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Al mattino il sole picchia forte e feroce contro l’ingresso del Circolo Kappa. Entra con arroganza dalla porta spalancata e inietta un abbaglio lungo e costante all’interno di tutta la sala, illuminando la polvere negli angoli e sotto il frigorifero della Coca Cola. Illuminando i tavoli stretti e storti e sgangherati. Illuminando l’intero bancone di marmo su cui ogni giorno ci appoggiano i gomiti e la noia le stesse persone, sempre le stesse. Illuminando gli sgabelli, pesanti quasi come un uomo, in equilibrio su quattro aste di ferro su cui si posa dolcemente, elegantemente, quasi fosse una gru, un cuscino di cuoio rosso. Bordeaux.

Tutta quella luce del mattino svela difetti e particolarità invisibili di pomeriggio, e di sera. Tutta quella luce arriva sino alla porta della sala biliardi, senza superarla, mai. Perché la porta è sempre chiusa. Chiudere sempre la porta è infatti il quinto comandamento della sala biliardi. Nemmeno il sole ci deve entrare, li dentro. Tutta quella luce entra con una violenza tale che non si riesce a vedere fuori, non si vede nulla, ti entra tutta dritta negli occhi, e al massimo, quello che si riesce a notare, sono le sagome delle persone che passano, avanti e indietro, indietro e avanti, e qualcuno che entra, ogni tanto.
Una mattina entrò Lara Loire.

Antonio appoggiava i gomiti annoiati al bancone e Franco gli dava le spalle, concentrato sulla schiuma del cappuccino. Morelli sfogliava il giornale in piedi con il culo appoggiato allo sgabello. C’era anche Massimo il gioielliere, tutto tremolante, che se ne stava seduto e sudato accanto al libraio, almeno da mezz’ora, e almeno da mezz’ora non aveva pronunciato parola, indeciso sul da farsi, o piuttosto, concentrato a fissare le mani del barista che modellavano il latte. Michele non era andato a scuola, e stava scegliendo lo stuzzicadenti per disegnare Mr. Hyde. Gli anziani se ne stavano comodamente condannati sulla vecchiaia e saldamente ancorati ai tavoli stretti, storti e dannatamente sgangherati del Circolo Kappa. Nella sala biliardi qualcuno giocava, e Pedro stava a guardare, in silenzio, abbozzando qualche schizzo di tanto in tanto.
Una mattina così, di noia e di sole, entrò Lara Loire.

Le bastarono un paio di passi per superare il varco di luce – tutta quella luce – e prendere colore. Scarpette da tennis e gonnellina di jeans. Maglietta bianca, una giacchettina stretta stretta di jeans della stessa tonalità della gonna, un ciondolo al collo, un qualcosa di simile ad un delfino, nessuno se ne accorse con precisione – tranne Michele – e quando giorni dopo ne parlarono, un anziano disse che era una specie di delfino – Michele non fiatò. I capelli color grano, raccolti dietro alla nuca con un mollettone azzurro, e azzurri erano gli occhi, a dir di Antonio, anche se a Franco parvero viola, a Morelli grigi, Massimo vide del verde, un anziano suggerì color primavera – di sera, e accontentò tutti. Reggeva una borsetta viola con entrambe le mani, dietro la schiena, come le scolarette. Le labbra carnose, quasi troppo. Tutti videro ogni suo dettaglio svelarsi nell’oscurità del bar, tutti quei dettagli scappati all’abbaglio del sole, di tutta quella luce che diventa, ad un certo punto, oscurità.

