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sua maestà il caffè

“Sua maestà il caffè” è un racconto elegante e raffinato sulla storia della bevanda nera. Un racconto, dico, non tanto perché c’è una trama, ma perché l’autore scrive con una tale mania e una tale precisione sul metodo, che chi ha il cuore di leggere il libro capisce che quello che conta non è la bevanda, ma sono le minuscole storie che si incontrano scorrendo tra le pagine del suo passato. Più che scrittura, quella di Pietro Semino è un’esibizione artistica. Gli dev’essere accaduta una cosa che per uno scrittore è una sorta di ipnosi: fissarsi su di un’immagine e impazzire per la sua perfezione. Studiarla, smontarla, scolpirla e riordinarla in un libro.

Dov’è nato il caffè? In quanti modi si può degustare? Quante tipologie esistono? Quali pittori ne hanno dipinto? Quali cantanti ne hanno cantato? E quali scrittori, o registi, o personaggi famosi, ne hanno scritto e raccontato? Quando uno si ficca in testa queste domande qui, o ne esce pazzo o ne scrive un libro, appunto. L’autore si concentra sulle immagini e sui gesti, e scrive un bellissimo approfondimento su di un prodotto di cui ci deliziamo tutti i giorni senza saperne nulla in proposito. L’unica cosa che manca a questo libro è un accenno su di un dibattito tutto italiano: è meglio nella porcellana o nel vetro?

Non è vero che il caffè nel vetro è più buono. Non è vero un accidente. Ci sono clienti che me lo chiedono nel bicchiere di plastica, quello da asporto, perché lo ritengono più igienico. Come se io non lavassi bene le altre tazzine. Altri clienti non lo vogliono nel vetro, dicono che le tazzine di vetro si usano meno e quindi si lavano di rado, e c’hanno la polvere dentro, quindi preferiscono la ceramica. È un modo carino per dirmi che non pulisco mai le mie tazzine. Per fortuna alcuni non badano a questa faccenda. Purché il caffè sia buono, dicono. E il mio caffè lo è di sicuro. Poi però lo allungano con il latte. Che porcheria. Caldo o freddo, talvolta tiepido. Roba da matti. Alto, basso, corto, ristretto, un solo goccino, non troppo caldo, bollente, mi raccomando non freddo, con la tazzina bollente, corretto con rum, amaro, whiskey, crema di whiskey, anice, apice, pedice, doppio, tazza piccola, tazza grande, doppio in tazza piccola, doppio in tazza grande, normale in tazza grande, macchiato freddo, macchiato caldo, macchiato con cremina, macchiato perché nessuno è mai contento per davvero.

Quindi io lo servo solo nel vetro e della quantità che ritengo giusta. Per principio. Perché nella sua trasparenza riesco a vedere il colore del caffè, lo spessore della schiuma in superficie, fattori a cui tengo particolarmente. Non è vero un cazzo che è più buono. Lo vedo. Capisci? Lo vedo per quello che è.  

Questo dilemma del caffè è un’ironica similitudine della vita. C’è gente che la corregge con tutto ciò che gli appare sensato, che la riempie con altre cose che non hanno un cazzo a che fare con il vivere. Gente a cui non basta una vita soltanto e se la corregge con stili e atteggiamenti altrui. Come correggere il caffè. Non so se mi spiego. Persone che ce l’hanno servita nella plastica, quella bella vita da asporto, chissà dove se la devono portare. Servita nella ceramica, una vita di cui non ne si capisce un cazzo fino al momento in cui la si sorbisce per davvero, e ne si capisce il sapore solo un attimo prima che sia tutto finito, pochi istanti prima che si spengano le luci dei bar. Servita nel vetro è un’altra cosa. Ne si vede ogni attimo, la densità, lo scorrere del tempo, gli errori e le ipocrisie, le cose belle e quelle né belle né brutte che accadono e basta per il semplice fatto che devono accadere. E nel vetro la vita si manifesta effettivamente per quello che è. Nient’altro per quello che effettivamente è.

Franco il caffè lo serve solo nel vetro, in tazzine senza manico. A forma cilindrica, con il cerchio della base più stretto della bocca su cui si appoggiano le labbra, somigliano ad un tamponamento tra un cono ed un cilindro, trasparenti. L’istinto porta a sollevarle sempre con due o tre dita, il pollice, l’indice e talvolta il medio, come per ogni altra tazzina con il manico. Il caffè di Franco, bollente, scalda la superficie di vetro, e non tutti i clienti apprezzano particolarmente trattenere con due dita un oggetto rovente. Perché il vetro reagisce in un modo più accogliente al calore, rispetto alla fredda stitichezza della ceramica. Il caffè, al Circolo Kappa, si beve solo in questo modo.

Lara Loire rimase qualche istante a fissare la tazzina di vetro senza manico. Tutti fissavano Lara Loire senza sapere nulla di lei. Nessuno parlava, solo il rumore del mondo fuori che entrava attutito dal varco della porta, spalancata, verso l’interno. Nessuno parlava e nessuno parlò. Tutti gli uomini presenti al Circolo Kappa guardarono il modo, il gesto, di posare la borsetta viola sullo sgabello a lei più vicino, e le sue mani, piene di dettagli invisibili, che modellavano l’aria innalzandosi verso la tazzina. Lara Loire sollevò la tazzina con otto dita. Otto. Lasciò liberi i mignoli, un po’ per dolcezza, un po’ per inutilità, con otto dita accompagnò la tazzina di vetro sino alla bocca. Chiuse gli occhi mentre le prime lacrime di caffè le scivolavano sulla lingua, scaldando prima la gola poi l’anima. Quando riaprì gli occhi la tazzina era ancora imprigionata tra le sue dita senza smalto e le sue labbra senza rossetto. Silenzio. Lara Loire appoggiò la tazzina con le sue otto dita sul vetro e i due mignoli che scodinzolavano nell’aria come le gambe dei bambini seduti sugli sgabelli, troppo alti, di un bar. Richiuse gli occhi, come per concentrarsi, fece un lungo respiro e li riaprì pieni di luce e bagliori. Sorrise, con un sorriso che non si può raccontare, gli occhi quasi lucidi, come se una lacrima, una sola, li avesse inumiditi quel tanto che basta per rafforzare luci e riflessi, e la bocca, stretta e carnosa, chiusa con gli spigoli d’incontro tra il labbro inferiore e quello superiore alzati verso l’arco, che disegnano un piccolo arco, uno spicchio di luna, sul viso. Il sorriso di Lara Loire.

Piena di una felicità nuova, lei non smise di tenere sotto tiro lo sguardo del barista mentre gli diceva non so se è per via del vetro, ma non credo, ma questo caffè risveglia una cosa, ogni cosa, del corpo, come dire.
Grazie, lo so.
Ah beh, modesto.
No, nel senso, io il caffè lo faccio buono, e basta, non c’è molto da aggiungere,  diversamente non lo so fare.
Ah d’accordo.
D’accordo.
Non le è mai venuto un caffè cattivo?
No.
Mai?
Forse il primo, il primo in assoluto, e magari il secondo.
E basta?
E basta.
E basta.