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Se niente importa - artwork

Ho sempre mangiato di tutto, dagli hamburger non identificati di McDonalds ai panini di plastica dell’Autogrill, e vengo da una famiglia che mangia carne tutti i giorni. Insaccati, bistecche, pesce, ragù, salsicce, spiedini, hot dog, pollo fritto e così via. Questo ha fatto di me l’esatto contrario della parola vegetariano e il perfetto sinonimo di tritatutto.

Fino a pochi mesi fa non ho mai prestato particolare attenzione agli animali che finivano nel mio piatto. O almeno, l’unica cosa a cui badavo era il gusto: è buono, non è buono. Nient’altro. Non mi sono mai soffermato sulla loro provenienza, o se avessero trascorso una vita felice prima di finire in mattatoio. Se avessero avuto una famiglia, o a come vivessero in allevamento.

La verità è che di queste cose non me ne è mai fregato niente, e l’alimentazione vegetariana era per me una sorta di rinuncia, una tendenza o addirittura una forma di estremismo, quindi sbagliato.

In generale la gente vuole la carne, l’ha sempre voluta e sempre la vorrà, punto. I vegetariani sono, nella migliore delle ipotesi, teneri ma fuori dal mondo. Nella peggiore sono sentimentalisti deliranti.

Tutto questo fino a quando ho adottato un cane. Vivendo assieme a lui ho scoperto che tutte le cose che si dicono sui cani, sul fatto che hanno sentimenti, che capiscono ciò che diciamo e che sono fedeli al proprio padrone in ogni istante della loro vita, ecco tutte quelle cose li, sono vere. Il mio cane, come tutti gli altri cani, ha pensieri ed emozioni, soffre il dolore, percepisce i pericoli. Ha memoria. Molti altri animali hanno le stesse qualità, anche i maiali. Ma per motivi di costume, sentimento e tradizione, noi occidentali non mangiamo i cani, mentre i maiali si.

Ma siamo davvero convinti di non mangiare mai carne di cane?

Attraverso un processo industriale di trasformazione chiamato rendering, che permette di riciclare proteine animali inadatte all’alimentazione umana facendone mangimi per il bestiame e per gli animali domestici, i cani morti sono trasformati in elementi produttivi della catena alimentare. In America, milioni di cani e gatti soppressi ogni anno nei centri per animali diventano cibo per il nostro cibo. (I cani e i gatti eutanasizzati sono quasi il doppio di quelli adottati ogni anno).

Quindi è solo un passaggio della catena alimentare. Il maiale che io mangio trova nel suo cibo resti di altri animali domestici. E il mio cane, a sua volta, trova resti di altri animali domestici nei croccantini della sua ciotola.

Perché allora non mangio direttamente carne di cane? Perché a me importa della vita e della felicità dei cani. E anche di quella dei gatti.

A me importa e non voglio che la mia alimentazione contribuisca allo sterminio di pesci, maiali, conigli, polli, tacchini e cavalli, non voglio che gli animali soffrano negli allevamenti. Se vi state chiedendo se la bestia che riempie il vostro piatto abbia sofferto durante il ciclo della sua vita, nel 99% dei casi la risposta è si.

Questo perché fatta eccezione di pochissimi allevatori, gli animali che compriamo al supermercato derivano da allevamenti intensivi che ammucchiano, ad esempio, anche 20.000 tacchini all’interno di un capannone rettangolare di 150 metri per 40 metri.

Le uova della tua frittata sono state “covate” da una gallina che ha trascorso la sua intera esistenza (inferiore ad un anno) in uno spazio ampio quanto un foglio A4. Il prosciutto nel tuo panino deriva da un maiale che ha vissuto ogni istante della sua vita in una gabbia talmente stretta da impedirgli di girarsi (il parallelo con un cane rinchiuso in un armadio è abbastanza accurato, per quanto benevolo).

Una vita atroce è peggio di una morte atroce.

Per non parlare poi del modo in cui vengono uccisi: molte mucche, tanto per citare un caso, vengono stordite e fatte a pezzi quando sono ancora in vita (in modo da permettere al sangue di defluire facilitando il taglio). Polli e maiali sono destinati a una fine ben peggiore. Ma anche i pesci degli allevamenti non se la passano granché bene.

Se pensate che tutto questo non sia vero, provate a chiedere ad un produttore di mostrarvi il momento in cui uccide gli animali. Provate a chiedere di visitare un macello di un brand come Amadori (uno a caso). La risposta, nella remota ipotesi che qualcuno si prenda la briga di fornirvela, sarà sempre negativa, o almeno nel 99% dei casi.

