Ci si deve pesare di mattina, appena svegli e prima di fare colazione, dicono. Non so come, ma io mi sono pesato di sera, in una sera qualsiasi, prima di andare a dormire: 74,8 kg. Dopo sette ore mi sono alzato e la prima, dico la prima cosa che ho fatto, è stata risalire sulla bilancia: 75,1. Non ci vuole un genio per contare tre etti. Tre etti di cosa? Se non ho mangiato, né bevuto, o compiuto alcuna azione se non quella di addormentarmi e svegliarmi. Dev’essere accaduto qualcosa, tra il chiudere e l’aprire gli occhi. E l’unica azione che unisce la notte al giorno, il sonno al risveglio, ecco, è sognare. Tre etti di sogni.
Tag Archivio per: Lara Loire
Come un urlo che si vede e non si sente, si vede mentre esplode in un silenzio cupo, grave, in perfetta sincronia col far finta di niente, col fingere che ci sia un equilibrio, in questi giorni qui, mentre il cielo si sgretola e precipita in polvere. Polvere grassa, quasi sabbia oliata, senza vento che la possa portar chissà dove. Resta qui e s’accumula. E camminarci sopra è un pesante sprofondare. Affondare. Immergersi nel terreno e piantarci i piedi come radici velenose. Perché l’aria è veleno, questi giorni sono malati, e le urla, che si vedono e non si sentono, sono spasmi in nome di Dio. Come urlare contro un foglio bianco davanti alla bocca e lasciarne un alone giallo fumo.
E lascia stare Dio. Mi viene da pensare. Che i casini in cui mi caccio sono dei capolavori personali di esagerata bellezza, e straordinaria follia. Tutte quelle macchie sulle tele di questi giorni, e quell’ansimare, i graffi, e i morsi, schizzi maniacali, gesti di una bellezza infinita, capolavori di mostruosa precisione, danni inspiegabili al cuore. Frantumazioni del mio equilibrio perfetto. Un grande casino in testa. Un dolce pastrocchio. Un urlo che non posso gridare, un grande urlo, che la mia pelle non sa nascondere, e l’anima abbandonare.
È un periodo spaventosamente affascinante, sono giorni in cui ogni libro che leggo diventa ogni volta lo scritto più bello che mi sia mai capitato per mano, e mi innamoro anche dei gesti e delle cose più grottesche, mi innamoro anche dei nemici, e dei pericoli, dell’avidità e di passioni sfrenate che mi sfiorano le guance in giornate senza vento. Settimane in cui ascolto dischi nuovi e mi piacciono tutti da morire, riascolto quelli vecchi e scopro note e arpeggi che mi sono sempre sfuggiti. Un periodo in cui amo da morire quello che scrivo, anche le frasi più insensate, giorni pazzeschi in cui accadono cose che non so e non voglio spiegare, perché non si spiegano e basta. E mi manca qualcosa. Amo da morire quello che mi manca. Ne custodisco il desiderio con raffinata follia e velenosa gelosia.
Lara Loire, che è un incanto, e un segreto, mi sta più vicina di quanto possa veramente dimostrare, mi ama anche lei, siamo segreti amanti perduti alla follia. Ci parlo, lei mi parla, ci tocchiamo, in nome di un promesso segreto, nel buio ci incontriamo e sognamo di unirci per sempre, sempre, come per colmare un vuoto, un abisso che rovina la mia anima e lacera la figura perfetta di ciò che mi manca. C’è stato anche un momento, uno e uno soltanto, prezioso, in cui in uno strano e romantico modo, un modo lontano e disperato, ci siamo appartenuti, e assaporati, assaggiati, morsi e graffiati. Le mie dita si son infilate nei suoi anelli nascosti, mentre lei sospirava il mio nome con fiato tenue e sensuale.
In uno strano e romantico modo, lontano e disperato, ci apparteniamo, nascosti dalla luce, dal mondo, e da ogni sguardo che non sia il nostro. Perché siamo soli.
