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Arrival

Più che un film di fantascienza, Arrival è un saggio sulla comunicazione e sul linguaggio. Da un punto di vista sociologico gli alieni sono un elegante pretesto per rendere il racconto più accattivante, quasi una trovata per portarci al cinema. Poi sì, certo, la regia è grandiosa, la fotografia splendida, e la protagonista Amy Adams incanta con la sua emotività, i suoi colori e il suo essere così fisicamente perfetta per il personaggio che interpreta. Tuttavia, il vero senso della pellicola non ha a che fare con UFO ed extra-terresti, ma riguarda il nostro modo di comunicare e di rapportarci con ciò che non conosciamo.

Nei 116 minuti di durata si respira una sorta di intimità che non cade mai nella ricerca del ritmo incalzante e dell’azione. È una sorta di silenzio formale (perché anche il silenzio comunica) disturbato solo da lunghi e intensi accordi, che arrivano da lontano e lontano scompaiono, creando un contrasto sonoro che ha il compito di far concentrare il pubblico su quel singolo momento di musica.

Lo stesso fa la fotografia: la predominanza di trame fredde crea un’atmosfera di insicurezza e mistero, ma l’arancione delle tute che indossano i personaggi e il colore dei capelli dell’attrice giocano un contrasto fondamentale: danno movimento, riscaldano e rassicurano, accompagnando lo spettatore all’interno delle navicelle aliene e nel mistero più assoluto.

Arrival - UFO

I piani sequenza partono spesso dalle spalle di Amy Adams, indicando al pubblico il momento in cui immergersi nel punto di vista dell’attrice e ragionare con la sua mente. Le telecamere le ruotano attorno, riprendendo ogni sua espressione con lo scopo di farci entrare in sintonia con lei, di capire il suo linguaggio non verbale e la distanza invisibile che separa forma da contenuto.

Una distanza che non ha tempo e non ha spazio, non ha inizio e non ha fine, non si sposta in senso orizzontale ma circolare, proprio come la calligrafia degli alieni, la cui comprensione è la chiave per risolvere il mistero del loro avvento. Una distanza che ci separa da ogni cosa che non conosciamo e non comprendiamo, trasformando l’ignoto in un una minaccia. E questa è una chiara metafora del mondo di oggi.

Paradossalmente, la storia ci porta con i piedi per terra: ci suggerisce di non guardare solo verso le stelle ma di abbassare lo sguardo e di guardarci negli occhi, conoscerci e capirci per davvero, oltre le parole, oltre i gesti.

Arrival è un film di fantascienza che invece di raccontare l’universo ci offre una visione più chiara di ciò che siamo veramente.

E la fantascienza è soltanto un elemento superficiale che ricopre, con volontaria trasparenza, un paradosso più grande di quanto riusciamo ad ammettere: non siamo bravi a comunicare, non leggiamo i segnali della vita né siamo in grado di riconoscerli e decifrarli.

Arrival parla di questo. Come dicevo, più che un film è un saggio sulla comunicazione, e gli alieni sono solo un accattivante pretesto per portarci in sala, o una raffinata strategia di marketing o, ancora, un’attraente confezione della storia. Mai visto un packaging del genere.

Gustave Flaubert

Dovete immaginarvi un ometto baffuto e paffutello che per tutta la vita prende appunti. Scrive, osserva e di tanto in tanto pubblica romanzi epocali. Si appunta ciò che inclina, ferisce e incrina le infinite pieghe della vita. Lui segna tutto sui suoi taccuini. Tutto. Come se le storie e le verità di ogni giorno potessero raccontare una visione universale del mondo, rendendo giustizia – in un modo un po’ buffo – alle cose che accadono senza particolare motivo. Accadono e basta, nessuno sa il perché, ma c’è una legge da tutti condivisa che giustifica mutamento, azioni e percezioni. Una legge. Un luogo comune. Così i suoi taccuini si riempiono di parole e significati, citazioni e credenze popolari che descrivono un’approssimata verità sul mondo, talmente approssimata da essere, talvolta, precisa.

