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fake news

La carota arancione è un’invenzione dell’uomo. I colori originari di questo tubero sono il viola e il bianco, ma in Olanda, nel diciassettesimo secolo, la famiglia Orange chiese ai propri agronomi di creare in laboratorio una carota arancione per omaggiare i colori della casata. Per un motivo pazzesco, questo artificio è diventato nel tempo una cosa talmente diffusa che oggi, se provassi a servire ai miei commensali una carota viola, di certo mi guarderebbero con sospetto.

Secondo te, questa storia è vera?

Le informazioni sono ancora insufficienti per poter dare una risposta.

Se però aggiungessi che questa storia l’ho letta su Cromorama, un saggio scritto da Riccardo Falcinelli, ecco che diventerebbe più facile trarre una prima e superficiale conclusione.

Tutto questo per dire che oggi leggiamo e ascoltiamo così tante cose verosimili, potenzialmente false, o spesso completamente errate, che è diventato obbligatorio verificare la veridicità delle informazioni. Approfondire è sempre necessario, e per chi si occupa di comunicazione è addirittura un dovere.

È tutta colpa delle fake news, di questo fenomeno che ha travolto tutti i media di comunicazione, da quelli digitali a quelli tradizionali, rovesciandone l’autenticità e scoperchiando una montagna di notizie imprecise, false e grossolane.

Siamo cresciuti con la convinzione che i libri cartacei contenessero certezze e ci siamo posti dei dubbi solo con l’arrivo della rete. Da Wikipedia a Yahoo! Answers ne abbiamo lette di cavolate, per non parlare di ciò che troviamo ogni giorno nel feed di Facebook.

In realtà, le fake news non sono un fenomeno da social, o meglio, grazie ai social sono uscite allo scoperto.

Se ci impegnassimo ad approfondire molti argomenti che abbiamo studiato o che crediamo di conoscere, se analizzassimo con attenzione il sapere del secolo scorso, incontreremmo migliaia di sorprese, storie vero-false ed incredibili semplificazioni della realtà. Ad esempio…

Quant’è grande il sistema solare?

Banalmente, per rispondere a questa domanda basterebbe fare una breve ricerca su Google, dove troveremmo inoltre molte immagini che raffigurano l’ordine del sole e dei pianeti. Ecco, tutte quelle illustrazioni, o render, sono solo raffigurazioni verosimili del sistema solare, disegni indicativi talmente imprecisi da risultare più falsi che veri.

Mi spiego: non esiste al mondo un modello in scala del sistema solare. Questo perché la distanza tra i pianeti è talmente ampia, incredibilmente ampia, che se disegnassimo la Terra grande quanto una piccola moneta, servirebbero chilometri di carta (o di monitor) per completare una rappresentazione in scala del sistema solare.

Nella monumentale opera “Breve storia di (quasi) tutto”, Bill Bryson scrive:

Non avete mai visto una mappa del sistema solare disegnata neppure lontanamente in scala. Nella maggior parte delle carte scolastiche i pianeti si susseguono uno dietro all’altro a intervalli ravvicinati, ma questo non è che uno stratagemma necessario a farli entrare tutti nello stesso pezzo di carta. […] Le distanze sono talmente enormi che disegnare il sistema solare in scala è impossibile. Anche inserendo nei libri scolastici moltissime pagine ripiegate […] non ci si avvicinerebbe all’obiettivo. In un diagramma in scala, con la terra ridotta al diametro di un pisello, Giove dovrebbe essere posto a oltre 300 metri dal nostro pianeta, e Plutone sarebbe a 2 chilometri e mezzo (per giunta sarebbe all’incirca delle dimensioni di un batterio, quindi impossibile da vedere).

Dunque la cosa è abbastanza complicata, e i libri si affidano ad immagini incredibilmente indicative, sia nelle proporzioni che nelle distanze. Si tratta dunque di immagini verosimili, imprecise quanto una comune notizia che cestiniamo come falsa.

sistema solare fake

La difficoltà di rappresentare con precisione le cose immensamente grandi la riscontriamo anche con le cose immensamente piccole. Prendiamo l’atomo. Chi sa disegnare un atomo? È luogo comune immaginarlo simile ad un uovo, con un nucleo all’interno. Nei libri lo troviamo sferico e trasparente, ma siamo sicuri che sia davvero così? O forse la sua rappresentazione è solo una riproduzione indicativa per farci capire la sua composizione?