La testa è da un’altra parte, un’altra parte, e non c’è modo che il corpo la raggiunga. Non c’è modo. La testa è da un’altra parte, pare verso un lontano amante, che poi lontano è una parola veramente troppo grande da raccontare. Ma comunque il corpo è qui e il pensiero da tutt’altra parte. E il cuore non può battere per due persone. Sarebbe cosa pazzesca, e forse sarebbe è un condizionale ingenuo, poiché è cosa pazzesca, il cuore che batte per due persone, una follia. Scoppierà, scoppierà. Certamente lo farà. Il cuore resta attaccato al busto, incastonato tra costole torace schiena e anima, e lì fermo se ne sta. Eppure batte per la ragione che è qui, ora, e anche per il desiderio, che è incollato al cervello, da tutt’altra parte, verso un segreto amante, lontano, e pure amante è parola sbagliata, volgare, perché senz’ombra di dubbio quel pensiero distante e distratto è più forte della ragione che resta qui e grida alla testa di tornare al suo posto, questo posto.
Lara Loire è troppo anche per il cuore di ogni uomo. Amarla è un gesto così lungo e minuzioso, devoto e raffinato, che non c’è uomo sulla terra che meriti il suo sguardo. Quel sorriso che è luce. Si riconosce tra tutte le cose preziose, Lara Loire, basta voltarsi verso il mondo e intuire quanto di più caro c’è all’orizzonte. Come a guardare il cielo scoperto, di notte, ma guardarne solo le stelle, guardarle brillare, perché tolte quelle, il cielo è sempre lo stesso.
Tratto da Lara Loire ©
Più di una totale devozione al proprio lavoro, René voleva capirne il senso, andare oltre il gesto del fare, del portare a termine ogni mansione, lui voleva capire cosa accadeva dopo. René aveva ereditato l’impresa funebre che da mezzo secolo apparteneva alla sua famiglia e lavorato sodo per nove anni, sino a quando, in un pomeriggio color zinco e piombo passato a dare colpi di martello ai gomiti di un cadavere – un uomo di 84 anni morto congelato sotto mezzo metro di neve – si chiese se in un qualche strano modo, strano ma perché no possibile, l’anima di quel vecchio potesse essersi congelata assieme al busto ed essere rimasta li, fredda ed immobile, in attesa di scongelarsi e scivolare via, da qualche parte, non so dove.
Si chiese questo, appoggiando l’orecchio sul torace dell’uomo, se l’anima fosse ancora lì dentro. Con qualche colpetto di martello alle costole faceva vibrare la cassa toracica, e dopo ogni colpo si metteva ad ascoltare, in silenzio, cercando di capire se qualcosa davvero si muoveva. Gli aprì anche la bocca, un paio di volte, e mentre si impegnava a trattenere il respiro per risparmiarsi l’alito fetido del morto, gli parve, per un attimo solo e uno soltanto, di percepire qualcosa, un soffio di aria calda uscire da quella bocca e attraversargli il viso, come una carezza trasparente e senza forma. Si convinse che quella sensazione doveva essere, certamente, l’anima che abbandona questo mondo.
Iniziò così ad ascoltare e studiare, osservare e ammirare tutti i cadaveri che gli venivano commissionati. Mentre li vestiva e ne univa le mani in segno di eterna preghiera, si soffermava su qualche singolo dettaglio che – riteneva – gli indicasse la via dell’anima. Ma non capitavano spesso corpi ibernati, erano ben più frequenti quelli freddi e stecchiti, quelli morti e basta, e in quei corpi lì, l’anima se n’era già andata da un pezzo. Iniziò così a visitare segretamente gli ospedali, camuffandosi da medico in una solitudine che solo lui poteva capire, e si avvicinava, di notte, ai corpi dei malati terminali, li annusava e li ascoltava, stando attento a scovare la fuga dell’anima nel momento della morte. Li guardava morire e nel preciso istante in cui si spegnevano zompava sul letto come un folle maniaco – muto – che gridava solo nei pensieri “dove sei, dove sei, dove cazzo sei!”.
René passò la vita a cercare l’anima degli altri, perché credeva che scovando quel macabro rifugio in cui si nascondeva sarebbe riuscito, forse un giorno, a trattenere la sua, o a dirottarne la rotta verso uno di quei posti che aveva visto una volta sola nella vita, una volta soltanto e se ne era innamorato, senza più tornarci, in quei posti lì, mai più.