I luoghi comuni sono, in fondo, imprecise descrizioni o imbarazzanti tentativi di spiegare la vita. Flaubert non ha fatto altro che appuntarseli nei suoi diari fino a quando ha giocosamente intuito che poteva raccoglierli tutti in un affilato volume: il Dizionario dei Luoghi Comuni.

Uno strumento per stimolare la creatività

Si tratta chiaramente di un libretto stupido che, a detta di molti critici, gli ha rubato troppo tempo e gli ha impedito di concludere opere di ben altro spessore – come Bouvard e Pecuchét. Tuttavia c’è del genio, e queste cento paginette hanno lo strano potere di spronare la creatività del lettore. Dizionario dei Luoghi Comuni trova il suo habitat nella libreria di un copywriter e diventa uno strumento di lavoro di imprevedibile utilità nei momenti in cui si è alla ricerca di ispirazione.

Riporto qui alcune voci che mi hanno particolarmente colpito:

  • Allori. Impediscono di dormire.
  • Bilancio. Non quadra mai.
  • Calvizie. Sempre precoce e provocata da eccessi giovanili, oppure dal concepire pensieri elevati.
  • Corano. Libro di Maometto che parla solo di donne.
  • Economia politica. Scienza senza cuore.
  • Egoismo. Lagnarsi di quello degli altri e non accorgersi del proprio.
  • Fenice. Bel nome per una compagnia di assicurazioni antincendio.
  • Giuria. Evitare a tutti i costi di farne parte.
  • Introduzione: vocabolo osceno.
  • Metodo. Non serve a nulla.
  • Missionari. Finiscono tutti mangiati o crocifissi.
  • Mulino. Sta benissimo nei paesaggi.
  • Paura: ci dà le ali.
  • Poeta. Sinonimo di scemo, sognatore.
  • Polizia. Ha sempre torto.
  • Prosa. Più facile da fare dei versi.
  • Scroccone. Sempre dell’alta società.
  • Terra. Dire <<I quattro angoli della terra>>, dato che è rotonda.
  • Vangelo. Libro divino, sublime, eccetera.

Nelle spiegazioni dei termini si nota facilmente una pungente dichiarazione di astio nei confronti di qualcuno, forse una precisa fetta di società. In fondo, Flaubert stava sul cavolo a parecchia gente, e temo che il sentimento fosse ampiamente ricambiato. Questo piccolo dizionario, che rappresenta un momento quasi invisibile in mezzo allo spessore delle sue opere più celebri, è un gesto o un modo per zittire, umiliare e mandare a quel paese tutte le persone che non sopportava. O almeno mi piace pensarla così.

In una lettera a Louise Colet, nel 1852, Flaubert descrisse il progetto con queste parole:

Credo che l’insieme sarebbe formidabile come il piombo, bisognerebbe che in tutto il libro non ci fosse una parola mia, e che, una volta letto il dizionario, non si osasse più parlare, per paura di dire spontaneamente una delle frasi che vi si trovano.

È un modo straordinariamente affilato ed elegante per dire “zitti tutti, ignoranti, state zitti”.

la-storia-del-mondo-in-cento-oggetti

Il libro ha 700 pagine. Ci tengo a precisarlo subito. Ma ci sono molte immagini, anche questo è importante. Ed è un libro di storia, seppur scorrevole quanto un romanzo. È un’acrobazia di scrittura, un virtuosismo di stile e buon gusto, un libro che il solo pensare di scriverlo sembra una follia.

Neil MacGregor sceglie 100 oggetti esposti al British Museum (di cui è direttore) e li utilizza come leve per imboccarti l’intera storia dell’umanità che, al contrario dei libri scolastici, delle enciclopedie o delle pesantissime pagine di Wikipedia, divori con avarizia e curiosità, stupore e talvolta eccitazione.

100 oggetti, 100 capitoli lunghi una manciata di pagine, si leggono sia in ordine cronologico che sparso, uno alla volta, anche uno al giorno. Piccoli pezzetti da trangugiare in qualunque momento della giornata: prima di andare a dormire, in pausa pranzo, a colazione.