I produttori sanno bene che più il consumatore capisce cosa accade davvero in un macello, meno carne ha voglia di mangiare.

Queste sono le motivazioni per cui ho deciso di non mangiare più carne animale. Certo, non è facile, e la mia dieta non è priva di contraddizioni (perché allora mangio i derivati come uova e formaggi? Anche questi derivano quasi sempre da allevamenti intensivi in cui gli animali vengono picchiati, maltrattati e dopati con antibiotici), ma quello che posso dire, oggi, anche in seguito alla lettura del libro da cui sono tratte le citazioni di questo post è: a me importa della vita degli animali.

Per quanto possa sembrare semplice, questa risposta è la mia motivazione e mi ha permesso di cambiare idea dopo 29 anni di cucina carnivora. Altri trovano la propria motivazione dopo studi approfonditi sulle malattie causate dal mangiare carne e dai benefici della cucina vegetariana, o addirittura per questioni ecologiche: l’allevamento intensivo è responsabile del 18% delle emissioni di gas serra e del 70% delle deforestazioni del pianeta, senza contare i danni del consumo del suolo e dell’inquinamento da nitrati.

Se niente importa – perché mangiamo gli animali?

Il libro di Jonathan Safran Foer, parla del mio motivo, e offre un’attenta e brutale analisi sul modo in cui vengono allevati gli animali oggi (con tanto di interviste dirette ad allevatori e animalisti), sui farmaci che vengono loro somministrati, sul modo in cui si riproducono (artificialmente) e, in alcuni casi, sui maltrattamenti documentati.

“Se niente importa – perché mangiamo gli animali?” non è un libro sul diventare vegetariani, ma si rivolge a tutti i consumatori di carne, per far luce su quello che mangiamo ogni giorno e soprattutto quello che diamo da mangiare ai nostri figli.

Ben scritto e facilmente scorrevole, il libro offre una tonnellata di fonti che documentano i fatti raccontati e si concentra, senza alcuna pietà, su come la tecnologia abbia permesso all’uomo di trasformare il pianeta in un luogo di sterminio (animale) di massa. Tuttavia l’autore confessa un sottile e trasparente velo di ottimismo verso il futuro:

Quando cambia il nostro modo di mangiare cambia il mondo.

 

 

 

 

La passeggiata notturna con il mio cane è il momento ideale per cercare nel buio i tasselli mancanti del puzzle della mia vita. Sembra una cosa banale. Poi però mi trovo da solo, in strada con il mio cane, come dicevo, e nel silenzio che si rovescia lontano dal suo zampettare c’è qualcosa che va oltre l’ascoltare, o il percepire. C’è una sorta di attesa durante la quale faccio una botta di conti sulla giornata trascorsa e quelle che l’hanno preceduta.

Ma i conti non tornano mai perché domani potrebbe accadere qualcosa come un soffio, una scelta, una canzone, una lacrima, un pensiero, un passo, un gesto, un movimento anche impercettibile, e l’ordine delle cose si ribalta. I conti quindi non tornano mai. Il mio cane invece si. Lui torna sempre, e con la stessa sicurezza mi aspetta quando sono io ad allontanarmi. E questa è una delle poche certezze che non hanno bisogno di un domani per essere confermate.

Il colibrì è un uccello eccezionale. Non ne ho mai visto uno. Ne ho solo letto e sentito parlare. Seguito qualche documentario. Vola in ogni direzione, su, giù, avanti e pure indietro. Riesce anche a stare immobile a mezz’aria, immobile nello stesso punto con le ali che, in alcuni esemplari, raggiungono gli 80 battiti al secondo. 80 battiti d’ali al secondo. Mentre in un minuto il suo cuore raggiunge i 600 battiti. Seicento. Visto in chiave romantica chissà quanto amore può sprigionare un cuore del genere. Tanto da scoppiare. Scoppiare per davvero, perché il colibrì non vive nemmeno un anno. E mi fa sorridere l’esatto contrario, la tartaruga, che con i suoi 6 battiti cardiaci al minuto, soltanto sei, campa 150 anni. Sempre in chiave romantica, con un pizzico di nostalgia, l’insensibilità della tartaruga genera lunga vita e una solitudine senza fine. Dopo tutto, il colibrì vola e la tartaruga no, e il loro confronto è una strana e infelice metafora della vita.