storytelling

Le storie sono ovunque. Difficili da vedere e riconoscere ma ce ne sono a migliaia in ogni luogo, a volte anche in un oggetto. Spesso sono invisibili e di certo non sono così sciocche da farsi scovare con facilità. E quando non ci sono, quando sei sicuro di aver cercato bene dappertutto, ma proprio bene intendo, beh in quel caso le puoi inventare tu. Ne possono nascere anche di bellissime.

Prendi questa insegna: “Bagni Gianni – Pen. Arianna”. “Pen” sta per “pensione”. Ecco, questa insegna indica ai clienti della pensione Arianna di usufruire di questo lido. Siamo sulla spiaggia di Misano Adriatico, così, giusto per capirci meglio. Si tratta quindi di un’informazione, nulla di più. Ora, io non sono un sognatore o un irriducibile romantico, no, però ho immaginato di cambiare una lettera di quella frase, una soltanto, per stravolgere il senso del cartello. Ho immaginato di sostituire la “n” di “Pen” con una “r”.

Prova a pensarla così e a rileggere la frase tutta d’un fiato: “Bagni Gianni per Arianna”. Capisci quanto cambia il significato? Riconosci la sua portata emotiva? Se ci fosse davvero scritto questo, chissà quante persone si porrebbero domande su questi due tizi e su questa frase. Chi è Arianna? Perché Gianni le ha dedicato o regalato questa spiaggia? Dove sono ora? Eccetera eccetera.

Tutto questo per colpa di una lettera, una soltanto. Manco fosse una frase intera, o una parola, no, una lettera. Come le stelle. Ce ne sono a miliardi ma basta vederne una cadente, una soltanto, ed è già magia.

Misano World Circuit

Non ricordo la prima gara di MotoGP che ho visto in TV. Ricordo che ancora non c’era Valentino Rossi, e questo la dice lunga. Non ricordo nemmeno quando poi ho iniziato a non averne mai abbastanza, ad alzarmi presto per non perdermi le gare in Giappone e a tenere le mani incrociate durante gli ultimi giri. Ricordo però la prima volta che ho visto una gara dal vivo e la prima in cui ho visto Valentino vincere. Oh si, non posso dimenticarlo. Proprio come il primo momento in cui ho messo piede nel paddock e mi sono trovato in quel vortice enorme di frenesia dove piloti, giornalisti, tifosi e intrusi mi ruotavano attorno facendomi sentire incredibilmente lento. Si, lento.

Per entrare in quel mondo e lavorare con quella gente è indispensabile imparare a muoversi e pensare a quella frenesia, quella velocità.

Ancora oggi a distanza di anni non sono così rapido, ma ogni volta che entro nel paddock mi sento come rinascere. Girare tra i camion e i box, dentro e fuori le hospitality fino a quando mi gira la testa, girare e un po’ vagare, fino a perdermi talvolta, e soffrire per il troppo rumore, dimenticarmi del cellulare che vibra, dimenticarmi persino di Facebook e Twitter, è bellissimo, e reale.

Abitare a 1 chilometro dal circuito di Misano Adriatico mi ha senz’altro aiutato ad entrare in questo mondo, e anche qualche buona conoscenza ha fatto la sua parte, ma più di ogni altra cosa mi ha aiutato la passione. Già, perché se vuoi lavorare nel motomondiale devi amare l’odore della benzina e abituarti al frastuono delle marmitte, amare la sveglia presto durante i GP asiatici e stare sveglio fino a tardi per seguire gli approfondimenti dopo le gare americane. Devi guardare con voglia e ardore tutte le prove libere di ogni categoria, ascoltare le interviste e prendere appunti. Devi capire la lingua dei piloti, che non è quell’inglese improvvisato o uno spagnolo scordato, ma più un tono di sfida e competizione che impregna ogni sillaba.

E devi metterti dalla parte di uno (il pilota) che non ragiona come te.

Non lo farà mai, perché è una star e fa cose che riescono solo a lui e a pochi altri. Inoltre, un pilota a tutte queste cose non ci pensa mai. Tu invece si. E quando ti trovi insieme a lui non provi nemmeno a confrontarti, ma lo ammiri e tifi per lui. Tifi così tanto che nemmeno te ne rendi conto. E ogni cosa che fai per lui si compensa con la magia che riempie il paddock, i box e ogni maledetta gara. Il solo farne parte, una piccolissima parte, è meraviglioso.