Turismo, marketing e fake news

Di cose imprecise e verosimili il mondo ne è pieno. La vita ne è piena, e i professionisti del marketing ne producono in continuazione e le usano come esche per vendere e sedurre (d’altronde, quando andiamo a pesca costruiamo dei fake per fare abboccare i pesci).

Faccio l’esempio di un eclatante caso turistico presente nella zona in cui abito: il famoso castello di Gradara, un’affascinante e imponente rocca medievale che divide i confini dell’Emilia Romagna da quelli delle Marche. Si narra che tra le sue mura sia avvenuta la tragica storia di Paolo e Francesca (chi ha letto la Divina Commedia si ricorderà forse dei due innamorati).

Castello di Gradara - Fake

Questa cosa del “si narra” è già un indizio: non ci sono prove effettive che i due si siano amati proprio lì. Anzi, alcuni documenti affermano che il luogo preciso sia da tutt’altra parte. Ma durante le visite guidate, ovviamente, le guide dicono sempre “in queste stanze si sono amati Paolo e Francesca”, facendoti immergere in un’atmosfera romantica. E tu, felicemente, ci credi. Anche se non è poi così vero, ci credi, perché l’emozione è reale. Un po’ come accade con il mostro di Loch Ness che continua ad essere avvistato.

Dietro tutto questo ci sono delle forze che ci spingono a credere ad una determinata storia e ci tengono saldamenti ancorati nel mondo del vero-finto.

Nel piccolo saggio “Io credo alle sirene” di Andrea Fontana, c’è un capitolo che parla del “blending cognitivo“, un’esperienza che nel libro è descritta così:

Il blending ci porta a mescolare insieme fattualità e contro-fattualità quando leggiamo una fake news e ci diciamo: “non è vera ma ci credo”. O ancora meglio: ignoriamo completamente che sia fake e la cataloghiamo immediatamente come oggettiva, anche se non lo è. Senza il blending non ci sarebbe riconoscimento della nostra esistenza.

Tornando a Gradara, per fare i pignoli, pare che nemmeno il castello sia poi così autentico. O meglio, si tratta di una ristrutturazione: durante i bombardamenti della prima guerra mondiale è stato distrutto in buona parte, e tutto ciò che vediamo oggi è una ricostruzione, identica al passato, ma pur sempre una ricostruzione. In architettura si dice “dov’era, com’era”. Quindi le sale interne, i mobili, i baldacchini e le mura, non sono affatto medievali. Ma in fondo, dopo una meravigliosa visita guidata dove ti sei innamorato degli ambienti e delle torri, beh, che te ne frega se sia tutto autentico oppure no. Quello che hai visto è abbastanza credibile, abbastanza reale.

Ora pensa a quello che hai letto in questo articolo: la carota viola, il sistema solare e il castello di Gradara. Pensi che sia tutto vero quello che ho scritto? È possibile che ti abbia raccontato qualche balla o che abbia romanzato qualcosina?

Consiglio: non credere a tutto ma chiediti se quanto di ciò che hai letto ti sembra realmente possibile. Forse andrai a verificare qualcosa ma ti prego, non farlo solo su Google, scava più a fondo e fatti una tua idea. Tieni a mente questo approccio e questo tipo di ricerca, ti aiuteranno a non cadere nelle trappole del marketing, nelle promesse pubblicitarie e nelle affermazioni dei politici. Scava a fondo e tieni bene a mente che

vero e falso non sono i due estremi di un interruttore, ma sono, piuttosto, gli estremi di un potenziometro, grazie al quale è possibile calibrare il rapporto tra vero e falso.