100 oggetti non particolarmente famosi. Anzi, spogliato dell’Onda di Hokusai e del Rinoceronte di Dürer, nel volume non restano altre opere “pop”, ma l’autore crede fortemente nella rilevanza storica di ogni oggetto, persino di utensili che, al mio occhio ignorante, appaiono come vecchi utensili e basta. E invece hanno un enorme potenziale narrativo. Raccontarlo è il suo modo di dar loro una seconda possibilità per essere apprezzati, ed è anche un metodo incredibilmente romantico di far aumentare le visite al museo (perché il libro è anche, e in fin dei conti, uno acuto strumento di marketing).

È come se ogni oggetto avesse una storia invisibile, ecco, MacGregor racconta quella storia. Parlare dell’Onda di Hokusai è relativamente facile, con studio e pazienza chiunque riuscirebbe a scrivere almeno una paginetta zuppa di frasi interessanti. Ma intrattenere ed entusiasmare descrivendo monete d’oro indiane, coppe neppure affascinanti rinvenute nei pressi di Gerusalemme o maschere messicane di pietra, beh, la questione si complica, e l’abilità nella scrittura non è più sufficiente. Servono nuovi occhi, capaci di vedere l’invisibile e trasformarlo in argento. Questa abilità, di cui l’autore è padrone, sarebbe un’arma invincibile nelle mani di copywriter, storyteller e pubblicitari. E questo libro, La Storia del Mondo in 100 Oggetti, è uno strumento didattico molto più efficace di guide e volumi che promettono di svelare i segreti del marketing.

Un grandioso lavoro di scrittura e ricerca

Le storie raccontate attraverso gli oggetti, ovviamente, non sono storie inventate. Sono piuttosto il risultato di una paziente ricerca che, esposta con ordine e precisione, diventa un tassello della storia del mondo. La descrizione di un oggetto, in realtà, è un pretesto usato per spiegare i cambiamenti sociali, politici ed economici delle più importanti tappe della storia umana.

Il cronometro della Beagle - La storia del mondo in 100 oggetti

L’oggetto che più mi ha colpito è il “Cronometro della Beagle”, un cronometro inglese in ottone risalente tra il 1.800 e il 1.850. È famoso perché fu consegnato alla Beagle, la nave sulla quale salpò Charles Darwin nel suo viaggio intorno al mondo, dal quale sarebbe nata la celebre teoria dell’evoluzione. Ma l’autore non si concentra su questo, preferisce invece mostrare quanto sia cambiato il mondo grazie a tecnologie come il cronometro per la navi:

Per portare a compimento la sua missione, tracciare una carta geografica della linea costiera del Sudamerica, la Beagle aveva bisogno di misurare con accuratezza latitudine e longitudine. Il cronometro permetteva per la prima volta un rilevamento cartografico degli oceani estremamente preciso, con tutto quello che ciò comportava per la creazione di rotte commerciali sicure e rapide […]. Per far fronte a possibili discrepanze, o errori, la Beagle aveva a bordo 22 cronometri: 18, compreso il nostro, erano forniti dall’ammiraglio, e 4 dal capitano, Robert Fitzroy, secondo il quale 18 non sarebbero bastati per un lavoro così lungo e importante. Dopo cinque anni di mare, gli 11 cronometri ancora funzionanti mostravano una discrepanza di appena 33 secondi rispetto all’ora di Greenwich. Per la prima volta una cintura cronometrica dettagliata avvolgeva la terra.

Il cronometro marino permetteva dunque ai marinai di trovare la longitudine con enorme precisione, e da un oggetto così piccolo è nata una vera e propria rivoluzione dei viaggi e della geografia. La cartografia moderna incomincia proprio da questa piccola scatoletta di legno con all’interno un orologio, anzi, un cronometro in ottone. Come dicevo, gli oggetti sono pretesti per raccontare una storia, un cambiamento, un tassello del passato.

È questa la magia del libro. La magia degli oggetti. È questa, come scrivevo precedentemente, la storia invisibile trasformata in argento.