Tratto da Lara Loire © Davide Bertozzi

Disegna con il cacao, Michele. Ha 8 anni e sa disegnare con il cacao su tele bianche fatte di latte. I frequentatori assidui del bar dicono che è completamente matto, talmente fuori di testa da essere un genio in qualcosa di impossibile. Gli anziani, dall’alto della loro saggezza conquistata con migliaia di partite a carte, seduti negli stretti storti sgangherati tavolini di plastica del Circolo Kappa, dicono semplicemente – lui si fa i cazzi suoi; poi con decisione avvicinano le carte al petto, inclinano il mento verso il basso, e con le pupille scavalcano le lenti degli occhiali per inquadrare la zona del bancone in cui Michele versa sottili linee di cacao sul cappuccino fumante che Franco ha appena creato. Creato, perché il cappuccino, dice Franco, è un’opera d’arte di estrema difficoltà tecnica. Insomma Michele deve stare in punta di piedi, non è colpa del suo metro e venti di statura, quello no, è una questione di concentrazione dice lui. Tutto qui, quando qualcuno gli chiede questa storia dello stare in punta di piedi, in casi estremamente fortuiti Michele risponde semplicemente “così mi concentro”, senza aggiungere altro. Ma più frequentemente risponde con un “sssshhhh”. A volte è l’unico suono che gli si sente udire per giorni. Ssssshhhh.

Anche il Dr. Merli, il logopedista, tentò di capire quella faccenda dei disegni con il cacao. E dopo trenta cappuccini con dipinto, tra i quali apprezzò particolarmente quello con il ritratto di Roberto Baggio, diagnosticò sul retro dello scontrino del bar una particolare forma di autismo aggravata da problemi di dislessia e, forse, schizofrenia. Consigliò anche visite specifiche per l’udito e il parere di uno psicologo per l’infanzia. In basso, accanto ad una macchia di latte, scrisse con grafia incerta il nome Morelli.
Quindi è pazzo. Pensò Franco. No, lui si fa solo i cazzi suoi. Risposero gli anziani dall’alto della loro saggezza conquistata con centinaia di vittorie di briscola e rubamazzo fra i tavoli, dieci, del Circolo Kappa.

Illustrazione di Nicolò Rigobello
Testo di Davide Bertozzi, tratto dalle bozze di Lara Loire

Non c’è porta che tenga, né ragione ne corrente d’aria, l’odore del caffè di Franco attraversa vetri e finestre, fumi di sigaretta e tavoli da biliardo, lampade verdi, il campionato alla domenica e le coppe in mezzo alla settimana. Quell’odore si percepisce con tutti i cinque sensi, lo si sente scivolare fra le tende trasparenti dei timpani e aggrovigliarsi ai pori della pelle, lo si vede anche mentre attraversa le stanze, i tavoli e i posacenere, quell’odore li, insomma, s’impregna in qualcosa di solido nascosto dietro al petto, incastonato fra le costole. Attorcigliato dentro all’anima quasi fosse una sua cicatrice, ipertrofica e permanente, ricalcata sui pensieri che separano le labbra dalla prima tazzina al Circolo Kappa.

Rumori qualunque, ci sono momenti in cui si possono sentire solo quelli, come il fuoco che brucia una sigaretta mentre una bocca e due polmoni aspirano con determinazione; o il fruscio di una palla sul tavolo #5 che attraversa una fila di birilli; lo stropicciarsi delle pagine dei quotidiani; il mescolarsi delle carte da gioco tra le mani incallite di persone qualunque che riscoprono sé stesse solo entro i muri, i limiti e i confini del bar. Si sentono cose di questo genere, che valgono più per quello che rappresentano piuttosto che per i suoni in sé. I suoni del quotidiano.

Poi ci sono anche i vuoti. E quelli arrivano sempre da lontano, molto lontano, non si sa mai da dove, ma scivolano sotto la coltre di Marlboro e l’umidità e il vapore. Sfuggono anche all’odore del caffè. I vuoti arrivano da qualche parte dimenticata dalla luce dei lampioni, dei neon e delle vetrine, arrivano da una mancanza lontana e feroce. Giungono come ricorrenze, scricchiolando come vetro sotto i passi di chi se n’è andato per non tornare più, di chi deve scontare un ergastolo in paradiso e chi si promette di tornare, presto o tardi. Scricchiolii tenui e brevi. Tasti di pianoforte, briciole e polvere nascoste sotto un tappeto color inverno.

Foto di Fabio Borra, scattata al vero Circolo Kappa.
Testo tratto da Lara Loire.