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fake news

La carota arancione è un’invenzione dell’uomo. I colori originari di questo tubero sono il viola e il bianco, ma in Olanda, nel diciassettesimo secolo, la famiglia Orange chiese ai propri agronomi di creare in laboratorio una carota arancione per omaggiare i colori della casata. Per un motivo pazzesco, questo artificio è diventato nel tempo una cosa talmente diffusa che oggi, se provassi a servire ai miei commensali una carota viola, di certo mi guarderebbero con sospetto.

Secondo te, questa storia è vera?

Le informazioni sono ancora insufficienti per poter dare una risposta.

Se però aggiungessi che questa storia l’ho letta su Cromorama, un saggio scritto da Riccardo Falcinelli, ecco che diventerebbe più facile trarre una prima e superficiale conclusione.

Tutto questo per dire che oggi leggiamo e ascoltiamo così tante cose verosimili, potenzialmente false, o spesso completamente errate, che è diventato obbligatorio verificare la veridicità delle informazioni. Approfondire è sempre necessario, e per chi si occupa di comunicazione è addirittura un dovere.

È tutta colpa delle fake news, di questo fenomeno che ha travolto tutti i media di comunicazione, da quelli digitali a quelli tradizionali, rovesciandone l’autenticità e scoperchiando una montagna di notizie imprecise, false e grossolane.

Siamo cresciuti con la convinzione che i libri cartacei contenessero certezze e ci siamo posti dei dubbi solo con l’arrivo della rete. Da Wikipedia a Yahoo! Answers ne abbiamo lette di cavolate, per non parlare di ciò che troviamo ogni giorno nel feed di Facebook.

In realtà, le fake news non sono un fenomeno da social, o meglio, grazie ai social sono uscite allo scoperto.

Se ci impegnassimo ad approfondire molti argomenti che abbiamo studiato o che crediamo di conoscere, se analizzassimo con attenzione il sapere del secolo scorso, incontreremmo migliaia di sorprese, storie vero-false ed incredibili semplificazioni della realtà. Ad esempio…

Quant’è grande il sistema solare?

Banalmente, per rispondere a questa domanda basterebbe fare una breve ricerca su Google, dove troveremmo inoltre molte immagini che raffigurano l’ordine del sole e dei pianeti. Ecco, tutte quelle illustrazioni, o render, sono solo raffigurazioni verosimili del sistema solare, disegni indicativi talmente imprecisi da risultare più falsi che veri.

Mi spiego: non esiste al mondo un modello in scala del sistema solare. Questo perché la distanza tra i pianeti è talmente ampia, incredibilmente ampia, che se disegnassimo la Terra grande quanto una piccola moneta, servirebbero chilometri di carta (o di monitor) per completare una rappresentazione in scala del sistema solare.

Nella monumentale opera “Breve storia di (quasi) tutto”, Bill Bryson scrive:

Non avete mai visto una mappa del sistema solare disegnata neppure lontanamente in scala. Nella maggior parte delle carte scolastiche i pianeti si susseguono uno dietro all’altro a intervalli ravvicinati, ma questo non è che uno stratagemma necessario a farli entrare tutti nello stesso pezzo di carta. […] Le distanze sono talmente enormi che disegnare il sistema solare in scala è impossibile. Anche inserendo nei libri scolastici moltissime pagine ripiegate […] non ci si avvicinerebbe all’obiettivo. In un diagramma in scala, con la terra ridotta al diametro di un pisello, Giove dovrebbe essere posto a oltre 300 metri dal nostro pianeta, e Plutone sarebbe a 2 chilometri e mezzo (per giunta sarebbe all’incirca delle dimensioni di un batterio, quindi impossibile da vedere).

Dunque la cosa è abbastanza complicata, e i libri si affidano ad immagini incredibilmente indicative, sia nelle proporzioni che nelle distanze. Si tratta dunque di immagini verosimili, imprecise quanto una comune notizia che cestiniamo come falsa.

sistema solare fake

La difficoltà di rappresentare con precisione le cose immensamente grandi la riscontriamo anche con le cose immensamente piccole. Prendiamo l’atomo. Chi sa disegnare un atomo? È luogo comune immaginarlo simile ad un uovo, con un nucleo all’interno. Nei libri lo troviamo sferico e trasparente, ma siamo sicuri che sia davvero così? O forse la sua rappresentazione è solo una riproduzione indicativa per farci capire la sua composizione?

Turismo, marketing e fake news

Di cose imprecise e verosimili il mondo ne è pieno. La vita ne è piena, e i professionisti del marketing ne producono in continuazione e le usano come esche per vendere e sedurre (d’altronde, quando andiamo a pesca costruiamo dei fake per fare abboccare i pesci).

