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Addirittura le pentole. E poi scarpe, reti, barattoli d’olio di motori per scooter, cisterne di plastica grandi abbastanza per nascondere all’interno anche due persone, corde, attaccapanni, bottiglie (un classico), salvagenti sfondati e più o meno un altro milione di oggetti che tra le onde, le correnti e le alghe hanno perso identità.

Ad ogni mareggiata il mare ci restituisce indietro tutto quello che gettiamo dalle barche, dai pontili, dai porti, o anche dalla riva. E nei fiumi. Anche quello che finisce negli scarichi di casa ha un’altissima probabilità di finire in mare, presto o tardi.

E se c’è una cosa che accade sempre, senza preavviso e senza orologio, ma con una certa costanza in ogni stagione dell’anno, è che ci torna tutto indietro. Che è anche una metafora non troppo assurda della vita. Il mare restituisce tutto – pensa che follia se decidesse di tenere qualcosa per sé.

Tutto torna indietro, nodi che vengono al pettine, errori che diventano ricordi e a qualunque distanza temporale continuano a ferire. Anche tra vent’anni, le cicatrici saranno sempre li belle esposte, in evidenza, protagoniste di un romanzo interiore. Tra vent’anni, forse, saranno anche meno sole.

Il mare, dicevo. E le mareggiate, il vento che soffia da nord, i detriti e lo sporco deposti in spiaggia come in segno di offesa.

Poi gli uomini con i rastrelli a ripulire tutta quella robaccia così in disarmonia con il resto del paesaggio. Le bestemmie e il graffio dei rastrelli sulla sabbia bagnata. Non c’è nient’altro da ascoltare.

Le gente s’incazza se le mareggiate arrivano fino alle strade e ai locali, rompendo vetrine, passerelle, cartelli, porte, trascinando via biciclette, vasi e cespugli. La gente s’incazza quando il mare si porta via le barche dai moli, trascinandole magari in qualche vialetto del centro. La gente s’incazza così tanto, ma a giudicare da quello che il mare restituisce dopo una mareggiata, non c’è motivo di arrabbiarsi.

Sai che a guardarle, certe sere, non mi sembrano poi così lontante? Prima che faccia buio dico, quando il cielo è ancora abbastanza chiaro, che le vedi, lì. Non sembrano mica lontane come dicono.

Pensa se tutte quelle cose che ci hanno sempre raccontato sulla grandezza dell’universo, sulle distanze di anni luce, sui pianeti e tutto il resto, fossero solo una bugia.

Pensa se l’universo fosse invece questo posto in cui ogni giorno camminiamo. Saremmo soli per davvero, qui in questo mondo, e basta. E le stelle, boh, tipo lanterne, o lucciole, appiccicate la, in alto in alto.

Il mare di Cattolica non ha il fascino e i colori di quello del sud. Neanche un po’. Ma a guardarlo tutto solo raggomitolato su sé stesso, in inverno, fa quasi tenerezza. Ed è stupendo. Non riesco ad immaginare la mia vita lontano dal mare. È una sorta di certezza, che se ne sta sempre li, qualunque cosa accada. Pare poco, ma di questi tempi.

In inverno il mare di Cattolica è più solo anche del cielo, dove almeno di tanto in tanto capita di incontrare qualche nuvola. Non si fanno nemmeno compagnia, cielo e mare, se non quando cala la nebbia, che è aria umida – aria bagnata fradicia -, una sorta di via di mezzo, di passaggio, di frontiera, tra i due. Tra il mare e il cielo. E qualche barca, all’orizzonte, pare un bottone che li tiene uniti.

Devono esserci le nuvole in cielo, scure e umide, in un orario preciso, verso sera, al calar del sole. Devono verificarsi favorevoli circostanze e singolari coincidenze per poter assistere ad un tramonto dalle trame dorate. Di quelli che smuovono masse di persone facendole correre sulle spiagge e nelle strade, fuori di casa, lungo i viali e i campi erbosi, senza muri attorno ma solo cielo a non finire. Così tanto cielo da averne quasi paura, di cadere, del vuoto, paura di restare soli per davvero. Tutto questo per un tramonto così lontano e prezioso che si manifesta con l’ambizione di mettersi in mostra e raccogliere applausi e meraviglia.

Come se un qualsiasi fenomeno della natura avesse bisogno del nostro elogio, della nostra attenzione, anzi, anche solo della nostra presenza.

Christa Wolf, “Nessun Luogo. Da nessuna Parte”.

Il malumore di settembre comincia con le giornate più corte e le ombre che si fanno subito più lunghe. Porta con sé la consapevolezza che è tardi per fare un sacco di cose. È tardi e basta. Non è un mese che scorre ma piuttosto un paesaggio fermo e deserto, un’immagine panoramica del fatto che il mondo potrebbe finire anche in questo istante. Adesso.
Settembre pare destinato a diventare un dipinto, o un romanzo, di quelli scritti proprio bene ma privi di una storia, perché un racconto può essere appassionante anche senza l’intreccio. Possiamo anche farne a meno. Purché ci siano una significativa ambientazione, una maniacale scelta dei colori, dei suoni, e tutte quelle fantasie e particolarità che rendono unico il paesaggio. Che tutti ammirano da lontano ma nessuno mai attraversa.

Anche i colori non hanno senso e intensità, non bastano più e non servono con un cielo di perla sopra l’erba e sopra l’inverno. È un pretesto per restare al freddo, è una scusa per congelarsi e non congedarsi da ciò che vorremmo ibernato tra l’erba umida di nebbia e madida di noia. È solo un cielo color perla, che rende il mondo più freddo e più fermo, guardato attraverso un filtro più demoniaco dell’oscurità. Perché non c’è mattino e non c’è sera sotto il cielo perlato, le ore disperse in una miscela di lancette oliate, solo la notte è reale, quando è buio per davvero e non si ha paura. Nessuna paura perché ci si barrica in casa con la tv accesa. Ma di giorno si sta come cani senza guinzaglio fuori dal recinto. Fuggiti e fermi, immobili, tra la nebbia e le colline, con una zampa alzata, e piegata, a tenersela vicina al cuore, come a sentire se batte ancora e quanto, per la paura e gli orrori degli inverni, freddi lunghissimi e interminabili, che attraversano le ossa e i polmoni, fracassano muscoli e tendini per trovarsi faccia a faccia con l’anima. E cosa si raccontano non lo saprei dire, e nessuno ne parla mai, o nessun altro mai è tornato dall’aldilà per raccontarci, raccontarmi, di come sopravvivono le stagioni.