Immagini VS Parole - Web Marketing Festival

Qualche riga la dovevo pur scrivere.
Il Web Marketing Festival è sempre una figata. Quest’anno poi è durato tre giorni, tostissimi, va detto, sia per chi organizza che per chi partecipa (mica facile “tenere botta” per 72 ore). E sempre quest’anno, aggiungo, per la prima volta l’ho vissuto da relatore, con quel velo di ansia ed eccitazione che ti accompagna fino a quando sali su quel palco. Poi una volta che ci sei sopra, tutto diventa una passeggiata. Anzi, come dicevo poco fa, una figata.

Ma al di là del mio mio speech sono accadute un saaaaacco di cose strane e divertenti, rese ancora più speciali grazie alle persone coinvolte, e le tante incontrate, perché si sa, in queste occasioni si incrociano gli occhi di chi non vedi da anni, di chi ti è mancato da morire e anche di chi non ti è mancato per niente (va detto).

Colleghi universitari, amici di una vita, mezzi amici di una vita, clienti e gente da cui c’è davvero tanto da imparare. E poi ci sono le nuove conoscenze, centinaia di strette di mano, abbracci e sbaciucchiamenti vari. Le persone, si sa, sono la vera rivelazione di ogni evento. Oppure, come ha scritto Chiara Sciannamè in un bel post di Copy42,

la tecnologia è un bene prezioso, il personal branding fondamentale, ma la stretta di mano e gli abbracci restano la parte più bella di questa vita.

Insomma, il primo giorno s’è consumato così, tra saluti, caffè, spritz e risate. Ho seguito pochi eventi, lo ammetto, ma ogni 10 passi ho incontrato qualcuno con cui ho condiviso bei momenti e discusso di marketing, copywriting e delle tante complessità del mondo pubblicitario.

Paolo Iabichino Show

Il venerdì, invece, è stato il giorno di Paolo Iabichino. Il chief creative officer di Ogilvy, quella piccola e sconosciuta aziendina di provincia, s’è preso ben due applausi che manco Cristiano Ronaldo dopo un gol di rovesciata. Iabichino è uno che, per merito e simpatia, indirizza tutti i riflettori su di sé, un po’ come Valentino Rossi o Roberto Baggio. È uno di quella razza lì, insomma. E per fortuna il suo speech è stato parecchio lontano dal mio, altrimenti non so se sarei riuscito a trovare il coraggio di salire sul palco.

Una Milf e una coppa

In questo venerdì pieno di idee e ispirazioni ho ricevuto un regalo da parte di Gazduna. A farla brevissima, le cose sono andate grossomodo così: ho ricevuto una loro email nella quale c’era un link che non funzionava. O meglio, inizialmente funzionava, poi, a causa di qualche modifica interna al sito si è “rotto”. Me ne sono casualmente accorto e l’ho segnalato allo staff di Gazduna. Per ringraziarmi mi hanno regalato una copia di M.I.L.F., un manualetto di marketing ironico, preciso e a tratti pungente (complimenti per il naming).

Milf - Gazduna

Il resto della giornata l’ho trascorso pensando al mio intervento. E la sera, secondo la tabella di marcia, avrei dovuto studiare, ma ormai so fin troppo bene che “la notte prima di qualcosa di importante” non si combina mai nulla di costruttivo. Così ho deciso di non ripassare.

Anzi, sono andato ad una festa, tiè. Era la festa per la vittoria di Enea Bastianini al Gran Premio di Catalunya, la prima vittoria del 2018 e quindi c’era davvero tanto da festeggiare. Tra un bicchiere e l’altro misuravo con una certa preoccupazione il ridursi delle ore di sonno, ma almeno sono tornato a casa abbastanza stanco da crollare immediatamente e senza troppi pensieri per la testa.

La coppa del Gran Premio di Catalunya - MotoGP

 

Immagini VS Parole

Mi sono dunque svegliato un po’ rincoglionito, e al caffè ho aggiunto un paio di cucchiai di ansia, così, giusto per farlo davvero forte. Dopo una mezz’ora trascorsa davanti allo specchio a cercare il pantalone giusto da abbinare alla t-shirt e un brevissimo ripasso del discorso sono partito in direzione del Palacongressi di Rimini dove, prima di entrare, mi sono ingozzato di pizzette anti-stress con qualche collega. Così, giusto perché a stomaco pieno è tutto più semplice.

Alle 13:30 era tutto pronto per il mio intervento: la sala era piena e l’ansia aveva già lasciato il posto alla voglia di divertirmi. 

