Quanto puoi spingerti lontano e quanto puoi cercare qualcosa che nemmeno sai cos’è. Senza conoscerne forma e dimensione, colore e odore, con il rischio di farti fregare dalla geometria delle ombre e delle nuvole. Non è una domanda. Quanto puoi spingerti oltre il confine, in paesaggi e inverni lunghi e senz’anima, privi anche di case, e di anime, incontrando solo cani e persone che della vita si son stupiti per la sua fatalità, la crudeltà che si manifesta in gesti raccapriccianti e parole di terrore. Quanto puoi spingerti lontano da solo con un cavallo senza ferri e senza alcuna voglia di portarti a spasso oltre il confine, oltre il confine, oltre il confine. Quello che cerchi è una terra fantasma, non c’è, non c’è, ma sei convinto possa nascondersi in quelle casette di adobe in cui nessuno ci abita più. In cui ci sono cani così soli che cercano pulci per compagnia. Non c’è, non c’è. Ad ogni chilometro aumentano le possibilità di essere ammazzato da proiettili che arrivano da lontano, come urla, canti di zingari. Come le parole. Le parole che per essere semplici da comprendere devono essere raccontate con lo prosa di qualcuno che torna da un lungo viaggio. Da lontano.

Si stava scatenando un temporale verso sud, lì dove la strada finiva nel deserto e tutto intorno, sotto le nuvole, prevaleva un colore blu e le sottili strisce dei lampi che si susseguivano con insistenza, sulle montagne in lontananza, di un colore blu vivo, scoppiavano nel silenzio più assoluto, come un temporale in una campana di vetro.

Oltre il Confine, Cormarc McCarthy, Einaudi editore.

Dopo aver visto Philadelphia mi sono incantato a guardare tutti i titoli di coda. Colpa di Bruce Springsteen o della paura di alzarmi dalla sedia. Quasi paura di cadere. Una vertigine.

Tardano a cadere. A morire. Ci sono ancora le zanzare, che c’hanno addosso la cattiveria di chi non s’arrende nemmeno davanti all’evidenza. Che si muore, e si cade. Davanti ad una tragedia che non avviene mai per colpa di nessuno. Capita e basta. Un po’ come la sfortuna. Pensa a questo, l’uomo seduto nel piccolo parco di aceri, mentre si gratta il polso dove è appena stato morso. Stringe una sigaretta accesa tra le labbra, tenendo gli occhi semiaperti per proteggersi dal fumo e dal bruciore. La panchina umida e sgangherata è più sola di lui in quel cerchio di erbacce che contrastano per una manciata di metri quadrati il cemento color piombo dell’ospedale. Le persone a cui teniamo muoiono inesorabilmente prima delle foglie degli aceri. Muoiono prima anche delle zanzare. Senza mai togliersi la sigaretta dalle labbra l’uomo sfoglia il libro che custodisce senza segreto sulle ginocchia, scorre le pagine sino ad arrivare ad una frase sottolineata più volte:

le foto durano sempre più di noi, buffa cosa chiamarle istantanee.

Sfoglia ancora qualche pagina, fino ad un’altra frase cerchiata un paio di volte con una matita a punta grossa, male appuntita: visitare un malato è gesto nobile, stargli vicino è un’altra cosa. Richiude il libro, finisce la sigaretta e resta seduto su quella panchina come se stesse aspettando qualcuno. È autunno e le foglie non cadono, sembrano incazzate più delle zanzare.

Citazioni di Stefano Benni – La traccia dell’Angelo, Sellerio Editore © 2011.

“Caro amico adesso nelle polverose ore senza tempo della città quando le strade si stendono scure e fumanti nella scia delle autoinnaffiatrici e adesso che l’ubriaco e il senzatetto si sono arenati al riparo di muri nei vicoli o nei terreni incolti e i gatti avanzano scarni e ingobbiti in questi lugubri dintorni, adesso in questi corridoi selciati o acciottolati neri di fuliggine dove l’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati non camminerà anima viva all’infuori di te.” Cormac McCarthy.

Sono un’ottantina di parole, a seconda della traduzione. C’è solo una virgola, una soltanto per prendere fiato. Il resto lo devi leggere con calma, anche sbagliando la ritmica, non ha importanza. Quello che conta è che lo inghiotti tutto. Che lo mandi giù fino in fondo. E aspetti.

