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Misano World Circuit

Non ricordo la prima gara di MotoGP che ho visto in TV. Ricordo che ancora non c’era Valentino Rossi, e questo la dice lunga. Non ricordo nemmeno quando poi ho iniziato a non averne mai abbastanza, ad alzarmi presto per non perdermi le gare in Giappone e a tenere le mani incrociate durante gli ultimi giri. Ricordo però la prima volta che ho visto una gara dal vivo e la prima in cui ho visto Valentino vincere. Oh si, non posso dimenticarlo. Proprio come il primo momento in cui ho messo piede nel paddock e mi sono trovato in quel vortice enorme di frenesia dove piloti, giornalisti, tifosi e intrusi mi ruotavano attorno facendomi sentire incredibilmente lento. Si, lento.

Per entrare in quel mondo e lavorare con quella gente è indispensabile imparare a muoversi e pensare a quella frenesia, quella velocità.

Ancora oggi a distanza di anni non sono così rapido, ma ogni volta che entro nel paddock mi sento come rinascere. Girare tra i camion e i box, dentro e fuori le hospitality fino a quando mi gira la testa, girare e un po’ vagare, fino a perdermi talvolta, e soffrire per il troppo rumore, dimenticarmi del cellulare che vibra, dimenticarmi persino di Facebook e Twitter, è bellissimo, e reale.

Abitare a 1 chilometro dal circuito di Misano Adriatico mi ha senz’altro aiutato ad entrare in questo mondo, e anche qualche buona conoscenza ha fatto la sua parte, ma più di ogni altra cosa mi ha aiutato la passione. Già, perché se vuoi lavorare nel motomondiale devi amare l’odore della benzina e abituarti al frastuono delle marmitte, amare la sveglia presto durante i GP asiatici e stare sveglio fino a tardi per seguire gli approfondimenti dopo le gare americane. Devi guardare con voglia e ardore tutte le prove libere di ogni categoria, ascoltare le interviste e prendere appunti. Devi capire la lingua dei piloti, che non è quell’inglese improvvisato o uno spagnolo scordato, ma più un tono di sfida e competizione che impregna ogni sillaba.

E devi metterti dalla parte di uno (il pilota) che non ragiona come te.

Non lo farà mai, perché è una star e fa cose che riescono solo a lui e a pochi altri. Inoltre, un pilota a tutte queste cose non ci pensa mai. Tu invece si. E quando ti trovi insieme a lui non provi nemmeno a confrontarti, ma lo ammiri e tifi per lui. Tifi così tanto che nemmeno te ne rendi conto. E ogni cosa che fai per lui si compensa con la magia che riempie il paddock, i box e ogni maledetta gara. Il solo farne parte, una piccolissima parte, è meraviglioso.

Nessuno vorrebbe mai vedere cadere un idolo. E quando Elvis muore c’è chi non ci crede e si inventa un mondo in cui il Re è semplicemente scappato e oggi è un vecchietto che si nasconde in qualche città di collina. Anche Michael Jackson non è morto, secondo alcuni. Perché una scomparsa improvvisa è una cosa che non si può accettare, e allora continuiamo a credere in una sorta di magia che prima c’era poi tutto d’un tratto è sparita. E il mito prende il posto di un corpo in avaria dentro una cassa sepolta sotto due metri di terra. Tutto cambia se c’è un declino lento e graduale. Tutto cambia se Valentino Rossi non vince più. Il mito eterno non può vivere se lo si vede svanire, e allora la gente s’incazza. Si rivolta contro gli idoli che non sono più lontani e irraggiungibili, ma più umani, poiché anche loro sbagliano e perdono. C’è gente che non ne riconosce più la grandezza e punta loro il coltello alla gola. Valentino Rossi si deve ritirare, lo scrivono molti giornalisti sui blog sportivi. Senza badare che in realtà se si ritirasse lui lo dovrebbero fare anche tutti gli altri piloti che la domenica gli arrivano dietro.

Il fatto è che ci vuole una gran dose di coraggio e una bottiglia di rispetto completamente vuota per far cadere gli idoli. Non si ha paura di niente se non della morte, perché se c’è di mezzo lei, come con Elvis e Michael Jackson, o Marco Simoncelli, per restare in tema motociclismo, beh in quel caso allora tutti sono intoccabili. Le leggende e i miti più grandi hanno sempre a che fare con la morte, come se in assenza di essa fossimo tutti sullo stesso livello, tutti in grado di scavalcare idoli e campioni.