Ho iniziato a parlare stando concentrato sul tempo e sul ritmo. Tendo sempre a parlare troppo veloce in qualunque situazione della vita, soprattutto durante un intervento del genere. E mentre soppesavo parole e secondi, mi sono accorto che le slide che accompagnavano lo speech erano sbagliate. Una sciocchezza, una distrazione di qualcuno, non importa chi, importa molto di più la velocità con cui lo staff del WMF ha risolto il problema e caricato in una manciata di minuti le slide corrette.

Ho avuto solo qualche secondo di panico, perché il mio discorso, senza le slide giuste, non avrebbe funzionato granché. E questo fatto la dice lunga sul rapporto tra immagini e parole, che manco a farlo apposta era il titolo dello speech (e di questo paragrafo).

Tutto è stato fantastico: l’applauso, i messaggi ricevuti, le pacche sulle spalle, gli abbracci, le critiche, i complimenti  e persino l’intervista conclusiva ai microfoni di Radio Incredibile.

Intervista post Web Marketing Festival

Ritorno a casa

Il sabato pomeriggio l’ho trascorso con gli amici, lo spritz e tutte le emozioni che mi son tenuto stretto fino a casa quando, con i piedi sullo zerbino, mi sono voltato verso il mare e ho pensato alle cose perfette ed imperfette della vita. Della mia. Questa giornata rientra senza dubbio tra le perfette, così come il mio appartamento vista mare, che costa una follia ma è esattamente dove l’ho sempre voluto. Vista mare.

In piedi sullo zerbino e con le chiavi nella toppa mi sono fermato, quasi impaurito che, una volta entrato in casa la magia sarebbe svanita. E allora sono rimasto lì, con gli occhi all’orizzonte, a guardare le ombre allungarsi. Ho pubblicato una story su Instagram e scritto qualche frase di getto:

Ritorno a casa dopo tre lunghi giorni di Web Marketing Festival. Ho 77 email da leggere e un camion di lavoro arretrato. Ma è sabato sera, il sole non è ancora tramontato e voglio godermi gli ultimi minuti di luce. Finché c’è.

Scrivendo queste righe mi sono concentrato sulla parola finché, che trovo davvero brutale. Porta con sé un senso di fine e ci dice che niente dura per sempre. E forse è vero. In qualunque contesto la si usi, qualcosa finisce. E non tornerà più.

Vista Mare

Copywriter freelance

“Bello fare il freelance, così lavori negli orari che ti pare”, sono anni che amici e clienti mi rivolgono queste parole, pensando, forse, che mi alzi alle 11 del mattino e che mi prenda pause e vacanze a piacimento. Ho sempre impegnato tempo ed energie a spiegare che i miei orari sono gli stessi di quelli di un normale ufficio, perché i clienti (quelli normali) mi chiamano dalle 9 alle 18, mica a mezzanotte.

Inutile dire che le ferie non sono pagate, che la tredicesima è un sogno lontano anni luce e che le ore di lavoro è meglio non contarle. Inutile e scontato. Queste ragioni mi hanno spronato a dare sempre il massimo e non fermarmi mai, e mi hanno iniettato anche un po’ di fifa, la stessa che vivono molti altri liberi professionisti. Una sorta di paura che può essere vinta solo con l’impegno, la costanza e la “presenza” sia on che offline.

Nonostante tutto me la sono sempre cavata, non è stato facile ma non posso lamentarmi di quanto fatto e ottenuto. Eppure, cavolo quanto male fa scrivere questa parola, eppure, questo mio fare, scrivere, lavorare e studiare ha dato un forte scossone alla mia vita privata. E mentre tutto intorno a me traballava e cadeva, ho capito che del personal branding, dei clienti fighi e delle esperienze gratificanti non me faccio granché se poi perdo le cose che amo davvero.

Non è una lagna sentimentale ma una riflessione sull’importanza di trovare un equilibrio tra vita personale e professionale: questi due mondi non devono collidere uno contro l’altro ma gravitare serenamente attorno a quanto di più caro abbiamo nel cuore.

Cosa me ne importa di una casa vista mare se non ci sei tu a condividere il panorama con me?
Che senso ha lavorare tanto e arrivare lontano se poi alla fine tu non sei con me?
E a che servono le entrate extra se non posso più comprarti un regalo?

Ora che è tardi per tornare indietro, la cosa migliore da fare è non sbagliare più.
Quindi sì, forse inizierò davvero a lavorare negli orari che mi pare e a ritagliare più tempo per le persone e le cose che amo.