Dobbiamo cercare e informarci di più, verificare le fonti e dubitare persino di quello che sappiamo. Come Fox Mulder e Dana Scully, dobbiamo convincerci che la verità è ancora là fuori.

la-storia-del-mondo-in-cento-oggetti

Il libro ha 700 pagine. Ci tengo a precisarlo subito. Ma ci sono molte immagini, anche questo è importante. Ed è un libro di storia, seppur scorrevole quanto un romanzo. È un’acrobazia di scrittura, un virtuosismo di stile e buon gusto, un libro che il solo pensare di scriverlo sembra una follia.

Neil MacGregor sceglie 100 oggetti esposti al British Museum (di cui è direttore) e li utilizza come leve per imboccarti l’intera storia dell’umanità che, al contrario dei libri scolastici, delle enciclopedie o delle pesantissime pagine di Wikipedia, divori con avarizia e curiosità, stupore e talvolta eccitazione.

100 oggetti, 100 capitoli lunghi una manciata di pagine, si leggono sia in ordine cronologico che sparso, uno alla volta, anche uno al giorno. Piccoli pezzetti da trangugiare in qualunque momento della giornata: prima di andare a dormire, in pausa pranzo, a colazione.

100 oggetti non particolarmente famosi. Anzi, spogliato dell’Onda di Hokusai e del Rinoceronte di Dürer, nel volume non restano altre opere “pop”, ma l’autore crede fortemente nella rilevanza storica di ogni oggetto, persino di utensili che, al mio occhio ignorante, appaiono come vecchi utensili e basta. E invece hanno un enorme potenziale narrativo. Raccontarlo è il suo modo di dar loro una seconda possibilità per essere apprezzati, ed è anche un metodo incredibilmente romantico di far aumentare le visite al museo (perché il libro è anche, e in fin dei conti, uno acuto strumento di marketing).

È come se ogni oggetto avesse una storia invisibile, ecco, MacGregor racconta quella storia. Parlare dell’Onda di Hokusai è relativamente facile, con studio e pazienza chiunque riuscirebbe a scrivere almeno una paginetta zuppa di frasi interessanti. Ma intrattenere ed entusiasmare descrivendo monete d’oro indiane, coppe neppure affascinanti rinvenute nei pressi di Gerusalemme o maschere messicane di pietra, beh, la questione si complica, e l’abilità nella scrittura non è più sufficiente. Servono nuovi occhi, capaci di vedere l’invisibile e trasformarlo in argento. Questa abilità, di cui l’autore è padrone, sarebbe un’arma invincibile nelle mani di copywriter, storyteller e pubblicitari. E questo libro, La Storia del Mondo in 100 Oggetti, è uno strumento didattico molto più efficace di guide e volumi che promettono di svelare i segreti del marketing.

Un grandioso lavoro di scrittura e ricerca

Le storie raccontate attraverso gli oggetti, ovviamente, non sono storie inventate. Sono piuttosto il risultato di una paziente ricerca che, esposta con ordine e precisione, diventa un tassello della storia del mondo. La descrizione di un oggetto, in realtà, è un pretesto usato per spiegare i cambiamenti sociali, politici ed economici delle più importanti tappe della storia umana.

Il cronometro della Beagle - La storia del mondo in 100 oggetti

L’oggetto che più mi ha colpito è il “Cronometro della Beagle”, un cronometro inglese in ottone risalente tra il 1.800 e il 1.850. È famoso perché fu consegnato alla Beagle, la nave sulla quale salpò Charles Darwin nel suo viaggio intorno al mondo, dal quale sarebbe nata la celebre teoria dell’evoluzione. Ma l’autore non si concentra su questo, preferisce invece mostrare quanto sia cambiato il mondo grazie a tecnologie come il cronometro per la navi:

Per portare a compimento la sua missione, tracciare una carta geografica della linea costiera del Sudamerica, la Beagle aveva bisogno di misurare con accuratezza latitudine e longitudine. Il cronometro permetteva per la prima volta un rilevamento cartografico degli oceani estremamente preciso, con tutto quello che ciò comportava per la creazione di rotte commerciali sicure e rapide […]. Per far fronte a possibili discrepanze, o errori, la Beagle aveva a bordo 22 cronometri: 18, compreso il nostro, erano forniti dall’ammiraglio, e 4 dal capitano, Robert Fitzroy, secondo il quale 18 non sarebbero bastati per un lavoro così lungo e importante. Dopo cinque anni di mare, gli 11 cronometri ancora funzionanti mostravano una discrepanza di appena 33 secondi rispetto all’ora di Greenwich. Per la prima volta una cintura cronometrica dettagliata avvolgeva la terra.