Costa di Tropea

A Tropea ci sono stato due volte e per due motivi: la prima volta, di sera, ho scoperto i vicoli e le meraviglie della città. Mi era stata descritta come un posto magico, quasi surreale, tra i luoghi più caratteristici del sud Italia, e in effetti era tutto vero. La seconda volta, invece, ci sono andato di pomeriggio, perché nella prima occasione avevo intuito che all’ora del tramonto ci sarebbero dovuti essere colori incredibili nei viali, sui tetti e nelle piazzette – che non sono piazze ma piazzette. In effetti, nel tardo pomeriggio Tropea è un’altra città.

All’ora del tramonto la gente si accalca ai balconi che si affacciano sul mare e punta gli occhi all’orizzonte, dove con un pizzico di fortuna si scorge anche lo Stromboli fumante. Per quanto sia meraviglioso godersi questo momento, è altrettanto favoloso dare le spalle al mare, con il naso verso le case – oserei dire casette – e perdersi nelle viuzze dove gli ultimi raggi colpiscono i tetti e le pareti, creando trame cromatiche e giochi di ombre che lasciano senza fiato. Mi viene in mente una citazione di Edward Hopper:

“quello che vorrei dipingere è la luce del sole sulla parete di una casa”.

Hopper non dev’esserci mai stato a Tropea, perché altrimenti non se ne sarebbe mai andato. Sarebbe impazzito nel vedere i colori delle pareti, al tramonto, o magari anche al mattino o ancora quando piove e all’improvviso spunta fuori il sole.

vicoli di Tropea

Tramonti sul mare

Dove mi trovo oggi, sulla costa tirrenica, il sole tramonta in mare, mentre dove vivo, sull’Adriatico, il sole in mare ci sorge. È chiaro che ad uno come me una cosa del genere affascina da morire. Non è così semplice da spiegare, ma ho bisogno di avere l’acqua salata sempre vicino a me, e con lei il moto delle onde e la legge delle maree. Sono nato con i racconti e la gente di mare e in qualunque momento dell’anno ho bisogno di vederlo spesso, come per controllare che sia sempre li. Magari cambio strada mentre guido per passargli accanto, cose del genere.
E i tramonti, qui dalle mie parti, avvengono tutti sulla terraferma, dove l’orizzonte è fatto di monti, colline e le prime luci della sera nei borghi antichi. Qui da Tropea, vedere il sole calare dolce sul Tirreno, e accanto ad un vulcano – lo Stromboli – è qualcosa di impensabile per la gente delle mie parti, una cosa che a raccontarla a chi non si è mai allontanato più di 100 chilometri dal proprio letto sembra pura follia.

Tramonto a Tropea

Ancora qualche parola sul mare

Sul mare sono state scritte e spese milioni di parole migliori di quelle che saprei scrivere e spendere io. Basta citare Hemingway e Melville per scoprire libri di un fascino senza fine. Solo per averli citati questa didascalia potrebbe finire qui, eppure c’è una cosa che mi sento di dire, ora, perché la bellezza di questo momento non si ripeterà più. La bellezza, una vera follia di osservare le onde e non scovarne mai una uguale all’altra. Puoi cercare in ogni oceano e squarcio di mare, in tutte le ore del giorno e con ogni vento e marea. Mai una uguale. Persino i colori e il suono. Mai. E neppure il tuo stato d’animo quando affondi i piedi nella sabbia e guardi l’orizzonte. Ogni volta sarà diverso. E questa è una di quelle certezze che rendono la natura così meravigliosa e la vita così fragile.

copywriter book

L’anno scorso ho letto pochi libri. Giusto qualche saggio e una manciata di romanzi. E la biografia di Michael Jordan. Stando a quello che ricordo è stato l’anno in cui ho letto di meno. Meno libri, meno riviste, meno tutto. Come a prendermi una pausa dalla corsa quotidiana che i miei occhi fanno sulle prose di autori straordinari e sulle colate di inchiostro nella pagine di carta. Che poi, poiché scrivere è il mio mestiere, non posso esimermi dal leggere, poiché da quest’azione elegante e antichissima colgo tutti i riflessi e le ispirazioni che mi aiutano nello svolgere senza noia e ripetizioni il mio lavoro.