Come fanno quelli che si alzano alle 6:00 del mattino e vanno a correre? Li invidio un sacco. Davvero. E ci ho provato a farlo pure io, con risultati vergognosi: dalle gambe tinche come il legno al mal di testa post corsa. Io li invidio quelli che ce la fanno con tanta semplicità, una semplicità che a me proprio non riesce.

Anche fare yoga all’alba, magari in giardino rivolti verso il sole, o anche in spiaggia. Come si fa? O anche quelli che capiscono da che parte soffia il vento e sanno tutto delle nuvole, delle maree e delle correnti. Come fanno? 

Non me ne capacito. Anzi, a volte mi sento tremendamente impreparato e ignorante, retrogrado e antico, ma io non lo so come si fa a diventare così. 

Ci sono un sacco di cose che non conosco e che proprio non mi riescono. Questo non significa che voglia diventare un guru o un cervellone, no. Mi basterebbe, e lo dico con tutta la fragilità che ho nel cuore, mi basterebbe imparare ad orientarmi nel mondo. Orientarmi. Non dico trovarmi, sarebbe troppo bello e troppo facile, ma almeno orientarmi, sarebbe abbastanza.

Ci sono notti in cui guido senza meta, l’autoradio divora una canzone dopo l’altra e i fari squarciano chilometri di buio. In quelle notti accade qualcosa che in nessun modo riesco ad interpretare: con i pugni stretti sul voltante ed il piede sull’acceleratore, mi perdo nelle strade che percorro da sempre, come se non riuscissi più a trovare la via di casa o un motivo per tornare, che poi sono la stessa identica cosa. E per quanto possa cercare e vagare nella notte, non riesco a capire da che parte va la vita.

La morte della creatività

Definirsi creativi è un po’ come definirsi intelligenti. Ognuno poi ha una sua visione di creatività, e forse pure una sua definizione. Insomma, è difficile mettere tutti d’accordo. È più facile parlare di scelte strategiche che funzionano o che non funzionano. Facile capire che, in questi casi, la creatività sta dove le cose vanno bene e si ottengono i risultati.

Nel mondo pubblicitario, una cosa creativa che non funziona è difficile da concepire, è un po’ come mettere un cerchio dentro ad un quadrato (o una stella dentro ad un cerchio, come rappresentato da Ji Lee in un visual per il New York Times).

Chosen, but not special - Ji Lee, NYT

Purtroppo non esiste una ricetta per ottenere risultati creativi, sarebbe troppo bello, e troppo facile, e se così fosse saremmo tutti David Ogilvy, ma nel processo creativo ci sono scelte e strumenti che possono guastare rovinosamente la qualità e l’efficacia di un progetto:

  1. le immagini stock;
  2. le espressioni comuni;
  3. i semafori di Yoast.

Le immagini stock

Le fotografie stock, per definizione, non sono originali. Difficilmente rendono unico un progetto pubblicitario. Hanno sempre bisogno di una headline di salvataggio o di un qualsiasi contenuto extra che possa dar loro un motivo di esistere.

Vengono prodotte da fotografi a cui interessa venderle e basta, fotografi che non hanno bisogno di conoscere chi le acquisterà o sapere in quale modo verranno utilizzate. E fino a qui non c’è nulla di sbagliato (conosco persone che lo fanno di mestiere e guadagnano cifre niente male).

Il problema nasce quando smettiamo di scattare qualcosa di inedito perché una foto stock costa meno di una giornata di shooting. O ancora, quando un pigro art director dice

“tanto su Shutterstock trovo qualcosa di simile a quello che ho in mente”.

Ecco, questa è la morte della creatività.

Certo, le immagini stock risultano utili in un sacco di contesti, ma non dobbiamo mai smettere di creare, scattare e disegnare cose inedite, vere. Non dobbiamo né accontentarci né cercare di “intonarle” ai nostri obiettivi pubblicitari, alla nostra creatività.

E poi, va detto, ce ne sono alcune davvero imbarazzanti, tristi e finte come una moneta da 3 euro.
Usale con moderazione. Please.

Le espressioni comuni

Breve ricerca su Google: digita “web agency” e apri tutti i siti che trovi nella prima pagina dei risultati. Dai un’occhiata ai testi, senza leggerli proprio da cima a fondo, basta un’occhiata. Scommetto che troverai con notevole frequenza formule come:

  • Siamo un team di professionisti;
  • Offriamo servizi efficaci;
  • Abbiamo idee innovative;
  • Siamo un’azienda dinamica.

