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word as image - ji lee

Le immagini valgono più delle parole? Io non credo.
Più delle parole valgono i fatti, secondo alcuni, ma questo è un altro discorso.

In comunicazione, immagini e parole, non si trovano le une contro le altre, giocano piuttosto nella stessa squadra. Ci sono le volte in cui si comunica solo per immagini, grazie a campagne pubblicitarie fortemente espressive, o in altri casi solo con le parole.

A dirla tutta oggi le parole sono anche immagini. Questione di font, di grandezze, di grazie, di punteggiatura e di interlinee. O ancora, l’assenza di immagini è a sua volta una scelta grafica, anche fortissima. Continua a leggere

break the history - Simone Masini fotografo

Cos’è che ci fa desiderare una meta turistica? È la percezione che abbiamo di essa. La percezione.

A me, ad esempio, certe città non mi ispirano. Tipo Parigi. Senza nulla togliere alla capitale dei cugini francesi, ci sono almeno 20 altre grandi città che vorrei visitare prima di finire a Parigi. Città la cui percezione è, nella mia testa, più appetitosa.

Nel mio lavoro capita spesso di dover promuovere una località, un Comune o anche una singola struttura. E tutto sta nell’idea del “promuovere”, che per me è una parola bruttina e preferisco di gran lunga “raccontare”. Raccontare una città. Questo mi piace. È il racconto che costruisce la percezione, che a sua volta diventa desiderio. Continua a leggere

I brand raccontano chi sei più di quanto credi.
Te li porti addosso e non ne puoi fare a meno. Ti mancano quando non sono con te, e non sono sostituibili. Quasi avessero un’anima. Ecco perché si chiamano lovemarks.

Ognuno ha i suoi. Anche chi si definisce no logo. Basta aprire il suo frigorifero, o frugare nella sua borsa, o guardare la marca delle sigarette.
Io ho i miei, che sono molto bravi a parlare di me.

Moleskine, è il taccuino più famoso del mondo. Già la parola taccuino mi fa impazzire – bellissima da pronunciare – ma non è tutto qui, ovviamente. Moleskine invita a raccontare grandi storie, o almeno abbozzarle. Quasi un tributo alla creatività. È questo che amo, assieme all’odore della carta, alla morbidezza delle pagine e agli adesivi nelle special edition. Continua a leggere

Se usiamo il termine crowdfunding passiamo per furbi e innovatori, se invece parliamo di colletta passiamo per poveracci. Un meeting è più professionale di una riunione, e un lunch di lavoro è più esclusivo di un pranzo tra colleghi. L’engagement hai il retrogusto di strategia mentre il coinvolgimento ha a che fare con qualcosa di personale. Vintage è alternativo, mentre antico fa odore di miseria. Un trend è una moda a portata di tutti, mentre una moda, forse, è qualcosa per pochi. Se parliamo di reason why veniamo ascoltati con attenzione e curiosità, ma appena pronunciamo le nostre ragioni passiamo dalla parte di chi ha torto o è in svantaggio. Continua a leggere

“Non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute, per colpa o per destino le penne le ho perdute”.

Le Bic blu. A centinaia, così tante che potrei definirmi un endorser, ma le penne non me le hanno mai regalete, e nemmeno le parole. Costano così poco, le Bic, costano ancora meno ma valgono molto di più, i versi e le frasi. Quante ne ho usate. Finite e sfinite, mangiucchiate, rosicchiate e rotte, perse, prestate dimenticate lanciate e regalate. Quanto inchiostro, a fiumi, densi e scuri, di color blu navy. Le penne rosse o verdi non mi sono mai piaciute, nemmeno per correggere. Quelle nere poi, le detesto, ci vedo una tristezza in quel loro graffiare e tingere di un nero che non è mai nero per davvero, tende certamente ad un lucido fumo di Londra, e non dà vigore e colore, per definizione, al testo.

Anche se ho smesso di scrivere a mano dopo l’ultimo esame universitario, e se ci riprovo dopo pochi minuti i tendini cominciano a incazzarsi, l’appuntare e l’abbozzare non smettono mai di riempire manciate di minuti in ogni mia giornata. Come se dovesse pur sempre rimanere un tratto analogico in ogni gesto del quotidiano. Che per me è gesto di nobile piacere, di lavoro, e di passatempo. La velocità che raggiungo con la tastiera del computer, la comodità dei tasti morbidi e il rumore dei polpastrelli che colpiscono i martelletti gommati raggiungono perfezioni che la mia Bic blu nemmeno si sogna. Eppure rimane sempre lì nel mio portapenne, assieme a gomma e matita, che hanno lo stesso compito della Bic, perché io non disegno, non sono proprio capace, ma a volte quello che scrivo e attraverso con la penna capita che lo eseguo con la HB 2.

E ora non sto a parlare di grafite e durezza, ma solo di un’instancabile e continua permanenza della mia Bic blu, a cui devo qualche riga di omaggio, perché più di una volta mi ha salvato, dall’impazzire, dallo scrivere di fretta, dal gettare parole istintive e da tutti quegli errori che si commettono per non badare mai al fatto che compiere certi gesti con calma ci aiuta a respirare. Ossigenare. Quando parlo non riesco a misurare, dosare e contenere le parole, proprio come quando scrivo al computer. Ma se uso la penna blu, quella Bic fedele e sincera inforcata a testa in giù nel portapenne, solo allora, evito di esplodere, com’è già accaduto, assieme a tutte le lettere e le frasi compresse nella mia testa, ben legate da una miccia che conduce al centro della sfera, centro di gravità fatto di tritolo e disperazione, quasi follia, che se esplode non c’è speranza, ma solo assenza ed una lunghissima rincorsa a raccogliere tutte le lettere sfuggite via. Ricomporle secondo il giusto ordine. E quando tutto torna al suo posto, è sempre troppo tardi.

(Non me ne voglia Francesco Guccini per lo scempio che ho commesso)

Me ne stavo seduto in treno, prima volta sul Freccia Rossa, con un ragazzo giapponese seduto accanto nel tratto Bologna – Firenze. Un illustratore dai lineamenti orizzontali che ammazzava il tempo disegnando pupazzetti stile pockemon con carta e penna, niente colori. Come disegnava. Sarebbe stato bello fotografare le sue mani. Sottili e pulite, perfettamente idratate, unghie ben curate, senza pellicine attorno.

Molte persone sostengono che le mani raccontano molte cose di una persona. Io credo invece che non raccontano nulla. Magari qualche indizio, poco più. Le mani di quell’artista giapponese non erano diverse da quelle di un qualsiasi pianista, magari francese, o da quelle di un commesso di una boutique, chissà, canadese. Quindi raccontano poco. Danno un indizio, sul semplice fatto che quella persona compie un lavoro pulito, non è di certo un meccanico, un muratore, o uno che batte chiodi dal mattino alla sera.

Non credo che le mani raccontano storie. Serve qualcuno che, magari, ci ricami sopra un pensiero, un motivo. Perché le cose, da sole, non raccontano nulla. Le cose vogliono essere raccontate. Vogliono che il mondo si riempia di storie nuove. Quelle di un disegnatore giapponese che scende a Firenze. Per studiare l’arte italiana, rubare i segreti di Leonardo. Alla ricerca di un bordello nascosto in un quartiere poco lontano dalla stazione, dove si racconta di donne di una bellezza micidiale. Un giapponese che in realtà è un killer, o una spia. Un professore di disegno. Può essere qualsiasi cosa, o qualsiasi storia. Perché le sue mani dicono semplicemente che è bravo a disegnare. E sono belle. Nient’altro.