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Un libro che non mi piace, non mi piace e basta. Non c’è molto da fare. Di solito mi bastano un centinaio di pagine, a volte meno, per capire se un romanzo riesce a condurmi fino all’ultima frase. E solitamente ci arrivo sempre, alla fine. Ci sono poi rari casi, rarissimi, in cui proprio non ce la faccio. A volte è lo stile dello scrittore che mi innervosisce, o la trama poco convincente, o qualcosa di scontato, o troppo estremo. Insomma qualcosa che proprio non va. Come mettere troppo olio in un piatto di pasta. E allora lo abbandono, sia il libro che, in caso, il piatto di pasta. Se non mi piace non mi piace, c’è poco da fare. E anche fra dieci anni probabilmente non mi piacerà. Mettiti l’anima in pace e chiudi quel libro.

La faccio finita con 1Q84 giunto al 30% della lettura (il Kindle considera le percentuali, non i numeri di pagina). Bella l’intenzione, bello lo stile, fantastico il fascino giapponese e le strade di Tokyo negli anni ’80. Ma la sua lentezza, come quella di molte altre cose nella vita, mi ha stremato. Così con un certo silenzio, che poi è il silenzio dei libri digitali, metto fine a questa lettura, convinto che probabilmente non la ricomincerò mai. Con un certo silenzio ed una stanchezza costante, quella di tutti i giorni. Proprio tutti, non c’è scampo, non c’è aria. Non c’è scampo e non c’è aria. Solo il respiro, sordo e vuoto e senza volume, prima di sbuffare un po’ di noia, sbuffare un sottile filo di fiato, secco, e poi chiudere, senza rumore, 1Q84 di Murakami.

Me ne stavo seduto in treno, prima volta sul Freccia Rossa, con un ragazzo giapponese seduto accanto nel tratto Bologna – Firenze. Un illustratore dai lineamenti orizzontali che ammazzava il tempo disegnando pupazzetti stile pockemon con carta e penna, niente colori. Come disegnava. Sarebbe stato bello fotografare le sue mani. Sottili e pulite, perfettamente idratate, unghie ben curate, senza pellicine attorno.

Molte persone sostengono che le mani raccontano molte cose di una persona. Io credo invece che non raccontano nulla. Magari qualche indizio, poco più. Le mani di quell’artista giapponese non erano diverse da quelle di un qualsiasi pianista, magari francese, o da quelle di un commesso di una boutique, chissà, canadese. Quindi raccontano poco. Danno un indizio, sul semplice fatto che quella persona compie un lavoro pulito, non è di certo un meccanico, un muratore, o uno che batte chiodi dal mattino alla sera.

Non credo che le mani raccontano storie. Serve qualcuno che, magari, ci ricami sopra un pensiero, un motivo. Perché le cose, da sole, non raccontano nulla. Le cose vogliono essere raccontate. Vogliono che il mondo si riempia di storie nuove. Quelle di un disegnatore giapponese che scende a Firenze. Per studiare l’arte italiana, rubare i segreti di Leonardo. Alla ricerca di un bordello nascosto in un quartiere poco lontano dalla stazione, dove si racconta di donne di una bellezza micidiale. Un giapponese che in realtà è un killer, o una spia. Un professore di disegno. Può essere qualsiasi cosa, o qualsiasi storia. Perché le sue mani dicono semplicemente che è bravo a disegnare. E sono belle. Nient’altro.