Non serve un genio per capire che queste espressioni non ci differenziano e non dicono nulla, davvero nulla, sul nostro vero valore aggiunto. Anzi, annoiano. Le persone leggono sempre le stesse cose e non c’è da meravigliarsi se scappano a gambe levate da un sito web.

Per fortuna, c’è un trucchetto banalissimo per capire se stiamo scrivendo cose ovvie, funziona più o meno come la prova del 9 che si svolge in matematica: scegliamo una frase e scriviamola al contrario: “Siamo un team di professionisti” diventa “siamo un team di brocchi”, “offriamo servizi efficaci” diventa “offriamo servizi inefficaci”. Eccetera eccetera.

Questo metodo semplicissimo ci permette di capire se abbiamo scritto una cosa banale e, soprattutto, ci aiuta a capire chi siamo veramente.

I semafori di Yoast

Altri nemici della creatività e, in questo caso particolare, della scrittura creativa, sono i tanti plug-in che promettono di scrivere testi in modo corretto. Ma che ne sanno loro di cosa è giusto e cosa no? Prendiamo il famoso Yoast SEO, che uso pure io (seppur con pacato entusiasmo): ecco, se lo utilizzi anche tu conoscerai sicuramente i suoi dannati semafori che dicono se il tuo testo è scritto bene o male, se ha i giusti requisiti per essere “notato” dai motori di ricerca o se i lettori riscontreranno problemi durante la lettura. Ok, va bene. Però, ricordati sempre che:

  • non ne sa nulla della tua creatività (o della tua strategia).
  • non ne sa nulla dei tuoi lettori;
  • è pieno di bug;
  • si basa solo sulla keyword density e sulla formattazione (Google, invece, va ben oltre).

Consiglio: usa Yoast SEO solo come riferimento, e basta. Non preoccuparti eccessivamente dei suoi semafori rossi. Scrivi per i tuoi lettori, scrivi quello che ritieni utile e interessante per loro, non lasciare che uno strumentino da quattro soldi (anzi, è gratis) influisca sulla tua creatività.

Conclusione

Ci sono tante cattive abitudini che frenano un progetto creativo, o che ne impediscano i risultati. Tra queste, le immagini stock, le espressioni comuni e i plug-in come Yoast SEO sono tra le più popolari e nocive. Cerca di farne a meno, non sarà facile all’inizio, ma è tuo dovere, e lo è per ogni pubblicitario, provarci.

 

fake news

La carota arancione è un’invenzione dell’uomo. I colori originari di questo tubero sono il viola e il bianco, ma in Olanda, nel diciassettesimo secolo, la famiglia Orange chiese ai propri agronomi di creare in laboratorio una carota arancione per omaggiare i colori della casata. Per un motivo pazzesco, questo artificio è diventato nel tempo una cosa talmente diffusa che oggi, se provassi a servire ai miei commensali una carota viola, di certo mi guarderebbero con sospetto.

Secondo te, questa storia è vera?

Le informazioni sono ancora insufficienti per poter dare una risposta.

Se però aggiungessi che questa storia l’ho letta su Cromorama, un saggio scritto da Riccardo Falcinelli, ecco che diventerebbe più facile trarre una prima e superficiale conclusione.

Tutto questo per dire che oggi leggiamo e ascoltiamo così tante cose verosimili, potenzialmente false, o spesso completamente errate, che è diventato obbligatorio verificare la veridicità delle informazioni. Approfondire è sempre necessario, e per chi si occupa di comunicazione è addirittura un dovere.

È tutta colpa delle fake news, di questo fenomeno che ha travolto tutti i media di comunicazione, da quelli digitali a quelli tradizionali, rovesciandone l’autenticità e scoperchiando una montagna di notizie imprecise, false e grossolane.

Siamo cresciuti con la convinzione che i libri cartacei contenessero certezze e ci siamo posti dei dubbi solo con l’arrivo della rete. Da Wikipedia a Yahoo! Answers ne abbiamo lette di cavolate, per non parlare di ciò che troviamo ogni giorno nel feed di Facebook.

In realtà, le fake news non sono un fenomeno da social, o meglio, grazie ai social sono uscite allo scoperto.

Se ci impegnassimo ad approfondire molti argomenti che abbiamo studiato o che crediamo di conoscere, se analizzassimo con attenzione il sapere del secolo scorso, incontreremmo migliaia di sorprese, storie vero-false ed incredibili semplificazioni della realtà. Ad esempio…

Quant’è grande il sistema solare?