Il cronometro marino permetteva dunque ai marinai di trovare la longitudine con enorme precisione, e da un oggetto così piccolo è nata una vera e propria rivoluzione dei viaggi e della geografia. La cartografia moderna incomincia proprio da questa piccola scatoletta di legno con all’interno un orologio, anzi, un cronometro in ottone. Come dicevo, gli oggetti sono pretesti per raccontare una storia, un cambiamento, un tassello del passato.

È questa la magia del libro. La magia degli oggetti. È questa, come scrivevo precedentemente, la storia invisibile trasformata in argento.

Storytelling d'impresa - La guida definitiva

“Siamo tutti storyteller, con le storie degli altri”. Inizia così la prefazione che Paolo Iabichino ha curato per il manuale di Andrea Fontana, di cui ho mostruosamente storpiato il nome nel titolo di questo articolo: Storytelling d’impresa, la guida definitiva. Una prefazione che ho letto alla fine del libro, addirittura dopo i ringraziamenti (è un vizio di cui non riesco a privarmi). So bene che se si chiama pre-fazione un motivo c’è, tuttavia questa sadica decisione mi permette di scoprire dettagli non colti durante la lettura.

Leggere la prefazione all’inizio condiziona eccessivamente il punto di osservazione e crea un’aspettativa con la quale non voglio avere nulla a che fare.

Tutta questa solfa sulla prefazione per dire che, nelle prime 20 righe, Paolo Iabichino racconta uno dei motivi che hanno spinto Andrea Fontana a pubblicare questo manuale: trattare il mestiere dello storyteller con il dovuto rispetto.

Ora, non sto a raccontare chi sono queste due persone per evitare di prolungarmi, ma anticipo solo che il primo è Chief Creative Officer di Ogilvy & Mather Italia (odio le iniziali maiuscole nei nomi dei mestieri, ma lui si firma così, tutto maiuscolo), mentre Andrea Fontana è “il più rilevante esperto di Corporate Storytelling (ancora maiuscole) del nostro Paese e Amministratore (!) delegato del gruppo Storyfactory”.

Scrive Iabichino:

Mi è già capitato altrove di stigmatizzare usi e abusi di questa nuova buzz-word che da qualche anno a questa parte ha cominciato a riempire PowerPoint, strategie di marca, idee di comunicazione, convegni, corsi di formazione, job description, siti internet e, neanche a dirlo, saggi, manuali e abbecedari.

Queste righe riassumono, a mio avviso, una buona metà del libro. L’autore si impegna tantissimo nel descrivere cosa è storytelling e cosa non lo è. Paragrafi su paragrafi per dare dignità, spessore e identità ad un mestiere e ad un modo preciso di fare marketing. Non solo: tra le righe noto una magistrale intenzione di punire e mettere al tappeto tutti coloro che usano la parola storytelling senza aver la minima idea di cosa sia davvero lo storytelling.

È una buzz-word d’altronde, impossibile negarlo. E quando un vero professionista vede usare in modo improprio uno strumento (o una parola) che gli appartiene, viene colpito da un senso di disgusto. Ma Fontana non è uno che se la prende con gli storyteller improvvisati. Piuttosto, si eleva. Con fare metodico descrive ogni sfaccettatura del suo lavoro in un modo così preciso che nessun altro “collega” riuscirebbe a fare. Si eleva.

La prima metà del volume serve proprio a questo: far capire che non bastano una fotografia e un hashtag per parlare di storytelling, che tra raccontare e vendere raccontando c’è una differenza decisiva e che c’è un mondo sconfinato nascosto dietro questa buzz-word. Un mondo che va studiato, analizzato, capito e ponderato. Un mondo che si traduce in opportunità di lavoro, ricavi, valore.