Dove finisce la terraferma inizia il mare. Tra i due s’intromette una linea sottile, fatta di porti e vecchie taverne affollate da pescatori e marinai. E tra le onde dell’oceano è possibile ritrovare l’anima perduta nel ventre della terra. Con questa consapevolezza cullata nella prigione intercostale, marinai, pirati e commercianti affrontano i pericoli dei mari, affrontano le tempeste e i mostri marini, calamari giganti e Leviatani. Sfidare tutto ciò è un po’ sfidare la natura, sfidare Dio e la morte, che visti dalla prua di una nave sono esattamente la stessa cosa. La natura dio e la morte. E poi i mostri. C’è un capodoglio, enorme, bianco neve, Moby Dick.

Se esiste un mostro c’è anche qualcuno che lo vuole sconfiggere. Qualcuno che sfida la natura, o Dio, o la morte. Melville ha costruito un suono unico che riusciamo tutti ad immaginarlo con una certa profonda precisione: è un colpo, la gamba di legno del vecchio capitano Ahab di Nantucket, colpisce con divina regolarità le assi del ponte del Pequod, nave quasi fantasma descritta con maestria in ogni suo nodo del legno. Un colpo ogni due passi, uno con la gamba viva, muto e silenzioso, l’altro con la gamba morta, che affonda un suono cupo quasi fosse l’urlo di un demonio. Come se la vita fosse un soffio quieto e la morte una caduta tra le fauci di una bestia.
Ahab è molto più di un capitano, è un uomo ferito nell’orgoglio, è un castello di sabbia che vuole resistere ad un uragano, è ognuno di noi. Sarà sempre ognuno di noi.

Per 600 pagine Melville descriva Moby Dick in tutto il suo terrore, bianco, la descrive senza farla vedere mai, nemmeno da lontano. Perché il male, bianco, è impregnato nelle pagine e nelle parole. Ce n’è talmente tanto che quello che il lettore percepisce non è il timore verso la balena, ma verso il suo cacciatore. Ahab. Io tremo pensando al capitano Ahab che in una notte di fulmini e tempesta grida all’equipaggio <<V’è un Dio che è padrone sopra la terra e un capitano che è padrone sul “Pequod”>>.

Ahab è cocciuto, ingordo e crudele, è al confine della sua cupa esistenza e quello che v’è oltre non è il chiarore del Paradiso ma il colore latteo di Moby Dick. Il male è bianco. E Ahab che riassume l’insofferenza di tutti gli uomini, è vivo ed è oscuro. Un gioco di colori  e significati capovolti, per 600 pagine. E proprio dopo tutta questa lunghissima e incantevole prosa, a meno di cento fogli alla fine, arriva, la balena bianca, stupenda e meravigliosa. Arriva mostrando la sua gobba, “una collina di neve”, come se fosse la morte a salire in superficie e strizzare l’occhio dall’orizzonte. Le ultime pagine sono tutte dedicate alla sua caccia, alla lotta tra la follia dell’uomo e la ragione celeste, tra il bianco e il nero, il nero e il bianco, Ahab e Moby Dick, la vita e l’ingiustizia, l’uomo e la natura, l’uomo e la morte, la morte, la nave affonda in un vortice spietato, e il male non potrebbe mai avere alcun colore, neppure il nero, no, mai il nero, solo, silenziosamente, il bianco.

Immagine: particolare di una foto di Marco Morosini, designer.
The Road, Cormac McCarthy

Tipo quando finisci di leggere un libro e sei convinto di non aver mai letto niente di più bello. Ecco.

Cormac McCarthy e la sua scrittura spoglia e minimale, o almeno quella dei suoi ultimi lavori, perché i primi romanzi li ha costruiti con mattoni di descrizioni e palate di aggettivi, anche impossibili da incastonare in uno stesso pensiero. McCarthy, che se in Non è un paese per vecchi e Sunset Limited mi aveva catturato per la sua spietata creatività e per l’arte del riuscire a impregnare in quattro parole un immaginario così grande che non basterebbero cento pagine per riuscire a descriverlo, con La Strada mi ha steso al tappeto, mi ha messo KO. Prima di commuovermi nelle ultime tre pagine, in cui è descritto con un miasma poetico il senso della vita, mi son davvero sentito mancare.

La strada

Ambientato in un mondo simile a quello del cartone giapponese Ken il Guerriero, quindi in una terra distrutta, dove tutto è stato bruciato e perduto, dove non cresce più erba verde e l’aria è tossica, con strade ponti e città distrutte. Un uomo e suo figlio camminano verso sud in cerca di qualcosa che nemmeno sanno cosa sia, ma sperano sia migliore della disperazione che stanno attraversando. C’è l’amore di un genitore, la solitudine, il freddo e la fame, c’è una speranza più forte della morte e della fame. C’è uno scrittore che ha disegnato un mondo incredibile nel quale è impossibile non immergersi. C’è il male che sembra non aver rivali, e il bene, ridotto in polvere, continua ancora a soffiare lungo le strade dei boschi desolati.