Banalmente, per rispondere a questa domanda basterebbe fare una breve ricerca su Google, dove troveremmo inoltre molte immagini che raffigurano l’ordine del sole e dei pianeti. Ecco, tutte quelle illustrazioni, o render, sono solo raffigurazioni verosimili del sistema solare, disegni indicativi talmente imprecisi da risultare più falsi che veri.

Mi spiego: non esiste al mondo un modello in scala del sistema solare. Questo perché la distanza tra i pianeti è talmente ampia, incredibilmente ampia, che se disegnassimo la Terra grande quanto una piccola moneta, servirebbero chilometri di carta (o di monitor) per completare una rappresentazione in scala del sistema solare.

Nella monumentale opera “Breve storia di (quasi) tutto”, Bill Bryson scrive:

Non avete mai visto una mappa del sistema solare disegnata neppure lontanamente in scala. Nella maggior parte delle carte scolastiche i pianeti si susseguono uno dietro all’altro a intervalli ravvicinati, ma questo non è che uno stratagemma necessario a farli entrare tutti nello stesso pezzo di carta. […] Le distanze sono talmente enormi che disegnare il sistema solare in scala è impossibile. Anche inserendo nei libri scolastici moltissime pagine ripiegate […] non ci si avvicinerebbe all’obiettivo. In un diagramma in scala, con la terra ridotta al diametro di un pisello, Giove dovrebbe essere posto a oltre 300 metri dal nostro pianeta, e Plutone sarebbe a 2 chilometri e mezzo (per giunta sarebbe all’incirca delle dimensioni di un batterio, quindi impossibile da vedere).

Dunque la cosa è abbastanza complicata, e i libri si affidano ad immagini incredibilmente indicative, sia nelle proporzioni che nelle distanze. Si tratta dunque di immagini verosimili, imprecise quanto una comune notizia che cestiniamo come falsa.

sistema solare fake

La difficoltà di rappresentare con precisione le cose immensamente grandi la riscontriamo anche con le cose immensamente piccole. Prendiamo l’atomo. Chi sa disegnare un atomo? È luogo comune immaginarlo simile ad un uovo, con un nucleo all’interno. Nei libri lo troviamo sferico e trasparente, ma siamo sicuri che sia davvero così? O forse la sua rappresentazione è solo una riproduzione indicativa per farci capire la sua composizione?

Turismo, marketing e fake news

Di cose imprecise e verosimili il mondo ne è pieno. La vita ne è piena, e i professionisti del marketing ne producono in continuazione e le usano come esche per vendere e sedurre (d’altronde, quando andiamo a pesca costruiamo dei fake per fare abboccare i pesci).

Faccio l’esempio di un eclatante caso turistico presente nella zona in cui abito: il famoso castello di Gradara, un’affascinante e imponente rocca medievale che divide i confini dell’Emilia Romagna da quelli delle Marche. Si narra che tra le sue mura sia avvenuta la tragica storia di Paolo e Francesca (chi ha letto la Divina Commedia si ricorderà forse dei due innamorati).

Castello di Gradara - Fake

Questa cosa del “si narra” è già un indizio: non ci sono prove effettive che i due si siano amati proprio lì. Anzi, alcuni documenti affermano che il luogo preciso sia da tutt’altra parte. Ma durante le visite guidate, ovviamente, le guide dicono sempre “in queste stanze si sono amati Paolo e Francesca”, facendoti immergere in un’atmosfera romantica. E tu, felicemente, ci credi. Anche se non è poi così vero, ci credi, perché l’emozione è reale. Un po’ come accade con il mostro di Loch Ness che continua ad essere avvistato.

Dietro tutto questo ci sono delle forze che ci spingono a credere ad una determinata storia e ci tengono saldamenti ancorati nel mondo del vero-finto.

Nel piccolo saggio “Io credo alle sirene” di Andrea Fontana, c’è un capitolo che parla del “blending cognitivo“, un’esperienza che nel libro è descritta così:

Il blending ci porta a mescolare insieme fattualità e contro-fattualità quando leggiamo una fake news e ci diciamo: “non è vera ma ci credo”. O ancora meglio: ignoriamo completamente che sia fake e la cataloghiamo immediatamente come oggettiva, anche se non lo è. Senza il blending non ci sarebbe riconoscimento della nostra esistenza.