Voltandomi indietro mi rendo anche conto che l’anno solare che lascio alle spalle è stato ricco di serie TV, film, programmi sportivi, mostre d’arte e tramonti. Non è una follia, non è una vittoria della televisione sui libri ma, a mio avviso, è un modo differente di leggere. Ho amato alla follia Dexter e The Walking Dead, ma è come se oltre ad aver seguito con ansia ed entusiasmo le storie che raccontano, ecco, è come se li abbia letti. Come se avessi applicato il filtro “tecnico” e mi fossi concentrato sulla stesura del copione, sugli storyboard, sulla fotografia. Ed è lo stesso che ho fatto guardando i programmi sportivi, analizzando il crescere della tensione fino al momento del boom, una gara di MotoGP ad esempio. Un crescendo architettato con intrecci e personaggi, protagonisti e antagonisti. Come se fosse una vera storia. E lo stesso è accaduto anche fuori casa, alla mostra di Edward Hopper – giusto per citare un momento straordinario – dove il litigio tra luci e ombre mi è rimasto nel cuore. O anche osservando certi tramonti, dicevo.

C’è una dinamica a cui non ho badato mai e che ora mi tormenta ogni pomeriggio. Il sole che scende, piano, mentre le ombre si allungano, le trame del cielo si scaldano e si scaldano sempre più finché un rosso cremisi e la porpora tormentano l’orizzonte. E poi arriva il freddo (l’antagonista?), le trame fresche della sera, che dal violaceo portano al blu poi all’oscurità e poi più niente se non le tenebre della notte. Da qui capisco che anche la natura non passa da un momento all’altro senza una sua epica.

Non dirmi che tu non ci leggi nulla. Non dirmi che non c’è nulla da leggere. Perché solo il fatto che io ne scrivo e milioni di persone prima e molto meglio di me ne hanno scritto, anche versi memorabili, se in così tanti ne abbiamo parlato è perché abbiamo letto qualcosa. Nel cielo, dentro di noi. Da qualche parte qualcosa abbiamo letto. Senza carta e senza inchiostro, né fogli né taccuini, solo le parole che si celano davanti ogni cosa che, da una serie TV ad un tramonto, da un pianoforte scordato alle grida del mare, si soffermano davanti agli occhi e lì levitano trasparenti aspettando di essere lette, filtrate e ingoiate, o assorbite, qualcosa del genere.

Nuovi formati, nuovi layout. I libri dei mesi passati hanno avuto forme e dimensioni stravaganti e inaspettate. In tutto questo, la cosa pazzesca è che nonostante la tenue crescita di volumi cartacei nella mia libreria, non ho mai smesso di leggere, nemmeno per un minuto.

Una cosa che fa incazzare da matti i fotografi è passare davanti all’obiettivo durante uno scatto. Eppure è questo che fanno le parole. Ed è a questo che servono: infiltrarsi nelle immagini, dentro e fuori le cornici, sopra e sotto le ombre, tra i colori e le trame, le sfocature e le macchie di buio. Le parole vivono di immagini e nelle immagini. E le immagini evocano parole e frasi, anche dimenticate. Frasi che ci hanno tagliato, strappato e rubato qualcosa, fatto soffrire e sorridere. Che ci hanno salvato e portato via. Frasi che vorremo riascoltare per salvarci e fuggire di nuovo.

In breve, questo è anche il mestiere del copywriter.

piccoli paesi

Quei piccoli paesi, di solito mai sulla costa, ma appena poco all’interno, magari tra le colline e ai campi di grano, dove c’è un campanile, una drogheria, un bar, un falegname e talvolta un pittore e un collezionista di bottoni. Quei piccoli paesi, frazioni del mondo. Una manciata di anime, forse un centinaio, pochi bambini, molti anziani, perché i giovani sono partiti, quasi nessuno tornato se non dopo lungo tempo e la schiena stanca e curva. Talmente piccoli che c’è un solo barista, un solo artigiano che sa costruire tutto, un solo fioraio, un solo elettricista che ne sa anche di idraulica e metalmeccanica.