Storytelling d'impresa - La guida definitiva

“Siamo tutti storyteller, con le storie degli altri”. Inizia così la prefazione che Paolo Iabichino ha curato per il manuale di Andrea Fontana, di cui ho mostruosamente storpiato il nome nel titolo di questo articolo: Storytelling d’impresa, la guida definitiva. Una prefazione che ho letto alla fine del libro, addirittura dopo i ringraziamenti (è un vizio di cui non riesco a privarmi). So bene che se si chiama pre-fazione un motivo c’è, tuttavia questa sadica decisione mi permette di scoprire dettagli non colti durante la lettura.

Leggere la prefazione all’inizio condiziona eccessivamente il punto di osservazione e crea un’aspettativa con la quale non voglio avere nulla a che fare.

Tutta questa solfa sulla prefazione per dire che, nelle prime 20 righe, Paolo Iabichino racconta uno dei motivi che hanno spinto Andrea Fontana a pubblicare questo manuale: trattare il mestiere dello storyteller con il dovuto rispetto.

Ora, non sto a raccontare chi sono queste due persone per evitare di prolungarmi, ma anticipo solo che il primo è Chief Creative Officer di Ogilvy & Mather Italia (odio le iniziali maiuscole nei nomi dei mestieri, ma lui si firma così, tutto maiuscolo), mentre Andrea Fontana è “il più rilevante esperto di Corporate Storytelling (ancora maiuscole) del nostro Paese e Amministratore (!) delegato del gruppo Storyfactory”.

Scrive Iabichino:

Mi è già capitato altrove di stigmatizzare usi e abusi di questa nuova buzz-word che da qualche anno a questa parte ha cominciato a riempire PowerPoint, strategie di marca, idee di comunicazione, convegni, corsi di formazione, job description, siti internet e, neanche a dirlo, saggi, manuali e abbecedari.

Queste righe riassumono, a mio avviso, una buona metà del libro. L’autore si impegna tantissimo nel descrivere cosa è storytelling e cosa non lo è. Paragrafi su paragrafi per dare dignità, spessore e identità ad un mestiere e ad un modo preciso di fare marketing. Non solo: tra le righe noto una magistrale intenzione di punire e mettere al tappeto tutti coloro che usano la parola storytelling senza aver la minima idea di cosa sia davvero lo storytelling.

È una buzz-word d’altronde, impossibile negarlo. E quando un vero professionista vede usare in modo improprio uno strumento (o una parola) che gli appartiene, viene colpito da un senso di disgusto. Ma Fontana non è uno che se la prende con gli storyteller improvvisati. Piuttosto, si eleva. Con fare metodico descrive ogni sfaccettatura del suo lavoro in un modo così preciso che nessun altro “collega” riuscirebbe a fare. Si eleva.

La prima metà del volume serve proprio a questo: far capire che non bastano una fotografia e un hashtag per parlare di storytelling, che tra raccontare e vendere raccontando c’è una differenza decisiva e che c’è un mondo sconfinato nascosto dietro questa buzz-word. Un mondo che va studiato, analizzato, capito e ponderato. Un mondo che si traduce in opportunità di lavoro, ricavi, valore.

Il messaggio che traspare è che

non basta un corso di visual storytelling per potersi definire storyteller, e nemmeno alla fine di questo manuale sarete in grado di fare storytelling. Workshop e libri sono solo tappe di un percorso di studio molto lungo, complesso e ricco di imprevisti.

Ma non è tutto qui, ovviamente.

Nella seconda metà del volume, più o meno dai capitoli 9 e 10, si inizia a “fare sul serio”. Andrea Fontana ci aiuta a capire tutte le competenze indispensabili per realizzare un racconto, descrivendole nel dettaglio una per una (voi che dite di fare storytelling, le possedete?); ci aiuta a capire come quantificare un progetto; si sofferma con passione ed entusiasmo nelle modalità di costruzione di un racconto d’impresa e descrive minuziosamente tutte le variabili e le difficoltà che ha incontrato nel suo percorso professionale. E in questo riconosco un vero valore aggiunto.