Tornando a Gradara, per fare i pignoli, pare che nemmeno il castello sia poi così autentico. O meglio, si tratta di una ristrutturazione: durante i bombardamenti della prima guerra mondiale è stato distrutto in buona parte, e tutto ciò che vediamo oggi è una ricostruzione, identica al passato, ma pur sempre una ricostruzione. In architettura si dice “dov’era, com’era”. Quindi le sale interne, i mobili, i baldacchini e le mura, non sono affatto medievali. Ma in fondo, dopo una meravigliosa visita guidata dove ti sei innamorato degli ambienti e delle torri, beh, che te ne frega se sia tutto autentico oppure no. Quello che hai visto è abbastanza credibile, abbastanza reale.

Ora pensa a quello che hai letto in questo articolo: la carota viola, il sistema solare e il castello di Gradara. Pensi che sia tutto vero quello che ho scritto? È possibile che ti abbia raccontato qualche balla o che abbia romanzato qualcosina?

Consiglio: non credere a tutto ma chiediti se quanto di ciò che hai letto ti sembra realmente possibile. Forse andrai a verificare qualcosa ma ti prego, non farlo solo su Google, scava più a fondo e fatti una tua idea. Tieni a mente questo approccio e questo tipo di ricerca, ti aiuteranno a non cadere nelle trappole del marketing, nelle promesse pubblicitarie e nelle affermazioni dei politici. Scava a fondo e tieni bene a mente che

vero e falso non sono i due estremi di un interruttore, ma sono, piuttosto, gli estremi di un potenziometro, grazie al quale è possibile calibrare il rapporto tra vero e falso.

Dobbiamo cercare e informarci di più, verificare le fonti e dubitare persino di quello che sappiamo. Come Fox Mulder e Dana Scully, dobbiamo convincerci che la verità è ancora là fuori.

A Roma ci sono capitato in diverse occasioni e solo nell’ultima mi sono stupito particolarmente. Non che nelle precedenti visite non ne fossi rimasto affascinato, perché non è una questione di bellezza, che a Roma ce n’è quasi da buttare, è piuttosto una sensazione che ho provato, un po’ di soprassalto, cercando il motivo di così tanta maestosità.

Insomma, non è che dall’oggi al domani si decide di costruire Roma. Ci dev’essere una sorta di ambizione, di promessa, un’intenzione di creare qualcosa di eterno, per sempre maestoso e antico oltre ogni dire. Quindi non è un singolo monumento che mi ha colpito, e nemmeno il tempo richiesto per la sua edificazione. Se così fosse non sarei qui a scriverne e basterebbe uno sguardo al Colosseo per smettere anche di parlarne. E invece è un’altra cosa: il motivo. Il perché costruire qualcosa di così immenso e continuare a farlo per sempre.

Mentre riflettevo su questo mi sono venute in mente le parole di Cormac McCarthy nel romanzo “Non è un paese per vecchi”. Descrivono quello che ho provato e lo sguardo con cui ho osservato la bellezza di Roma.

Proprio nell’ultima pagina del libro McCarthy scrive:

Quando uscivi dalla porta sul retro di quella casa, da un lato trovavi un abbeveratoio di pietra in mezzo alle erbacce. C’era un tubo zincato che scendeva dal tetto e l‘abbeveratoio era quasi sempre pieno, e mi ricordo che una volta mi fermai lì, mi accovacciai, lo guardai e mi misi a pensare. Non so da quanto stava lì. Cento anni. Duecento. Sulla pietra si vedevano le tracce dello scalpello. Era scavato nella pietra dura, lungo quasi due metri, largo suppergiù mezzo e profondo altrettanto. Scavato nella pietra a colpi di scalpello. E mi misi a pensare all’uomo che l’aveva fabbricato. Quel paese non aveva mai avuto periodi di pace particolarmente lunghi, a quanto ne sapevo io. Dopo di alloro ho letto un po’ di libri di storia e mi sa che di periodi di pace non ne ha avuto proprio nessuno. Ma quell’uomo si era messo lì con una mazza e uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio di pietra che sarebbe potuto durare diecimila anni. E perché? In cosa credeva quel tizio? Di certo non credeva che non sarebbe mai cambiato nulla. Uno potrebbe anche pensare questo. Ma secondo me non poteva essere così ingenuo. Ci ho riflettuto tanto. Ci riflettei anche dopo essermene andato da lì quando la casa era ridotta a un mucchio di macerie. E ve lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì. Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo assicuro. E allora penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non lo so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe più di tutte.