Il messaggio che traspare è che

non basta un corso di visual storytelling per potersi definire storyteller, e nemmeno alla fine di questo manuale sarete in grado di fare storytelling. Workshop e libri sono solo tappe di un percorso di studio molto lungo, complesso e ricco di imprevisti.

Ma non è tutto qui, ovviamente.

Nella seconda metà del volume, più o meno dai capitoli 9 e 10, si inizia a “fare sul serio”. Andrea Fontana ci aiuta a capire tutte le competenze indispensabili per realizzare un racconto, descrivendole nel dettaglio una per una (voi che dite di fare storytelling, le possedete?); ci aiuta a capire come quantificare un progetto; si sofferma con passione ed entusiasmo nelle modalità di costruzione di un racconto d’impresa e descrive minuziosamente tutte le variabili e le difficoltà che ha incontrato nel suo percorso professionale. E in questo riconosco un vero valore aggiunto.

Le pagine si impreziosiscono con brevi box riassuntivi, case study di progetti vissuti in prima persona dall’autore (cosa non da poco, perché è fin troppo facile parlare dei successi degli altri) e di grafici e tabelle che aiutano a comprendere le metodologie di lavoro.

Storytelling d’impresa: cosa mi piace del libro

Tra i tanti motivi per cui lo consiglierei a colleghi e professionisti del mondo pubblicitario, spicca la chiarezza con cui l’autore tratta ogni argomento. Se vuoi capire cos’è lo storytelling e cosa ti serve per poter creare o anche solo avere voce in capitolo riguardo un argomento tanto chiacchierato quanto incompreso, beh questo è il manuale che fa per te. Altri punti di forza sono le micro interviste a figure professionali di rielievo che si sono affidate allo storytelling e alla creatività di Storyfactory. Non solo, il percorso di lettura è magistrale: man mano che si scorrono le pagine crescono l’entusiasmo e la voglia di arrivare alla fine per capire come si possano davvero realizzare progetti di così elevata qualità.

Cosa non mi piace

I grafici e le tabelle. O meglio, il modo in cui questi elementi sono rappresentati. Per quanto siano fondamentali per la comprensione degli argomenti trattati, risultano spesso graficamente complessi e, soprattutto, manca un disegno “madre” in grado di coordinarne il loro layout.

Non mi piace nemmeno la copertina, ma questo mi capita con il 99% dei libri editi da Hoepli (ci tengo a sottolineare, però, l’umiltà del responsabile di questa collana, Luca Conti, che nella prima pagina chiede ai lettori consigli su come migliorare il proprio operato). Per un gusto personale, inoltre, non amo particolarmente la moltitudine di inglesismi incastonati nelle pagine, tra le quali si ripetono decine di volte i termini “management”, “skill” e “stakeholder” che, al contrario di “storytelling”, non hanno particolari problemi ad essere scritti in italiano.

Non mi fa impazzire nemmeno il sottotitolo “La guida definitiva”, a causa della parola “definitiva”, di cui ho ampiamente parlato in un post dedicato proprio agli aggettivi superflui. Tuttavia, capisco il motivo per cui Fontana ha utilizzato tale aggettivo. Questi sono ovviamente giudizi personali, criticabili milioni di volte.

Le storie finiscono

Ho avuto il piacere di conoscere Andrea Fontana, a Pesaro, qualche anno fa. Abbiamo preso un caffè poche ore prima di un suo intervento in pubblico – mi pare si trattasse di un convegno riguardo il futuro del marketing e della comunicazione, o qualcosa del genere. Un caffè, pochi minuti insieme nei quali con tono grave e deciso mi ha parlato di quanto fosse importante scrivere, leggere e riscrivere, di quanto lo storytelling avesse bisogno di competenze e lungimiranza.

Di quanto la mia giovane carriera da copywriter dovesse sfamarsi continuamente di storie di vita e racconti d’impresa per continuare a crescere in modo sano, etico e professionale. Quei pochi minuti trascorsi insieme con i gomiti appoggiata al bancone di un bar hanno un valore enorme ancora oggi. Mi aiutano a distinguere le storie che sono storie e basta da quelle che sono, invece, storytelling.