Le pagine si impreziosiscono con brevi box riassuntivi, case study di progetti vissuti in prima persona dall’autore (cosa non da poco, perché è fin troppo facile parlare dei successi degli altri) e di grafici e tabelle che aiutano a comprendere le metodologie di lavoro.

Storytelling d’impresa: cosa mi piace del libro

Tra i tanti motivi per cui lo consiglierei a colleghi e professionisti del mondo pubblicitario, spicca la chiarezza con cui l’autore tratta ogni argomento. Se vuoi capire cos’è lo storytelling e cosa ti serve per poter creare o anche solo avere voce in capitolo riguardo un argomento tanto chiacchierato quanto incompreso, beh questo è il manuale che fa per te. Altri punti di forza sono le micro interviste a figure professionali di rielievo che si sono affidate allo storytelling e alla creatività di Storyfactory. Non solo, il percorso di lettura è magistrale: man mano che si scorrono le pagine crescono l’entusiasmo e la voglia di arrivare alla fine per capire come si possano davvero realizzare progetti di così elevata qualità.

Cosa non mi piace

I grafici e le tabelle. O meglio, il modo in cui questi elementi sono rappresentati. Per quanto siano fondamentali per la comprensione degli argomenti trattati, risultano spesso graficamente complessi e, soprattutto, manca un disegno “madre” in grado di coordinarne il loro layout.

Non mi piace nemmeno la copertina, ma questo mi capita con il 99% dei libri editi da Hoepli (ci tengo a sottolineare, però, l’umiltà del responsabile di questa collana, Luca Conti, che nella prima pagina chiede ai lettori consigli su come migliorare il proprio operato). Per un gusto personale, inoltre, non amo particolarmente la moltitudine di inglesismi incastonati nelle pagine, tra le quali si ripetono decine di volte i termini “management”, “skill” e “stakeholder” che, al contrario di “storytelling”, non hanno particolari problemi ad essere scritti in italiano.

Non mi fa impazzire nemmeno il sottotitolo “La guida definitiva”, a causa della parola “definitiva”, di cui ho ampiamente parlato in un post dedicato proprio agli aggettivi superflui. Tuttavia, capisco il motivo per cui Fontana ha utilizzato tale aggettivo. Questi sono ovviamente giudizi personali, criticabili milioni di volte.

Le storie finiscono

Ho avuto il piacere di conoscere Andrea Fontana, a Pesaro, qualche anno fa. Abbiamo preso un caffè poche ore prima di un suo intervento in pubblico – mi pare si trattasse di un convegno riguardo il futuro del marketing e della comunicazione, o qualcosa del genere. Un caffè, pochi minuti insieme nei quali con tono grave e deciso mi ha parlato di quanto fosse importante scrivere, leggere e riscrivere, di quanto lo storytelling avesse bisogno di competenze e lungimiranza.

Di quanto la mia giovane carriera da copywriter dovesse sfamarsi continuamente di storie di vita e racconti d’impresa per continuare a crescere in modo sano, etico e professionale. Quei pochi minuti trascorsi insieme con i gomiti appoggiata al bancone di un bar hanno un valore enorme ancora oggi. Mi aiutano a distinguere le storie che sono storie e basta da quelle che sono, invece, storytelling.

E questa distinzione è solo il punto di partenza, la prefazione di un lungo cammino, di un intenso racconto che ha i suoi protagonisti, gli antagonisti, le difficoltà e poi, inevitabilmente, un finale. Dolce, amaro, romantico, ambiguo,  drammatico, imprevedibile, inverosimile, divertente, triste, grottesco o addirittura trionfale.

Sette brevi lezioni di fisica

Discipline come la fisica non sono facili da capire, soprattutto durante gli anni liceali, quando i ragazzi pensano alle ragazze, ai motorini, alle uscite con gli amici, alla musica, allo sport e ad altre mille distrazioni, mentre le ragazze hanno a che fare con una più ampia lista di complessità che io non sono certo in grado di spiegare.