McCarthy mi ha fatto riflettere alla promessa di chi ha costruito una città come Roma. Con tutto quello che ne è conseguito e che abbiamo letto nei libri di storia.

È stato come scegliere un nuovo punto di osservazione, una differente prospettiva, e come dietro ad una lente magica ho amato Roma e quella promessa che intravedo, ancora oggi, nello sguardo di chi scopre per la prima volta il Colosseo.

social-media-strategies-davide-bertozzi

Volevo lasciar passare qualche giorno, metabolizzare, far scorrere l’adrenalina. Volevo, insomma, prendermi un po’ di tempo prima di scrivere qualche riga, neanche troppe, giusto un po’, quasi una brevissima prosa riguardo il mio intervento di ieri al Social Media Strategies. Era mia intenzione prendermela con calma ma poi è accaduto, per una ragione che non so spiegare ma chi ama scrivere mi capirà benissimo, che le parole sono venute fuori da sole, come esplose, perché dentro non te le puoi mica tenere, no. Non ci stanno. Ad un certo punto traboccano, eruttano talvolta, scoppiano senza preavviso e centinaia di lettere saltano in ogni direzione. E allora succede che le prendi e le metti in ordine, su un foglio, le ordini e le guardi scorrere. Questo mi è accaduto oggi. Come dicevo, avrei preferito farlo a mente fredda, ma non sempre le cose vanno come vorremmo, e questo vale per molte situazioni della vita.

L’abito fa il monaco

Mi è sempre piaciuto stare sul palco, non lo nego. Penso che ogni relatore del Social Media Strategies la pensi come me, grossomodo. L’adrenalina, il pubblico e tutte quelle cose che hanno a che fare con l’ego – confesso – e il sentirsi utile e apprezzato, mi fanno stare bene. Questa cosa è iniziata quando non ero ancora maggiorenne e cantavo nei locali della zona, truccandomi alla Motley Crue e indossando vestiti sgargianti. Mi son sempre voluto mettere in mostra, farmi riconoscere anche a costo di essere preso per il culo – che ovviamente è accaduto in molte occasioni.

E anche oggi, che il numero di concerti è calato drasticamente a favore di aumento di momenti in cui sul palco ci salgo per tenere workshop formativi, anche oggi che la vita ha fatto un po’ il suo corso e io ho scelto la mia strada – e il poter scegliere è già grandioso di per sé -, anche oggi, insomma, non ho smesso di voler emergere e farmi notare. Non indosso più l’abbigliamento appariscente di una volta, ma qualcosa di inusuale mi piace averlo sempre con me. Alla sobria camicia di Antony Morato che riposa solitaria nel mio armadio ho scelto una t-shirt di Superman.

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Scuotere e pungere

Riguardando il mio intervento noto che mi è uscita qualche parolaccia di troppo, sono passato per il Mara Maionchi del Social Media Strategies. Non mi pare una cosa eccessivamente grezza ma piuttosto un modo per dare una scossa, di tanto in tanto, alle frasi. Strano che ciò non accada quando scrivo. La parola “cazzo” raramente viene ospitata all’interno di un mio testo, ma a voce è diverso, vuoi per il tocco romagnolo che rende il mio parlato ruspante e contadino, vuoi per un lato ribelle che non mi ha mai davvero abbandonato.

Tuttavia penso che il mio discorso avesse bisogno di qualche “cazzo”. Perché non era mia intenzione insegnare, né tantomeno raccontare: volevo scuotere. E pungere. Scuotere il pubblico dimostrando con i fatti che la creatività non è cosa per pochi e che a volte basta cambiare una lettera per trasformare una semplice parola in un concetto straordinario. Pungere tutte le persone che comunicano con frasi standard e noiose come “offriamo servizi efficaci”. Scuotere e pungere. Ecco.

Ed è stato incredibilmente gratificante. Le persone che hanno partecipato, riso e ascoltato mi hanno fatto sentire utile. Non importante ma utile, e questo per me è abbastanza. Quindi le ringrazio, tutte quelle magnifiche persone che hanno scelto di trascorrere con me 40 minuti di formazione. Dagli amici ai colleghi, dai curiosi ai tanti che a fine workshop sono rimasti in sala per conoscermi e rivolgermi domande di approfondimento. Grazie, davvero. Siete stati tutti molto super.