E questa distinzione è solo il punto di partenza, la prefazione di un lungo cammino, di un intenso racconto che ha i suoi protagonisti, gli antagonisti, le difficoltà e poi, inevitabilmente, un finale. Dolce, amaro, romantico, ambiguo,  drammatico, imprevedibile, inverosimile, divertente, triste, grottesco o addirittura trionfale.

appunti di un copywriter

Le pagine delle mie Moleskine sono inzuppate di inchiostro e grafite. Frasi, pensieri, giochi di parole, appunti, nomi, disegni, briefing, esercizi per stimolare la creatività, cose che di solito hanno a che fare con il mio lavoro. Ci sono un sacco di annotazioni che si ripetono, scritte più volte da un taccuino all’altro, cose appuntate una volta, riaffiorate in altri fogli e diventate motivo di una nuova annotazione.

Se mi tornano a balenare nella mente, e le riappunto sul taccuino, dev’essere per un qualche motivo che, di preciso, non saprei descrivere, ma sono convinto, abbastanza convinto, che mi serviranno sempre.

Volevo scriverne un testo in prosa, ma mi rendo conto che è più semplice utilizzare un elenco puntato: riportandole in rispettoso ordine cronologico, ne trovo un senso che spiega il mio modo di operare nel mondo pubblicitario.

Effettivamente non ho mai redatto un manifesto personale, da rispettare e da consigliare a colleghi, clienti, amici o persone che capitano per mille motivi su questo sito o nella mia vita.

Chiamarlo manifesto è fuorviante. Ma di certo non si tratta né di regole né di consigli. Sono, piuttosto, appunti.

Appunti di un copywriter

  1. L’ego va messo da parte, sempre. I clienti non pagano per la tua bravura, pagano per i risultati.
  2. Il copywriter non è un barbaro. Nel senso sociologico del termine (inteso da Baricco nel saggio “I Barbari”).
  3. La creatività non (sempre) paga.
    La creatività non paga (molto).
    La creatività crea valore.
  4. Di umiltà non è mai morto nessuno.
  5. La “regola delle tre carte” non fallisce mai: prezzo basso, qualità, breve tempo. Ogni cliente ne può scegliere solamente due.
  6. La professionalità non passa mai di moda. Come l’etica.
  7. Salvo rarissime eccezioni, i libri che promettono di insegnare a scrivere bene (o in modo creativo, efficace e altri termini simili) non sono utili quanto i romanzi degli autori che sanno scrivere per davvero.
  8. Confessioni di un pubblicitario” è l’unico libro indispensabile. Il resto è tutto bla bla bla.
  9. Le persone che insegnano ad avere successo, hanno successo?
    Altra versione: quelli che insegnano ad avere successo, hanno un portfolio di spessore?
    Altra versione ancora: giacca e cravatta non fanno di te un professionista.
  10. Se non hai mai lavorato con la stampa, smetti di fare quello che stai facendo e lavora con la stampa. Devi toccare la carta, riconoscerne lo spessore, la porosità, l’odore. Devi capire come viene assorbito l’inchiostro e guardare i font deformarsi. Litigare con un art director sulla scelta dei colori e sulla posizione del testo.
  11. Raccontare è meglio di descrivere.
  12. Molte cosa sembrano innocenti, e sono invece visual design.
  13. È sbagliato mettere a confronto la stampa con il web, è giusto, piuttosto, cercarne la relazione.
  14. La storia dell’arte insegna più di un libro didattico.
    Altra versione: Van Gogh era un grande Art Director.
  15. Gli account pensano in modo totalmente differente dal tuo, ma spesso hanno ragione loro.
  16. Ci sono decine di font stupendi, non utilizzare solo Helvetica e Trade Gothic.
  17. Inventa progetti personali di comunicazione, servono a tenere in allenamento il cervello.
  18. Internet ha una memoria migliore della tua.
  19. SEO è una parola che ti farà imbestialire e una disciplina che spesso fa a pugni con la creatività. Eppure c’è, è meglio farsene una ragione e accoglierla, ma senza esagerare. In casi di emergenza rivolgiti ad un esperto SEO (che di solito non è un SEO writer).
  20. Le idee non finiscono mai. A volte sono timide, si mimetizzano, scappano e ti prendono in giro. Stando seduto non le trovi di certo, esci fuori, fai una passeggiata nella natura, di solito si nascondono dietro gli alberi.
  21. Le idee non si riciclano, vanno nell’indifferenziata.
    Altra versione: le idee degli altri sono sempre degli altri.
  22. La pubblicità pulita vince sempre su quella volgare.
    Altra versione: “il bene che c’è nel mondo supera il male, ma non di molto.” (cit. di Zalman Schachter-Shalomi).

