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Alessandro Baricco. O lo ami o lo odi. Al di là della sua ricerca, dello stile, del talento, al di là di molte cose collaterali allo scrivere – leggere, pensare, tacere, dosare la punteggiatura, calibrare il ritmo -, a molti aspiranti scrittori, e a parecchi assillanti lettori, Baricco sta proprio sulle balle.

Io lo odio. Perché è stato il primo autore che mi ha fatto provare una certa vertigine, di quelle che si possono avvertire anche stando comodamente seduti sul divano con un romanzo tra le mani. Un senso di vertigine. Che in realtà è qualcosa di grandioso,un’emozione incerta e fragile, questione di un attimo, che avviene solo quando uno scrittore decide di sedersi e scrivere con l’intento di compiere un gesto grandioso.

Un gesto perfetto. Scrivere.

E non è una questione di ricerca stilistica, non c’entra se poche righe o poche pagine siano destinate a diventare un romanzo, un copione teatrale o carta stracciata. È una questione di perfezione, ricerca della perfezione. Dell’assurdo, dell’invisibile, del quotidiano.
Lo odio perché mi ha fatto provare quella vertigine che non trovo più in tutti i libri. Non più in tutti. E il leggere è diventato per me una ricerca di quella sensazione, una furiosa ricerca, una dipendenza.

Ci aspettiamo un sacco di cose dalla vita, non abbiamo combinato niente, stiamo scivolando giù nel nulla e lo stiamo facendo in un buco di culo dove una splendida cascata ogni giorno ci ricorda che la miseria è un’invenzione degli uomini e la grandezza il normale andazzo del mondo.

Smith & Wesson si lascia leggere in un paio d’ore. Scorre. È un canovaccio teatrale, magari qualche attore superbo e una scenografia magica potrebbero trasformarlo in un capolavoro. Scorre.

Ci sono i personaggi alla Baricco, questa volta forse un po’ ruffiani.

E le frasi ammalianti di Baricco, quelle che hanno piegato le orecchie delle pagine di Novecento e tinto di inchiostro e grafite quelle di Oceano Mare. C’è una squisita ironia, un ottimismo che rema contro la solitudine, la noia e l’ambizione, c’è la voglia di non arrendersi mai. Una manciata di pagina sul finale racchiudono il senso della vita, e il resto è un contorno, decine di pagine che preparano il lettore all’ascolto di un preciso messaggio: vivere.

Se non ci fossero tutte quelle frasi di contorno, tutte quelle pagine a tratti buffe a tratti malinconiche, se non ci fossero quelle, la storia sarebbe ferma, sarebbe un lago. E invece Smith & Wesson è un fiume, scorre. E ad un certo punto c’è anche una cascata. Gigantesca.

Con l’ultima giornata di campionato di Seria A 2012 finisce quella parte di calcio che mi piace, quello che ho conosciuto da ragazzino e di cui mi sono innamorato: il calcio della vecchia guardia.

Non capisco il calcio di oggi, fatto di giocatori tatuati e capricciosi, di club quotati in borsa gestiti (anche) da imprenditori cinesi e ricconi del petrolio. Questo calcio qui io proprio non lo capisco, e quella parte di me che credeva ancora nelle giocate di Del Piero, nelle rapine di Inzaghi, nelle bombe di Batistuta e nelle giocate di Baggio, è svanita. Svaniti loro, i giocatori della vecchia guardia, di cui rimane in attività solo Totti, non ho più alcuno stimolo, proprio nessuno, per seguire le partite.

Da milanista sono contento di vedere Del Piero alzare la coppa nell’ultimo suo anno di attività, perché il mio modo di tifare è fatto paradossalmente così. E sono felice di vedere Inzaghi segnare nella sua ultima partita con la maglia del diavolo. Sono contento anche di smettere di seguire il calcio, tutto quel mondo che non capisco più, che non mi piace più. Saranno i capricci di Balotelli, o le battute di Mourinho, il carattere di Ibrahimovic, non saprei con precisione, ma queste cose qui non fanno per me.