 

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Lo storytelling scombussola la vita. Non tanto perché va di moda o perché se ne parla nei brief di progetto, e nemmeno perché ne utilizziamo il termine per rendere più epici i nostri case study. Il vero problema nasce quando capiamo davvero cos’è lo storytelling e in particolar modo quando iniziamo a vedere le storie dappertutto. Mi spiego. Chi svolge il mestiere del pubblicitario ha certamente imparato ad osservare il mondo con una visione “tecnica”. Questa prospettiva privilegiata rende (quasi) invulnerabili dal marketing-fuffa e permette di capire molte cose su chi-vende-cosa. Lo stesso accade agli storyteller: leggono storie dappertutto, da una fotografia ad un manifesto pubblicitario, da uno spot in TV ad un telefilm su Netflix.

Ecco, Storytelling for Dummies insegna ad osservare il mondo attraverso lo stesso filtro usato dagli storyteller, ma con il sicuro effetto collaterale che niente sarà più come prima: ogni campagna pubblicitaria, ogni progetto grafico, ogni strategia di comunicazione, ogni spot, mostra artistica, sito web e format televisivo verrà messo in discussione ed esaminato da cima a fondo in cerca di eroi, antagonisti, intrecci e finali solitamente lieti (ma non sempre). Scombussola la vita, dicevo.

Storytelling for Dummies

Non si diventa storyteller con un manuale, sarebbe troppo bello, ma da qualche parte si dovrà pure iniziare. Ecco, questo volume è una buona base di partenza. Nelle prime pagine l’autore si concentra sulla distinzione obbligatoria tra storia, racconto e narrazione, cosa da non sottovalutare (prova a chiederla al sales account che farcisce i preventivi della tua agenzia con la keyword in questione); sempre nella parte iniziale troviamo altre brevi ma necessarie precisazioni, come la differenza tra history e story o tra scrivere bene e scrivere narrativamente (chiedi anche questo al tuo sales account).

“Il tuo problema non è saper scrivere bene ma saper scrivere narrativamente”.

Davvero utilissimi sono gli esercizi “fatti insieme” a fine capitolo: un modo carino, pratico e sintetico per mettersi alla prova sin da subito. Ma la cosa più gradevole di Storytelling for Dummies è che da questo libro si esce e si entra. Tra le pagine ci sono immagini, storie (ovviamente), testi e descrizioni di fatti, documenti e campagne pubblicitarie che ti distolgono dalla lettura e ti portano davanti al pc. Ti viene voglia di approfondire, una voglia di approfondire subito, perché scoprirai di non aver chconosciuto il potere narrativo di molte cose che hai visto decine di volte, anche al telegiornale o durante una puntata di X-Factor.

Si entra e si esce, dicevo, ma c’era da aspettarselo, lo storytelling si legge, si vede e si ascolta, è impensabile l’idea di rinchiuderlo dentro un libro. Tra le pagine si trovano dunque link e immagini, meglio dire “portali”, che ti conducono nel dietro le quinte di progetti di marketing complessi ed eleganti. Nel capitolo 13, ad esempio, non ho fatto altro che entrare ed uscire dal libro. In quelle pagine, Andrea Fontana parla di immaginari visivi, e fornisce così tante nozione che è impossibile averle già acquisite ed organizzate correttamente nel proprio bagaglio culturale.

Ma ognuno è diverso, e tu, ad esempio, potresti trovare più utile il capitolo 11 dedicato alle parole e agli stili linguistici, o magari il 12, in cui l’autore si focalizza su archetipi e coerenza di personaggi e brand (che poi sono la stessa cosa).

Qualche riga sull’autore

Durante il mio primo incontro con Andrea Fontana, a Pesaro, abbiamo parlato di comunicazione e storytelling. La seconda volta, a Milano, abbiamo invece parlato di alieni e supereroi, temi sui quali abbiamo trovato sinistri punti di incontro (proprio le passioni comuni mi hanno permesso di avere tra la mani Storytelling for Dummies in anteprima). Questo per dire che dietro all’impeccabile outfit di giacca, gilet e cravatta, si cela un lato “pop” quasi inaspettato. Questa trasparente identità si riscontra nello stile con cui è stato scritto Storytelling for Dummies, lontano anni luce dal serioso Storytelling d’impresa – La guida definitiva” o dal recente “Io credo alla sirene”, dal piglio profondamente sociologico.

Questi tre titoli, tre fra tanti altri, forniscono uno strano identikit su Fontana: sociologo, storyteller, formatore e appassionato di mistero e supereroi. Ora, se ti va di fare un esercizio simpatico, prova a scrivere una breve storia con protagonista un personaggio del genere.