Lo studio è importante, tutti i giovani lo sanno, ma nella piramide delle esigenze spesso viene classificato nei gradini più bassi, proprio in fondo in fondo.

Discipline come la fisica ti fanno perdere un sacco di tempo, o almeno ne sei convinto quando la materia proprio non ti interessa, o non la capisci, o non c’è un professore capace di fartene innamorare. Sette brevi lezioni di fisica risponde a queste ultime tre considerazioni.

Il breve saggio è scritto da un professore di fisica che invece di scrivere, descrivere e insegnare, preferisce raccontare. E questo già mi piace da morire.

Con un lessico semplice, scorrevole e colloquiale, Carlo Rovelli cerca di farti entrare nell’affascinante mondo della scienza attraverso una porta secondaria, una di quelle che conducono nel dietro le quinte della questione, dove ti trovi faccia a faccia con le star, gente come Einstein, per citarne uno a caso.

La scienza, prima di essere esperimenti, misure, matematica, deduzioni rigorose, è soprattutto visioni.

Sette brevi lezioni di fisica raccoglie tutto quello che serve per innamorarsi della materia. Chiunque può leggerlo e capirlo, anche chi non ha particolari basi scientifiche.

Certo, tra le pochissime pagine si incontrano momenti più complessi che richiedono forse una rilettura o un approfondimento, ma si scoprono, molto più spesso, paragrafi chiari e scorrevoli che ti fanno letteralmente immaginare il funzionamento del mondo: la gravità, i buchi neri, lo spazio che si piega, il tempo che scorre più velocemente o addirittura Einstein che fissa una lavagna piena di equazioni e all’improvviso cancella tutto per scriverne una soltanto, unica, semplice e riassuntiva.

Lo stile con cui la realtà viene raccontata costruisce nell’immaginario del lettore una chiara visione degli argomenti: la maestria di Rovelli sta proprio nel riuscire a fare immaginare con precisione le cose che spiega, un po’ come accade guardando le trasmissioni scientifiche su Focus o Discovery Channell.

Leggere di fisica ci permette di vedere la fisica.

È questa la vera meraviglia del libro. Trasformare le frasi in immagini, mica semplice, soprattutto pensando alla complessità dell’argomento. Mi riesce impossibile non riportare alcuni frammenti concisi e meravigliosi come questo:

è come se Dio non avesse disegnato la realtà con una linea pesante, ma si fosse limitato a un tratteggio lieve.

O addirittura:

La fisica apre la finestra per guardare lontano. Quello che vediamo non fa che stupirci. Ci rendiamo conto che siamo pieni di pregiudizi e la nostra immagine intuitiva del mondo è parziale, parrocchiale, inadeguata. Il mondo continua a cambiare sotto i nostri occhi, man mano che lo vediamo meglio.

A chi è rivolto questo libro?
Per assurdo, lo consiglierei innanzitutto a tutti i docenti di qualunque scuola, facoltà e disciplina. Ogni insegnante ha il dovere, a mio avviso, di far innamorare gli studenti della materia che gli compete.

Altra fetta di target riguarda chi, come me, al liceo se ne fregava della fisica. Leggere il primo capitolo farà rimpiangere di non averla studiata abbastanza.

Infine, coloro che guardando Interstellar si sono resi conto di non aver capito granché della curva spazio temporale, – ma ne sono comunque rimasti affascinati -, tutti quelli che si incantano davanti i programmi scientifici in tivù e tutti quelli che danno sempre una possibilità ad un libro completamente differente dalle altre letture presenti nella libreria di casa, ecco, questo libro è anche per loro.

flow

Alessandro Baricco. O lo ami o lo odi. Al di là della sua ricerca, dello stile, del talento, al di là di molte cose collaterali allo scrivere – leggere, pensare, tacere, dosare la punteggiatura, calibrare il ritmo -, a molti aspiranti scrittori, e a parecchi assillanti lettori, Baricco sta proprio sulle balle.