Tratto da Lara Loire ©
Al mattino il sole picchia forte e feroce contro l’ingresso del Circolo Kappa. Entra con arroganza dalla porta spalancata e inietta un abbaglio lungo e costante all’interno di tutta la sala, illuminando la polvere negli angoli e sotto il frigorifero della Coca Cola. Illuminando i tavoli stretti e storti e sgangherati. Illuminando l’intero bancone di marmo su cui ogni giorno ci appoggiano i gomiti e la noia le stesse persone, sempre le stesse. Illuminando gli sgabelli, pesanti quasi come un uomo, in equilibrio su quattro aste di ferro su cui si posa dolcemente, elegantemente, quasi fosse una gru, un cuscino di cuoio rosso. Bordeaux.
Tutta quella luce del mattino svela difetti e particolarità invisibili di pomeriggio, e di sera. Tutta quella luce arriva sino alla porta della sala biliardi, senza superarla, mai. Perché la porta è sempre chiusa. Chiudere sempre la porta è infatti il quinto comandamento della sala biliardi. Nemmeno il sole ci deve entrare, li dentro. Tutta quella luce entra con una violenza tale che non si riesce a vedere fuori, non si vede nulla, ti entra tutta dritta negli occhi, e al massimo, quello che si riesce a notare, sono le sagome delle persone che passano, avanti e indietro, indietro e avanti, e qualcuno che entra, ogni tanto.
Una mattina entrò Lara Loire.
Antonio appoggiava i gomiti annoiati al bancone e Franco gli dava le spalle, concentrato sulla schiuma del cappuccino. Morelli sfogliava il giornale in piedi con il culo appoggiato allo sgabello. C’era anche Massimo il gioielliere, tutto tremolante, che se ne stava seduto e sudato accanto al libraio, almeno da mezz’ora, e almeno da mezz’ora non aveva pronunciato parola, indeciso sul da farsi, o piuttosto, concentrato a fissare le mani del barista che modellavano il latte. Michele non era andato a scuola, e stava scegliendo lo stuzzicadenti per disegnare Mr. Hyde. Gli anziani se ne stavano comodamente condannati sulla vecchiaia e saldamente ancorati ai tavoli stretti, storti e dannatamente sgangherati del Circolo Kappa. Nella sala biliardi qualcuno giocava, e Pedro stava a guardare, in silenzio, abbozzando qualche schizzo di tanto in tanto.
Una mattina così, di noia e di sole, entrò Lara Loire.
Le bastarono un paio di passi per superare il varco di luce – tutta quella luce – e prendere colore. Scarpette da tennis e gonnellina di jeans. Maglietta bianca, una giacchettina stretta stretta di jeans della stessa tonalità della gonna, un ciondolo al collo, un qualcosa di simile ad un delfino, nessuno se ne accorse con precisione – tranne Michele – e quando giorni dopo ne parlarono, un anziano disse che era una specie di delfino – Michele non fiatò. I capelli color grano, raccolti dietro alla nuca con un mollettone azzurro, e azzurri erano gli occhi, a dir di Antonio, anche se a Franco parvero viola, a Morelli grigi, Massimo vide del verde, un anziano suggerì color primavera – di sera, e accontentò tutti. Reggeva una borsetta viola con entrambe le mani, dietro la schiena, come le scolarette. Le labbra carnose, quasi troppo. Tutti videro ogni suo dettaglio svelarsi nell’oscurità del bar, tutti quei dettagli scappati all’abbaglio del sole, di tutta quella luce che diventa, ad un certo punto, oscurità.