Dicevo, sono frasi, bozze, appunti. Niente di più. Si sa mai che tornino utili a qualcuno.

pattino sulla spiaggia di Cattolica

Ci sono storie ovunque, anche dove meno ci si aspetta. Ci sono storie persino dietro le parole. Per trovarle è necessario cercare tra i significati, i significanti e l’etimologia dei termini. Se non ci credete provate a compiere questo esercizio di scrittura: scegliete un oggetto, uno a caso, e raccontatelo. Non descrivetelo, ma raccontatelo.

Fatelo utilizzando un tono ironico e dirottatelo verso un finale nostalgico, quasi con un pizzico di solitudine. Funziona.
Se non ci credete, ecco un esempio: raccontare un pattìno.

 

Il pattìno (o moscone)

Il nome esatto è pattìno di salvataggio, probabilmente uno dei termini meno azzeccati della lingua italiana. Se non lo hai mai visto con i tuoi occhi, magari nemmeno in fotografia, se nemmeno ne hai mai sentito parlare e all’improvviso leggi questo nome da qualche parte scritto senza l’accento sulla “i”, e quindi erroneamente leggi pàttino piuttosto che pattìno, dico, che idea ti fai?

Un pàttino. Ti immagini una sorta di marchingegno da calzare ai piedi o quantomeno da agganciare alle scarpe.

Di salvataggio. Dà l’idea di velocità, forza, sicurezza, qualcosa che permette appunto di salvare una vita, anche in modo incredibile. C’è il giubbotto di salvataggio, la scialuppa di salvataggio, la zattera, il bagnino, il cane, la sagola, i cartelli di salvataggio (si, ci sono anche i cartelli, detti anche segnali di salvataggio). E più o meno, di ogni cosa riesci a farti un’idea, ma del pattino, cavolo, del pattino di salvataggio proprio no.

Nel senso, chi indosserebbe un paio di pattini per soccorrere una persona in difficoltà? Che si tratti di un disagio o un sinistro avvenuto per strada, in acqua, in montagna, in una grotta o in un tunnel, penso ci siano almeno altri cinque mezzi migliori rispetto ai pattini con le rotelle (a meno che non ci si trovi in un lago ghiacciato e a qualcuno venga la strepitosa idea di indossare i pattini da ghiaccio per raggiungere la persone/cosa/animale in difficoltà).

Ma non si tratta di un marchingegno da calzare o agganciare alle scarpe, e ha davvero poco a che fare con i piedi. E poi si pronuncia con l’accento sulla “i”, pattìno, come nella canzone Stessa Spiaggia, Stesso Mare.

…e come l’anno scorso, al mare col pattìno…

Il pattìno di salvataggio, o moscone (e anche qui, sul perché del termine moscone ce ne sarebbe da discutere), è uno straordinario strumento che permette una rapida, leggera e fulminea navigazione nei tratti brevi. I bagnini di Baywatch se lo sognano un mezzo del genere, loro sono abituati alle moto d’acqua che, riflettendo sulla comodità del salirci sopra, accenderle, cavalcarle, tuffarsi, salvare la persona in pericolo, tornare alla moto e risalirci sopra in due, si impiega molto più tempo che balzare sul moscone, dare qualche colpo di remi, tuffarsi, salvare chi è in difficoltà e condurlo fino all’imbarcazione per farlo comodamente distendere o sedere.

Quindi per comodità ed efficacia nei tratti brevi, il moscone batte la moto d’acqua.

Unico neo: qualcuno potrebbe lamentarsi del mal di mare.