Io lo odio. Perché è stato il primo autore che mi ha fatto provare una certa vertigine, di quelle che si possono avvertire anche stando comodamente seduti sul divano con un romanzo tra le mani. Un senso di vertigine. Che in realtà è qualcosa di grandioso,un’emozione incerta e fragile, questione di un attimo, che avviene solo quando uno scrittore decide di sedersi e scrivere con l’intento di compiere un gesto grandioso.

Un gesto perfetto. Scrivere.

E non è una questione di ricerca stilistica, non c’entra se poche righe o poche pagine siano destinate a diventare un romanzo, un copione teatrale o carta stracciata. È una questione di perfezione, ricerca della perfezione. Dell’assurdo, dell’invisibile, del quotidiano.
Lo odio perché mi ha fatto provare quella vertigine che non trovo più in tutti i libri. Non più in tutti. E il leggere è diventato per me una ricerca di quella sensazione, una furiosa ricerca, una dipendenza.

Ci aspettiamo un sacco di cose dalla vita, non abbiamo combinato niente, stiamo scivolando giù nel nulla e lo stiamo facendo in un buco di culo dove una splendida cascata ogni giorno ci ricorda che la miseria è un’invenzione degli uomini e la grandezza il normale andazzo del mondo.

Smith & Wesson si lascia leggere in un paio d’ore. Scorre. È un canovaccio teatrale, magari qualche attore superbo e una scenografia magica potrebbero trasformarlo in un capolavoro. Scorre.

Ci sono i personaggi alla Baricco, questa volta forse un po’ ruffiani.

E le frasi ammalianti di Baricco, quelle che hanno piegato le orecchie delle pagine di Novecento e tinto di inchiostro e grafite quelle di Oceano Mare. C’è una squisita ironia, un ottimismo che rema contro la solitudine, la noia e l’ambizione, c’è la voglia di non arrendersi mai. Una manciata di pagina sul finale racchiudono il senso della vita, e il resto è un contorno, decine di pagine che preparano il lettore all’ascolto di un preciso messaggio: vivere.

Se non ci fossero tutte quelle frasi di contorno, tutte quelle pagine a tratti buffe a tratti malinconiche, se non ci fossero quelle, la storia sarebbe ferma, sarebbe un lago. E invece Smith & Wesson è un fiume, scorre. E ad un certo punto c’è anche una cascata. Gigantesca.

her, il film

Her di Spike Jonze verrà ricordato per tre cose: i dialoghi, le pause e la fotografia.

La cosa davvero pazzesca, in termini di comunicazione, è che nel film i dialoghi sono sempre presenti, e la scena si muove con la loro intensità e la frenesia, con la profondità e la dolcezza. E quando i dialoghi si fermano – come se dovessero riposare anche loro – il film frena bruscamente e quasi si interrompe, concedendo a quella pausa un’importanza sublime. Perché anche le pause comunicano.

La musica, poi, entra in punta di piedi, con pochi e lunghi accordi, che quasi non si notano, perché il pubblico deve avere tempo di riflettere sui significati del film. Continua a leggere

Stoner - John Williams

Ci sono libri che vantano storie avvincenti e personaggi epocali, romanzi che non ti lasciano mai più in pace, storie che ti investono e attraversano, e ti stendono a terra, lasciandoti lì, tremolante, con i brividi e la lingua serrata tra i denti.

Stoner di John Williams non ha niente di tutto questo. Non ha una storia incalzante, di quelle che non riesci ad abbandonare nemmeno per mangiare o per dormire. Non ha personaggi poi così anormali o particolari, niente di caratteristico o straordinario.

Stoner parla di una vita qualsiasi. Opaca e tiepida, senza particolari sapori, odori o momenti esaltanti. È piuttosto la storia di un uomo qualunque e della tragica mediocrità da cui non riesce a fuggire.

Ci sono i leccapiedi, gli egocentrici, i conservatori, gli apatici e gli approfittatori, tutta gente che in un modo o nell’altro si incontra nelle mille pieghe della vita. Il protagonista, William Stoner, è uno di quelli che passano inosservati. Continua a leggere