Una sola piazza dove in estate l’aria ristagna e il caldo uccide. I gatti sotto le panchine a soffrire l’afa. E i cani non hanno guinzaglio, casa e padrone, ma sono amati da tutti e mangiano facendo il giro dei portoni. Quei piccoli paesi in cui si insegna come scappare ma non come restare e rendere giustizia ad un fascino mite e qualunque, fatto di mattoni e semplicità, tenerezza e anziani che ti fissano con i loro occhi lucidi – come se stessero per scoppiare a piangere ma poi non lo fanno.

C’è un campetto da calcio, senza erba, solo terra e polvere, le porte senza rete, le linee bianche svanite. Un piccolo cimitero, poco altro. Il sindaco è più contadino che politico, perché le decisioni vengono prese dal vento e dal tempo, dalla terra, dai fiori.

Quei piccoli paesi, dove non ci sono alberi ma tigli, pioppi e olmi, e le persone conoscono i nomi di ogni pianta, persino dei fiori, dei funghi e delle erbacce. Gente che ha l’aspetto di chi viene da lontano e sa produrre l’olio in casa e ha la pazienza di attendere il raccolto, gente che conosce i venti e bagna il pane nel vino.

Antichi vasi di terracotta incorniciano i lati dei portoni, e nelle strade la polvere viene spazzata via solo dalla pioggia. Quando piove c’è un silenzio che ti rimette al mondo, solo la violenza del cielo e basta. E i gatti dietro le finestre, i vetri sottili che tremano e lasciano entrare il fresco.

Ora dimmi se immagini un mondo senza questi paesi. Dimmi se riesci a respirare, scrivere, pensare senza averli mai visitati. Senza aver mai parlato con quel barista, che è scorbutico, si, quando entri non dice buongiorno ma solo “cosa vuoi”.
E non è mai una domanda, è un’affermazione. Cosa vuoi.

Dimmi se immagini un mondo senza questi paesi. Che quando ti si rompe la tapparella arriva l’elettricista tutto fare che ripara anche il lavandino, il campanello e dà una potata alla siepe.

Una vita senza clacson, in equilibrio tra la quiete e la paura che assale ogni uomo e ogni donna. Perché la paura arriva dappertutto e non si dimentica dei piccoli paesi.

DiviDiRimini - foto di Marco Morosini

Qualcuno dice che non ci sono più i bagnini di una volta. Che quelli di oggi sono troppo fighetti e muscolosi e non hanno la pazienza del vento. Io invece più li guardo più mi convinco che una piacevole forma di corrosione li farà diventare esattamente come i bagnini dell’immaginario romagnolo. Di quelli che sanno sempre che tempo fa anche senza consultare il barometro. Quelli che non si spalmano mai la crema solare e tuttavia non si scottano mai, vai a capire il perché. Bagnini che hanno il volto scalfito da profonde rughe e pieghe della vita che nascondono i segreti delle maree e delle correnti. Quasi tutti hanno la pianta del piede ben larga che gli consente una forte stabilità su qualunque terreno, dal pavimento di casa alla sabbia e agli scogli. Una pianta così larga, quasi fosse una pinna.

I bagnini di oggi, soprattutto quelli più giovani, mancano forse dell’aspetto più calmo e temprato dei loro predecessori. Ma è solo questione di tempo. Di stagioni. Mareggiate. Cocomero e colpi di reni, bracciate sui mosconi e sabbia negli occhi. Prenderanno presto la forma della gente di mare e questa mutazione è fatta di singoli momenti. Uno di questi, che arriva per tutti e talvolta si ripete di anno in anno, li colpisce mentre se ne stanno seduti sulla loro sedia (di quelle con la scritta “bagnino” sullo schienale): ad occhi aperti, si immaginano un’onda anomala e improvvisa, devastante, talmente violenta da inghiottirsi tutti i turisti e pure le brandine e i pedalò. Magari in un giorno di bonaccia, così, d’improvviso, sparisce tutto. Poi sbattono le palpebre e tutto passa, era solo un pensiero violento.

Bagnini - foto di Marco Morosini

Le giornate sono roventi, a volte interminabili, e la clemenza del vento del nord è timida quanto la pioggia. Sotto l’ombrellone i bagnini aspettano l’allungarsi delle ombre e il colore del sangue nel cielo (una volta ho sentito un anziano dire “colore del vino”), si alzano con presa sicura sulla sabbia e la postura incurvata. Chiudono tutti gli ombrelloni e si voltano dalla parte in cui tramonta il sole, come per dargli un appuntamento al mattino seguente, una sorta di promessa.