Non fa per me il campionato in mezzo alla settimana, al sabato pomeriggio, al sabato sera, all’ora di pranzo della domenica, al pomeriggio della domenica, all’ora dell’aperitivo di domenica, la domenica sera, all’ora di merenda il venerdì. Il campionato diluito in ogni momento della settimana, è troppo per me. Non fa per me un calcio che tiene Del Piero in panchina. Concordo con Alessandro Baricco quando, riferendosi a Roberto Baggio, dice  che

quando uno sport, per un sacco di ragioni, si rigira in un modo per cui diventa sensato non far scendere in campo il suo punto più alto, allora qualcosa è successo. […] Nella tristezza dei numeri 10 in panca, il calcio racconta una mutazione apparentemente suicida (I Barbari, Feltrinelli, 2006).

Con l’ultima giornata di campionato di Seria A 2012, quello sport che conoscevo io lascia il posto ad una nuova generazione di giocatori e di società che, per me, sono troppo. Non sono peggio o meglio, non fanno per me, e basta. Magari da ragazzino non riuscivo a vedere bene quello che c’era intorno, perciò mi piaceva. Ora vedo ogni orizzonte, e quello che vedo non mi piace. Non ho nemmeno voglia capire, o tentare di farlo. Forse non c’è nulla da capire. Neanche leggendo tra le righe, o tra le linee dell’area di rigore.

L’ho incontrato una volta sola, Alessandro Baricco, in un bar qualunque, mi piace pensare sia stato un caso. È successo un paio d’anni fa, a Cattolica, e alla domanda faresti una foto con me?, ha negato di essere sé stesso. Come se quel pomeriggio non gli andasse di essere Alessandro Baricco. L’ho odiato. E pensare che i suoi libri spiccano tutti nella mia libreria, li tengo accanto a quelli che mi hanno lasciato qualcosa, accanto a McCarthy, per rendere l’idea. M’ero anche promesso di non comprare più nulla di suo. Tuttavia la delusione dell’incontro non ha inciso sull’ammirazione dello stile. Pochi giorni fa, a denti stretti e con ancora un velo di rabbia addosso, ho comprato Mr Gwyn. Un’amico mi ha letto una frase, una sola, che mi ha condannato all’acquisto:

Ogni tanto qualcuno lo riconosceva, e allora lui negava di essere chi era.

Boom. È stronzo e non lo nasconde, ho pensato. Poi però, con una precisa riflessione, ho cominciato a pensare ad una sorta di perdono. Ecco dunque Mr Gwyn tra le mie mani.

Il protagonista è davvero pazzesco, conquista per la sua visione dell’arte e delle piccole cose, per il suo nascondersi dai riflettori e per i gesti, incredibili, e i dialoghi, assurdi. Un personaggio talmente gustoso che a metà libro scompare. Basta, da metà libro in poi non c’è più. Come se fosse fisicamente scappato dalle pagine. È come le cose di cui ci si innamora, quelle che a un certo punto della vita scompaiono e non tornano più. Lui passa la staffetta ad uno splendido personaggio femminile, Rebecca, una sorta di Lisbeth Salander ma più dolce, e più grassa. Mr Gwyn è un romanzo (breve) che riassume la carriera dell’autore, con personaggi curiosi come quelli di Castelli di Rabbia e Oceano Mare, la sottile drammaticità di Emmaus e le dinamiche di City. Pazzesco e perfetto, non ci sono altri aggettivi.

Nella cura dei dettagli trovava immediato sollievo. Questo lo portava, alle volte, a raggiungere vette di perfezionismo quasi letterario. Gli accadde, ad esempio, di trovarsi davanti a un artigiano che faceva lampadine. Non lampade: lampadine. Le faceva a mano. Era un vecchietto con un lugubre laboratorio dalle parti di Camden Town. Jesper Gwyn l’aveva a lungo cercato, senza neppure sapere se esistesse, e alla fine l’aveva trovato. Quello che aveva in mente di chiedergli non era soltanto una luce molto particolare – infantile, avrebbe spiegato – ma soprattutto una luce che durasse un certo tempo determinato. Voleva lampadine che morissero dopo trentadue giorni di funzionamento.
– Di colpo, o agonizzando un po’?, chiese il vecchietto, come se conoscesse a fondo il problema.