Non se ne fanno quasi più. Dicono che sia antiquato, pesante, lento. Sul web pochi ne parlano, anche se lo si intravede in qualche fotografia condivisa da chi è stato al mare in Romagna. A riguardo ho trovato un interessante articolo che ne racconta la scomparsa e il declino, definendolo l’imbarcazione da spiaggia per antonomasia.

È finita, l’epopea del moscone. Non solo in questa riviera che l’ha visto nascere ma in tutte le spiagge italiane. Al lido di Venezia il noleggio di pattini e pedalò (il cugino del moscone costruito in vetroresina e spinto a pedali) è stato chiuso. Chiusi anche i cantieri delle Marche e della Liguria che producevano queste “utilitarie del mare”. L’ultimo “mosconaio” è a Cattolica. «Riusciamo a resistere – dice Elvino Magi, 70 anni – perché chi fa soccorso in mare si è accorto che il moscone in legno è più robusto e veloce di altri mezzi in vetroresina. Facciamo 120 pezzi all´anno e più dell’80% escono da qui dipinti in rosso e con la scritta “Salvataggio”».

L’ultimo mosconaio è a Cattolica, la mia città, la stessa da cui scrivo, stasera, con i gomiti appoggiati sulla scrivania Ikea il cui legno è davvero una bestemmia confronto a quello del pattìno. Sto già pensando di andare a scoprire questa piccola azienda che lavora il legno, senza sapere cosa aspettarmi, oltre al profumo di artigianato.

Qualcuno potrebbe lamentarsi del mal di mare, dicevo.

Eppure quest’oggetto lo trovo di un romanticismo infinito. Remare richiede uno sforzo fisico non indifferente, “fa allargare il torace”.

Quando a 15 anni lavoravo in spiaggia lo utilizzavo tutte le mattine, remare era come sbattere le ali, e a seconda del senso e del “tocco” riuscivo a planare sull’acqua, virare con agilità, solleticare la superficie. Lo utilizzavo ogni mattino, poco dopo l’alba, e ogni sera, appena prima del tramonto, dopo aver chiuso tutti gli ombrelloni e aspettato che tutti i turisti lasciassero il lido per tornare in albergo, impugnavo le maniglie e li trascinavo sulla sabbia. Li strappavo al mare e li adagiavo senza remi dove l’alta marea non li avrebbe potuti raggiungere.

Mi ci sedevo sopra e guardavo la mia ombra allungarsi verso la riva.
Lì finiva la giornata di lavoro. Lì finivano le estati, quelle che non tornano più. Lasciavo qualcosa, come ognuno fa a 15, 16 anni.

E ora immagina un moscone sulla sabbia e senza remi, al tramonto. Sopra c’è un ragazzo seduto, che è mille persone tutte insieme. Immagina quella scena e dimmi se davvero pensi che non sia abbastanza romantica.
E se il mal di mare non valga la pena.

break the history - Simone Masini fotografo

Cos’è che ci fa desiderare una meta turistica? È la percezione che abbiamo di essa. La percezione.

A me, ad esempio, certe città non mi ispirano. Tipo Parigi. Senza nulla togliere alla capitale dei cugini francesi, ci sono almeno 20 altre grandi città che vorrei visitare prima di finire a Parigi. Città la cui percezione è, nella mia testa, più appetitosa.

Nel mio lavoro capita spesso di dover promuovere una località, un Comune o anche una singola struttura. E tutto sta nell’idea del “promuovere”, che per me è una parola bruttina e preferisco di gran lunga “raccontare”. Raccontare una città. Questo mi piace. È il racconto che costruisce la percezione, che a sua volta diventa desiderio. Continua a leggere

Fiat è una storia, un brand in cui le famiglie si riconoscono. Un pezzo d’identità italiana che profuma di quotidiano e fatica. FCA è invece il finale, non lieto, di quella storia. E profuma di abbandono e rinuncia. Fiat non è mai stato un marchio di lusso e innovazione, come Mercedes, ma ha sempre rappresentato una certa tradizione, che viene da lontano e che ha fatto parte di milioni di persone qualunque.

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