Faccio l’esempio di un eclatante caso turistico presente nella zona in cui abito: il famoso castello di Gradara, un’affascinante e imponente rocca medievale che divide i confini dell’Emilia Romagna da quelli delle Marche. Si narra che tra le sue mura sia avvenuta la tragica storia di Paolo e Francesca (chi ha letto la Divina Commedia si ricorderà forse dei due innamorati).

Castello di Gradara - Fake

Questa cosa del “si narra” è già un indizio: non ci sono prove effettive che i due si siano amati proprio lì. Anzi, alcuni documenti affermano che il luogo preciso sia da tutt’altra parte. Ma durante le visite guidate, ovviamente, le guide dicono sempre “in queste stanze si sono amati Paolo e Francesca”, facendoti immergere in un’atmosfera romantica. E tu, felicemente, ci credi. Anche se non è poi così vero, ci credi, perché l’emozione è reale. Un po’ come accade con il mostro di Loch Ness che continua ad essere avvistato.

Dietro tutto questo ci sono delle forze che ci spingono a credere ad una determinata storia e ci tengono saldamenti ancorati nel mondo del vero-finto.

Nel piccolo saggio “Io credo alle sirene” di Andrea Fontana, c’è un capitolo che parla del “blending cognitivo“, un’esperienza che nel libro è descritta così:

Il blending ci porta a mescolare insieme fattualità e contro-fattualità quando leggiamo una fake news e ci diciamo: “non è vera ma ci credo”. O ancora meglio: ignoriamo completamente che sia fake e la cataloghiamo immediatamente come oggettiva, anche se non lo è. Senza il blending non ci sarebbe riconoscimento della nostra esistenza.

Tornando a Gradara, per fare i pignoli, pare che nemmeno il castello sia poi così autentico. O meglio, si tratta di una ristrutturazione: durante i bombardamenti della prima guerra mondiale è stato distrutto in buona parte, e tutto ciò che vediamo oggi è una ricostruzione, identica al passato, ma pur sempre una ricostruzione. In architettura si dice “dov’era, com’era”. Quindi le sale interne, i mobili, i baldacchini e le mura, non sono affatto medievali. Ma in fondo, dopo una meravigliosa visita guidata dove ti sei innamorato degli ambienti e delle torri, beh, che te ne frega se sia tutto autentico oppure no. Quello che hai visto è abbastanza credibile, abbastanza reale.

Ora pensa a quello che hai letto in questo articolo: la carota viola, il sistema solare e il castello di Gradara. Pensi che sia tutto vero quello che ho scritto? È possibile che ti abbia raccontato qualche balla o che abbia romanzato qualcosina?

Consiglio: non credere a tutto ma chiediti se quanto di ciò che hai letto ti sembra realmente possibile. Forse andrai a verificare qualcosa ma ti prego, non farlo solo su Google, scava più a fondo e fatti una tua idea. Tieni a mente questo approccio e questo tipo di ricerca, ti aiuteranno a non cadere nelle trappole del marketing, nelle promesse pubblicitarie e nelle affermazioni dei politici. Scava a fondo e tieni bene a mente che

vero e falso non sono i due estremi di un interruttore, ma sono, piuttosto, gli estremi di un potenziometro, grazie al quale è possibile calibrare il rapporto tra vero e falso.

Dobbiamo cercare e informarci di più, verificare le fonti e dubitare persino di quello che sappiamo. Come Fox Mulder e Dana Scully, dobbiamo convincerci che la verità è ancora là fuori.

La regola del gratta e vinci - copywriter

Gratta e vinci. È semplice, breve, immediato. Perfetto. Prova a pensarlo diversamente: gratta per vincere; gratta e scopri se hai vinto; gratta e vincerai qualcosa. Nessuna di queste formule funziona. “Gratta e vinci” invece si. È una questione di precisione o, meglio ancora, di soppesare le parole giuste e scegliere il tempo verbale adatto.

Per assurdo, la frase “Ti darò un pugno”, non fa poi così paura perché il futuro esprime un certo senso di incertezza, mentre “Ti do un pugno” è tutt’altra cosa.

Il presente e l’imperativo sono forti, decisi, convincenti. Non è un caso che siano i più utilizzati nel linguaggio pubblicitario: “La lavatrice lava di più con Calfort”, “La scarpa che respira”, “Just do it”, “Ascolta la tua sete”, “Un diamante è per sempre” e così via. Questi due tempi verbali trasformano una frase in una promessa o in un messaggio pubblicitario, che a pensarci bene sono la stessa identica cosa.

Rassicurare

pubblicità PayPal

 

Questa pubblicità online di PayPal acclama:

Basta esitare. Se non ti vanno bene, rimandale indietro. Ti possiamo rimborsare i costi di reso.* Attiva il servizio gratuito con PayPal.

