di chi ogni giorno scrive per lavoro. Esiste appunto il Dizionario delle collocazioni, un vero e proprio assistente linguistico che suggerisce verbi, aggettivi e avverbi da collocare accanto ogni parola: ho letto un bel libro o un libro avvincente? Ho scritto una buona relazione o una relazione esauriente? Cose del genere.

Sfogliando un qualsiasi dizionario si trovano centinaia di aggettivi più eleganti, precisi ed efficaci (!) che migliorano notevolmente il linguaggio. È perciò importante cercarli e soppesarli per arricchire la propria comunicazione con termini che non puzzano di riciclato, perché

gli aggettivi non si riciclano, si buttano nell’indifferenziata.

Logo Design Love

Come lettura natalizia ho scelto Logo Design Love di David Airey, perché:

  1. la copertina è figa;
  2. il logo è figo;
  3. il sottotitolo è una promessa.

Queste tre motivazioni mi bastano. E si, scelgo anche i libri in base alla loro copertina. Sono un pubblicitario, il primo che ci casca (anche volontariamente) al packaging o alle strategie di marketing.

Logo Design Love è disponibile sia in versione digitale che cartacea, tra le due ho scelto la seconda, perché un libro che parla di design lo devo “sentire” tra le dita, ne devo osservare le forme e il modo in cui la carta assorbe l’inchiostro. Cose così, un po’ maniacali, ma la comunicazione è fatta anche di questo.

La guida, o almeno così si autodefinisce, parla del processo creativo necessario per la realizzazione di un logo. Analizza le caratteristiche che lo rendono unico, distintivo e facilmente riconoscibile. Al contrario di molti altri libri del suo genere, questo arriva davvero al cuore della questione:

Anyone can design a logo, but not everyone can design the right logo. A succesful design may meet the goals set in your design brief, but a truly enviable iconic design will also be simple, relevant, enduring, distinctive, memorable and adaptable.

Ma come si crea il giusto logo per un’azienda?

David Airey non si sofferma sui soliti consigli da quattro soldi come “sii creativo”, “pensa in modo trasversale” ecc., ma affronta ogni fase di progettazione con meticolosa attenzione. Parla di tempistiche, tradizione, mode, obiettivi, significati e significanti, mostrando casi di successo calzanti e originali (non i soliti Nike, Apple e IBM).

In questa guida per la realizzazione di un logo, si trovano anche le bozze di numerosi progetti di identità iconica, grazie alle quali è possibile scoprire l’intero processo creativo in cui i graphic designer si sono cimentati. In più non mancano le tante applicazioni su media cartacei e digitali, o addirittura su prodotti e superfici di differenti materiali, che mostrano quanto sia importante adottare un pensiero che unisca sia il mondo dei colori che quello del bianco e nero – due mondi che, secondo l’autore e anche il sottoscritto, sono imprescindibili e collaterali.

Il libro non è disponibile in italiano, ma solo in inglese (originale), tedesco, giapponese e altre traduzioni che trovate nel sito web Logo Design Love Book. La versione inglese in mio possesso è di facile comprensione e strutturata esclusivamente da periodi brevi, talvolta brevissimi, “quasi” a prova di italiano medio. Infine, non mancano le frasi memorabili che rendono grandioso il mestiere dei pubblicitari, tra queste:

At some point in the future, you might find yourself giving your client a lesson about design – perhaps about typography or print quality, for example. But first it’s important that you learn all you can about your client.

O anche:

To be a good designer you need to be curious about life; the strongest ideas are born from our experiences and the knowledge we gain from them. The more we see and the more we know, the greater the amount of fuel we have for generating ideas.

Gli ultimi due capitoli sono delle vere chicche: “31 pratical logo design tips” racchiude consigli e trucchetti del mestiere, mentre “Beyond the logo” conclude la guida con una galleria di progetti che ispirano e motivano il lettore.


 

Approfondimenti:

Sito web di David Airey

Blog di Logo Design Love

Sito web dedicato al Logo Design Love Book

I veri appassionati iniziano già nei primi giorni di novembre. Anche se la ricerca di un’idea originale è attiva tutto l’anno. A volte è una tecnologia, un nuovo modo di illuminare la scena, un motore per innescare un movimento, una serie di statuette ricercate.

Nei paesini di Provincia il momento del presepe diventa motivo di guerra, invidia e superiorità. In ogni quartiere si accendono micro battaglie dove a fare la differenza sono gli “oooh” e gli “aaah” del pubblico. In premio c’è il titolo “miglior presepe della città”. Mica poco. Pensate ad uno che durante tutto l’arco dell’anno non aspetta altro che questo momento, uno che per dodici mesi medita su innovazioni e migliorie, sperando di trovare l’intero vicinato davanti al suo presepe. Mica poco.

È così che il fascino del Natale diventa una guerriglia combattuta a suon di statuette, buoi e asinelli.

Ho visto presepi in cui scorre acqua vera, grazie ad un sistema idraulico che la spinge in un canale di plastica – il fiume – e la rimette in circolo in appositi tubi che raggiungono il tetto della struttura (il cielo), facendo poi cadere qualche goccia qua e là (la pioggia) sul muschio o sul prato. Vero anche quest’ultimo.

Ho visto sistemi LED a intermittenza che danno l’idea di lampi e fulmini, e udito il rumore del temporale dalle casse audio nascoste dietro un gregge di capre di plastica o addirittura dentro la grotta. Alcuni appassionati piuttosto futuristici e lungimiranti hanno installato una serie di binari che percorrono l’intero perimetro del presepe, dove, sopra di essi, vengono posizionati i Re Magi, che si muovono lentamente dando quel senso di attesa, arrivo, pazienza.