Tratto da Lara Loire © Davide BertozziDisegna con il cacao, Michele. Ha 8 anni e sa disegnare con il cacao su tele bianche fatte di latte. I frequentatori assidui del bar dicono che è completamente matto, talmente fuori di testa da essere un genio in qualcosa di impossibile. Gli anziani, dall’alto della loro saggezza conquistata con migliaia di partite a carte, seduti negli stretti storti sgangherati tavolini di plastica del Circolo Kappa, dicono semplicemente – lui si fa i cazzi suoi; poi con decisione avvicinano le carte al petto, inclinano il mento verso il basso, e con le pupille scavalcano le lenti degli occhiali per inquadrare la zona del bancone in cui Michele versa sottili linee di cacao sul cappuccino fumante che Franco ha appena creato. Creato, perché il cappuccino, dice Franco, è un’opera d’arte di estrema difficoltà tecnica. Insomma Michele deve stare in punta di piedi, non è colpa del suo metro e venti di statura, quello no, è una questione di concentrazione dice lui. Tutto qui, quando qualcuno gli chiede questa storia dello stare in punta di piedi, in casi estremamente fortuiti Michele risponde semplicemente “così mi concentro”, senza aggiungere altro. Ma più frequentemente risponde con un “sssshhhh”. A volte è l’unico suono che gli si sente udire per giorni. Ssssshhhh.
Anche il Dr. Merli, il logopedista, tentò di capire quella faccenda dei disegni con il cacao. E dopo trenta cappuccini con dipinto, tra i quali apprezzò particolarmente quello con il ritratto di Roberto Baggio, diagnosticò sul retro dello scontrino del bar una particolare forma di autismo aggravata da problemi di dislessia e, forse, schizofrenia. Consigliò anche visite specifiche per l’udito e il parere di uno psicologo per l’infanzia. In basso, accanto ad una macchia di latte, scrisse con grafia incerta il nome Morelli.
Quindi è pazzo. Pensò Franco. No, lui si fa solo i cazzi suoi. Risposero gli anziani dall’alto della loro saggezza conquistata con centinaia di vittorie di briscola e rubamazzo fra i tavoli, dieci, del Circolo Kappa.
Illustrazione di Nicolò Rigobello
Testo di Davide Bertozzi, tratto dalle bozze di Lara Loire.
Non c’è porta che tenga, né ragione ne corrente d’aria, l’odore del caffè di Franco attraversa vetri e finestre, fumi di sigaretta e tavoli da biliardo, lampade verdi, il campionato alla domenica e le coppe in mezzo alla settimana. Quell’odore si percepisce con tutti i cinque sensi, lo si sente scivolare fra le tende trasparenti dei timpani e aggrovigliarsi ai pori della pelle, lo si vede anche mentre attraversa le stanze, i tavoli e i posacenere, quell’odore li, insomma, s’impregna in qualcosa di solido nascosto dietro al petto, incastonato fra le costole. Attorcigliato dentro all’anima quasi fosse una sua cicatrice, ipertrofica e permanente, ricalcata sui pensieri che separano le labbra dalla prima tazzina al Circolo Kappa.
Rumori qualunque, ci sono momenti in cui si possono sentire solo quelli, come il fuoco che brucia una sigaretta mentre una bocca e due polmoni aspirano con determinazione; o il fruscio di una palla sul tavolo #5 che attraversa una fila di birilli; lo stropicciarsi delle pagine dei quotidiani; il mescolarsi delle carte da gioco tra le mani incallite di persone qualunque che riscoprono sé stesse solo entro i muri, i limiti e i confini del bar. Si sentono cose di questo genere, che valgono più per quello che rappresentano piuttosto che per i suoni in sé. I suoni del quotidiano.
Poi ci sono anche i vuoti. E quelli arrivano sempre da lontano, molto lontano, non si sa mai da dove, ma scivolano sotto la coltre di Marlboro e l’umidità e il vapore. Sfuggono anche all’odore del caffè. I vuoti arrivano da qualche parte dimenticata dalla luce dei lampioni, dei neon e delle vetrine, arrivano da una mancanza lontana e feroce. Giungono come ricorrenze, scricchiolando come vetro sotto i passi di chi se n’è andato per non tornare più, di chi deve scontare un ergastolo in paradiso e chi si promette di tornare, presto o tardi. Scricchiolii tenui e brevi. Tasti di pianoforte, briciole e polvere nascoste sotto un tappeto color inverno.
Foto di Fabio Borra, scattata al vero Circolo Kappa.
Testo tratto da Lara Loire.