Poi però la gente non ci pensa che a 300 chilometri all’ora, i piloti, tutti i piloti, a quella bestia vestita di nero, nemmeno ci badano. Non ne hanno la paura che abbiamo noi altri. E sta li la loro grandezza, indipendentemente dalla classifica del mondiale e da quello che scrivono i giornali, perché è facile chiudersi in redazione e infilzare con la penna Rossi, e ancora più facile credere che Elvis sia vivo. La realtà è molto diversa. Elvis è sotto terra e Rossi fa sognare i suoi tifosi e incazzare i giornalisti.

Leggi anche il post Che fine fanno i campioni.

Si leggono gettate di inchiostro e acidità su quotidiani on e off line, aggettivi di grotteschi colori accanto ai nomi di Federica Pellegrini e Valentino Rossi, accanto ai nomi di chi vorremmo sempre vedere vincere, e forse non capiamo, o non amiamo abbastanza. E c’è un certo stupore, oscuro, nel misurarsi con la paura che chi ci ha fatto gioire una volta, non torni a farlo ancora. Non torni a farlo mai più.
È la triste fine dei campioni. Quando vincono, vincono con tutti, poi se perdono, perdono da soli. Normale e disgraziata amministrazione nel mondo dello sport. Perché quando piove le fenici non volano.

Succede che vado al bar e nessuno tifa più per Valentino Rossi. Nessuno. Tutti quelli che fino a poco tempo fa sostenevano il nove volte campione del mondo, ora che la sua carriera è scivolata in una brutta crisi, tutti, cazzo, tutti negano di essere stati fan accaniti del # 46. Sono gli stessi che ora lo danno per fallito, gli stessi che improvvisamente si sono rivelati seguaci storici di Marco Simoncelli. Naturalmente, anche questo fanatismo è nato solo dopo la triste scomparsa del pilota di Coriano. E io non capisco questa forma di tifo, che poi parlare di tifo non è nemmeno esatto. Forse è più corretto parlare di una insolita forma di simpatia, che va già meglio. Moda, è perfetto.

In un mondo dove anche gli eroi svaniscono così in fretta, qui, in questo mondo qui, non vedo alcuna possibilità di scampo, di talento, di salvezza. Salvezza, sì, perché i campioni e gli eroi servono anche a questo, per salvarci e farci sognare, evadere dalla realtà. Fanno le cose incredibili, cose che noi non possiamo, ma vogliamo fare, e una di queste è salvarci. Salvarci, che è molto diverso da farsi belli al bar dimostrando di essere in perfetta sincronia con la moda del momento. Salvarci dalla quotidianità, dalle bugie, dai nostri limiti e dalle paure, dai falsi sorrisi e dalle verità trattenute come si trattengono solo gli starnuti.

Che cosa resta dello sport, e che fine fanno i campioni, se nessuno poi si salva… Che cosa rimane del brivido di un sorpasso, dello stupore – stupore – per una staccata violenta, di un traverso. Che cosa rimane se il pubblico smette di cercare un sentimento, un senso, e s’arrende alla paura di tifare con il cuore. Non rimane granché, né dello sport, né dei tifosi.

Succede che vado al bar e tutti indossano la moda più consueta, e tutti appaiono bellissimi con il loro amore per Casey Stoner e per i goal di Ibrahimovic. Vado al bar e scopro solo queste cose qui, e se chiudo gli occhi e mi concentro su quello che c’è da sentire, ma sentire con il cuore, succede che non sento nulla, se non un profondo silenzio. Come se la mancanza di sorpresa generi solamente silenzio, e in questo silenzio precipitano gli eroi. Che fine fanno loro, eccola qui, la fine, nel silenzio e nell’assenza di stupore. E nessuno si salva più.

Marco Simoncelli - grafica by Davide Bertozzi

Non c’è proprio niente da aggiungere. La fragilità della vita è tutta qui. O tutta lì, sull’asfalto e tra gli appunti di un copione teatrale. E quando i nostri eroi svaniscono così all’improvviso, in un modo che nessuno s’aspetta, quello che rimane è un equilibrio sul quale si soppesano tutte le anime del mondo.