Piuttosto comune, ormai per tutti gli sfidanti, è invece il sistema di illuminazione del cielo stellato, con luci disposte sempre più spesso secondo le costellazioni più o meno amate dai progettisti. La più quotata è l’Orsa Maggiore, vai a capire il perché.

Nei quartieri di provincia la sfida è agguerritissima: dall’otto dicembre ogni presepe è aperto al pubblico, composto quest’ultimo dai soliti anziani curiosi e annoiati e da bambini ancora più curiosi ma che si annoiano dopo, e non capiscono, perché in fondo son bambini, tutta la ricerca, lo studio e la fatica necessari per la costruzione di un progetto di simile precisione.

L’anno scorso il campione in carica del mio quartiere, che da sette anni consecutivi vince qualsiasi sfidante per creatività, tecnologia e qualità delle statuette (alcune delle quali le conserva in cassaforte per il resto dell’anno), ha deciso di investire tempo e risorse per una campagna pubblicitaria: ha realizzato un manifesto in cui valorizzava la sua opera e invitava il pubblico a visitarlo ogni giorno dalle otto del mattino alle undici di sera, distribuendo decine e decine di fotocopie del manifesto nei luoghi strategici presenti nel raggio di 500 metri attorno casa propria: un tabacchi, un bar, una macelleria, una lavanderia, due pizzerie da asporto, un fornaio, un minimarket, una rosticceria, una farmacia, un asilo e una scuola elementare. Non ha però affisso nulla in chiesa.

Quest’anno la battaglia si fa davvero dura: lo sfidante più temuto, che negli ultimi inverni è sempre arrivato a un passo dalla conquista del titolo di miglior presepe del quartiere, ha investito tempo e denaro sui social network: ha creato una pagina Facebook e un canale YouTube in cui pubblica foto e video del suo presepe, definendolo “il più ambizioso tributo al Natale di tutta la Romagna”. Si mette dunque davvero male per il campione in carica. L’altro giorno l’ho intravisto mentre vagava in strada con il suo malloppo di fotocopie sotto braccio. Alla lavanderia si dice che abbia espanso la distribuzione dei suoi manifesti anche negli altri quartieri.

Al bar, invece, si vocifera che i due non si rivolgano più la parola e che la tensione degli anni precedenti sia nulla in confronto al gelo che li divide quest’anno, o almeno fino alla Befana, quando a nessuno fregherà più nulla dell’aria natalizia, dei Re Magi e delle statuette, e la vita di ogni giorno riprenderà il suo corso, il suo tepore, il suo lungo vagare senza mai voltarsi indietro.

dieta vegetariana

Ogni tanto ho sgarrato. Lo ammetto subito. E la mia scelta è piena di contraddizioni, sarebbe assurdo il contrario. Impegnarmi è stato davvero gratificante, un’esperienza incredibile che ho affrontato con una semplicità disarmante, mai come una rinuncia.

Ci sono tanti motivi per cui una persona può scegliere una dieta vegetariana, tra questi, i più “gettonati” riguardano il rispetto per gli animali e quello per l’ambiente. L’ambiente? Si, anche quello, perché l’allevamento intensivo è responsabile del 18% delle emissioni di gas serra e del 70% delle deforestazioni del pianeta. La mia motivazione riguarda il primo caso, anche se gli abiti che indosso sono pieni di sostanze animali (colla, pelle, imbottiture), da qui, appunto, le prime contraddizioni.

Non sono un estremista della cucina vegetariana, non sono quello che s’incazza contro chi mangia carne, quello che assicura l’incombenza di malattie mortali per chi non evita certi cibi. Non mi interessa quello che mangi tu. Piuttosto, provo dispiacere nel vedere quello che mangi (da dove proviene? Qual è la sua storia? Com’è arrivato fino al tuo piatto?).

Benefici della dieta vegetariana

Evitare di mangiare carne permette di trovare nuovi equilibri alimentari e interiori, e scoprire che questi sono collegati e collaterali.

Ho eliminato completamente la carne animale, anche se i derivati come uova e latticini fanno ancora parte della mia dieta settimanale. Ho diminuito fortemente il consumo di latte, evitandolo soprattutto a colazione dove preferisco la crema Budwig o il latte di soia. Ma comunque, non saprei dire con esattezza se il mio stare meglio dipende esclusivamente da ciò che (non) ho mangiato, ma di certo, negli ultimi 12 mesi ho riscontrato questo:

  • niente sinusite, gli anni precedenti me la portavo dietro per tutta la stagione invernale;
  • fisico più asciutto, stesso peso, merito anche dell’aumento dell’attività sportiva;
  • più forza fisica, se pensate che carne = energia vi sbagliate di grosso;
  • riduzione dei mal di testa, in precedenza erano frequentissimi in estate e in inverno;
  • zero problemi di reflusso e digestione;
  • escludendo il latte a colazione ho cancellato i problemi di acidità che spesso mi tormentavano al mattino.

Ma il beneficio che mi rende più orgoglioso è la consapevolezza di non essere parte del maltrattamento animale e all’industrializzazione della carne, che sono, in fondo, la stessa identica cosa. Questa è la vera conquista.

E sto davvero bene. Ho scoperto nuovi sapori, odori e piaceri completamente differenti da quelli a cui ero abituato, e anche se il profumo di un ragù è sempre una tentazione, rifiutarlo in cambio di un piatto di legumi non è una rinuncia, ma una conquista.

Eppure c’è ancora tanto in cui devo migliorare.

Se ti interessa approfondire l’argomento ti consiglio di leggere il libro Se niente importa – perché mangiamo gli animali, di Safran Foer, per me è stato davvero illuminante, quasi quanto il mio cane, che è il mio motivatore giornaliero.