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Un giapponese qualunque

Me ne stavo seduto in treno, prima volta sul Freccia Rossa, con un ragazzo giapponese seduto accanto nel tratto Bologna – Firenze. Un illustratore dai lineamenti orizzontali che ammazzava il tempo disegnando pupazzetti stile pockemon con carta e penna, niente colori. Come disegnava. Sarebbe stato bello fotografare le sue mani. Sottili e pulite, perfettamente idratate, unghie ben curate, senza pellicine attorno.

Molte persone sostengono che le mani raccontano molte cose di una persona. Io credo invece che non raccontano nulla. Magari qualche indizio, poco più. Le mani di quell’artista giapponese non erano diverse da quelle di un qualsiasi pianista, magari francese, o da quelle di un commesso di una boutique, chissà, canadese. Quindi raccontano poco. Danno un indizio, sul semplice fatto che quella persona compie un lavoro pulito, non è di certo un meccanico, un muratore, o uno che batte chiodi dal mattino alla sera.

Non credo che le mani raccontano storie. Serve qualcuno che, magari, ci ricami sopra un pensiero, un motivo. Perché le cose, da sole, non raccontano nulla. Le cose vogliono essere raccontate. Vogliono che il mondo si riempia di storie nuove. Quelle di un disegnatore giapponese che scende a Firenze. Per studiare l’arte italiana, rubare i segreti di Leonardo. Alla ricerca di un bordello nascosto in un quartiere poco lontano dalla stazione, dove si racconta di donne di una bellezza micidiale. Un giapponese che in realtà è un killer, o una spia. Un professore di disegno. Può essere qualsiasi cosa, o qualsiasi storia. Perché le sue mani dicono semplicemente che è bravo a disegnare. E sono belle. Nient’altro.

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