Di tanto in tanto scendo in spiaggia poco prima di sera solo per osservare quel momento. Mi piacerebbe davvero capire cosa gli dicono, al sole o al cielo o a che ne so, mi piacerebbe capire come si riesce a fare una promessa del genere, e cosa si prova il mattino seguente quando viene mantenuta.

Foto di Marco Morosini – DiviDiRimini

Le parole sono ovunque

Le parole sono ovunque, sui manifesti pubblicitari, nelle voci di sottofondo e nella nostra testa. E non sono mai parole e basta. Sono musica, significati e collocazioni, ricordi e suoni increspati nelle pieghe della vita.

Ad esempio, ci sono parole bellissime, come pastello e frangiflutti, e altre evocative, come grano o tramonto. Frangiflutti è una musica, la pronuncia scorre con una pausa intensa dopo le prime due sillabe, e la ripresa con il suono “fl” provocato dalla lingua che scorre dal palato verso i denti, ci piace sia nel gesto che nel suono. Ci piace sempre. La “L” è una lettera affascinante, amiamo pronunciarla e per questo molte parole che la contengono ci piacciono più di altre.
Pastello, dicevo. Ma anche ciò che evocano è altrettanto importante, perché martello, ad esempio, non è bella quanto pastello.

La “L” inoltre è anche leggera, sia nel suono che nella grafia. Molte parole che contengono con frequenza questa lettera diventano anch’esse leggere, come libellula.
Fatte eccezione per la “L”, troppe consonanti rendono le parole complicate e zoppe, soprattutto quando ci sono di mezzo le lettere “Z”, e “T”, che interrompono il suono – la musica – delle parole. Ottimizzare, assicurazione, trattore, torrefazione, zattera e zanzara sono ricche di spigoli e inciampi. Orizzonte no, il significato e i pensieri che evoca sono più forti del taglio provocato dalla doppia zeta.

Anche troppe vocali tutte vicine tra loro possono peggiorare il suono: ad esempio, ghiaia è terribile. Ma nella lingua italiana ci sono parole che contengono anche tutte le vocali e molte di esse sono bellissime, come estuario, sequoia e aquilone.

Come frangiflutti e pastello sono bellissime anche nuvola, lucciola, pagina e coccinella.
Ma ci sono anche parole orribili, come ruga, cranio e grattugia. Parole nostalgiche come lontano e tramonto – forse perché tutti i tramonti sono nostalgici -, o parole pesanti, come gravità e capitalismo. Altre sono rigide, come vetro, o eleganti, come perla, ma ce ne sono anche di fastidiose come spigolo, spina e microbo. Ne esistono anche di silenziose, come intimità, o altre sempre fuori luogo, come droga. Alcune hanno un suono curioso, come buco. Ci sono parole che pronunciamo con parsimonia, come rugiada e tepore, e altre di cui abusiamo, come cuore, amore e tumore. Potrei andare avanti all’infinito, dimenticando che le parole possono essere descritte con aggettivi anche improvvisati eppure precisi.

Le parole si impadroniscono del loro significato, o forse viceversa, ecco perché vanno scelte con cura. Pensa ad una parola come buio, che per me è quasi inquietante. Pensa alla sua capacità di inghiottire tutto il resto della frase. Rende il buio ancora più pauroso. Buio. Parola brevissima, quasi un tuono o un colpo di fucile, e in entrambi i casi c’è una luce, un abbaglio, in cielo o davanti ai tuoi occhi, e in un solo caso vieni attraversato da un proiettile, e poi tutto diventa buio per davvero.

Infine ci sono le parole non dette, e siamo tutti bravissimi nel sceglierle e soppesarle. Quelle non si trovano nei manifesti pubblicitari, nelle voci di sottofondo o nelle strade. Mi piace pensare che siano dentro la nostra testa, se così fosse sono davvero abili nel non farsi mai trovare al momento giusto. Eppure tornano, come echi lontani. Ne ho incontrate alcune in sorrisi mancati, in fotografie ingiallite e nelle linee sul viso che ci ricordano la vita è un soffio.