Non ci sono capitoli, ma molti paragrafi brevi che attraversano periodi a volte brevi come un respiro altri lunghi come un inverno. Qualcosa di stupendo e, soprattutto, creativo. L’oceano plumbeo e il cielo color catrame, e un fuoco di speranza che arde a stento nel cuore dei protagonisti. Ora non è che mi voglio improvvisare critico di libri, non ne son mica all’altezza. Però, un po’ per il lavoro che faccio, un po’ per l’amore per la letteratura e per lo scrivere, e anche per altre piccole cose che hanno a che fare con la comunicazione, insomma, dopo aver letto La strada mi son reso conto che tutte le parole scritte in 5 anni in questo blog, concentrate più o meno in 200 post, non valgono una sola frase scritta nel momento meno ispirato di un McCarthy svogliato in una domenica di noia.

La cenere si sollevava leggera in lenti mulinelli sopra l’asfalto. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I ritratti di strada laggiù fra gli alberi morti. In cerca di qualche traccia di colore. Un movimento. Un filo di fumo. Abbassò il binocolo e si tirò giù la mascherina di cotone dal viso, si asciugò il naso con il polso e riprese a scrutare la zona circostante. Poi rimase seduto lì con il binocolo in mano a guardare la luce cinerea del giorno che si rapprendeva sopra la terra. Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato.

Cormac McCarthy

Alla fine vincono i libri. E mi auguro continuino a farlo. Lo spero. Perché i 140 famosi caratteri che Twitter mette a disposizione hanno innescato un nuovo processo, irreversibile, verso la sinteticità. E magari non si scriverà più, fra qualche anno. O invece si scriverà molto di più. Preferisco questa eventualità. Ad ogni modo ci sono più cose in ballo, tra realtà, media, pensieri, possibilità. E in tutto questo caos credo che i libri, alla fine, la scamperanno sempre. In qualche modo, si salveranno, e magari salveranno noi. Dopo aver letto Storia d’Amore Vera e Supertriste di Gary Shteyngart ho pensato proprio a questa cosa qui. Se le storie, i racconti e la poesia continueranno ad impregnare i fogli bianchi. Se i libri manterranno il passo con le realtà virtuali. Se ci sarà ancora spazio per i Romeo e Giulietta. Ok Facebook, ok Twitter. Ok la dittatura delle abbreviazioni. Messaggi ai limiti dell’analfabetismo. Messaggi veloci e sempre più brevi, minimali e sintetici. Che non si sciolgono in versi lunghi e gonfi di immagini, che non s’impossessano della nostra mente e non ci fanno ammalare di letteratura come è accaduto a Bobby Long. Lo conoscete, Bobby Long? Ecco, Lenny Abramov, protagonista di Storia d’Amore Vera e Supertriste è proprio come l’attore interpretato da John Travolta, solo in un’altra epoca. Più o meno fra un paio di generazioni, quando gli Stati Uniti saranno succubi dell’economia cinese, e i romanzi quasi dimenticati. Lenny ama Eunice come solo nei libri si può amare. E i suoi squarci poetici lo salvano dalla confusione di tutte le sintesi verbali che riempiono le città. Lenny è l’ultimo uomo vivente che tiene un diario segreto, fatto di carta e inchiostro. Mica un blog. Un diario, rilegato e fatto di pagine vere, che ingialliscono e si toccano. Una cosa davvero magnifica, e romantica, e supertriste.

Carissimo diario, oggi ho preso una decisione fondamentale: io non morirò mai. Morirà la gente intorno a me. Verranno annullati. Della loro personalità non resterà niente. Si spegneranno le luci. A segnare il loro passaggio, la loro vita, ci saranno lapidi di marmo lustro con epitaffi fasulli («la sua stella brillò luminosa», «non ti dimenticheremo mai», «amava il jazz »), e poi anche le lapidi verranno spazzate via da un’inondazione oppure fatte a pezzi da qualche tacchino avveniristico geneticamente modificato. Non date retta a chi vi dice che la vita è un viaggio. Un viaggio è quando alla fine arrivi da qualche parte. Quando prendo il numero 6 per andare dalla mia assistente sociale, quello è un viaggio. Quando supplico il pilota di questo sgangherato aereo della UnitedContinentalDeltamerican di fare inversione nel mezzo della sua traballante traversata dell’Atlantico e riportarmi subito a Roma fra le braccia volubili di Eunice Park, questo è un viaggio.