L’imperativo “attiva il servizio gratuito” è deciso e diretto ma quel “Ti possiamo” distrugge l’intero messaggio. Nel senso: come sarebbe a dire “ti possiamo”? Esiste dunque una possibilità che io non venga rimborsato? Eccome se esiste! Dunque PayPal comunica che attivando il servizio gratuito si accende una vaga possibilità che tu possa ottenere un rimborso. Nessuna garanzia, nessuna promessa, ma solo una vaga speranza che, forse, nella migliore delle ipotesi, qualcuno potrebbe venire rimborsato di qualche centesimo.

Dal momento che in fondo alla frase appare un asterisco che rimanda alle condizioni (obbligatorie), sarebbe meglio scrivere

Rimborsiamo le spese di reso.

Questo è deciso, diretto, non lascia scampo alle incertezze (a quelle ci pensa l’asterisco che rimanderà a tutte le condizioni necessarie per ottenere il rimborso, un po’ come fanno le banche).

Meglio un uovo oggi che una gallina domani

Il futuro è la morte della pubblicità, l’esatto contrario di una promessa. Copio e incollo questa frase dalla brochure di una nota compagnia telefonica:

Con il pacchetto ADSL Plus potrai navigare più velocemente e in totale sicurezza.

Come sarebbe a dire “potrò”? Con quello che mi costa esigo che il servizio acquistato faccia esattamente le cose che mi sono state raccontate. Il futuro “potrai” esprime una condizione, che potrebbe accadere ma non è detto che lo faccia, anzi, in un periodo di estrema diffidenza io stento a credere alle promesse della pubblicità. Peggio del futuro c’è solo il condizionale, ma credo che a nessuno venga in mente di scrivere “Con il pacchetto ADSL Plus potresti navigare più velocemente e in totale sicurezza”.

Se fossi il copywriter di quella compagnia telefonica, andrei dall’art director a puntualizzare che, a mio avviso, sarebbe (ecco qui uso il condizionale) meglio scrivere:

Con il pacchetto ADSL Plus navighi veloce e sicuro.

Ma ovviamente con i se e con i ma non si vincono le guerre e non si scrivono headline migliori di altri.

Ad ogni modo, la regola del gratta e vinci è un primo appunto dal quale iniziare una comunicazione chiara e concisa. Poi bisogna lavorarci su: scrivere, cancellare, riscrivere, ascoltare, disegnare, litigare con l’account per poi trovare, dopo lividi e fatiche, la soluzione migliore (che solitamente non è mai la prima).

Riassumendo, la regola del gratta e vinci dice che:

  • un messaggio chiaro e memorabile è composto da pochissime parole che inducono all’azione;
  • l’azione è una promessa, e viene rassicurata dai tempi verbali presente e imperativo;
  • il futuro fa a pezzi la promessa.

Un copywriter davvero bravo (che non sono io) può anche fare a meno dei verbi per fare una promessa davvero rassicurante. Come? Lo slogan storico di Martini è forse il più alto esempio:

No Martini, no party!

Quattro parole, di cui due ripetute, zero verbi e una semplicità disarmante nel descrivere la promessa del brand. Chapeau.

Logo Design Love

Come lettura natalizia ho scelto Logo Design Love di David Airey, perché:

  1. la copertina è figa;
  2. il logo è figo;
  3. il sottotitolo è una promessa.

Queste tre motivazioni mi bastano. E si, scelgo anche i libri in base alla loro copertina. Sono un pubblicitario, il primo che ci casca (anche volontariamente) al packaging o alle strategie di marketing.

Logo Design Love è disponibile sia in versione digitale che cartacea, tra le due ho scelto la seconda, perché un libro che parla di design lo devo “sentire” tra le dita, ne devo osservare le forme e il modo in cui la carta assorbe l’inchiostro. Cose così, un po’ maniacali, ma la comunicazione è fatta anche di questo.

La guida, o almeno così si autodefinisce, parla del processo creativo necessario per la realizzazione di un logo. Analizza le caratteristiche che lo rendono unico, distintivo e facilmente riconoscibile. Al contrario di molti altri libri del suo genere, questo arriva davvero al cuore della questione:

Anyone can design a logo, but not everyone can design the right logo. A succesful design may meet the goals set in your design brief, but a truly enviable iconic design will also be simple, relevant, enduring, distinctive, memorable and adaptable.

Ma come si crea il giusto logo per un’azienda?

David Airey non si sofferma sui soliti consigli da quattro soldi come “sii creativo”, “pensa in modo trasversale” ecc., ma affronta ogni fase di progettazione con meticolosa attenzione. Parla di tempistiche, tradizione, mode, obiettivi, significati e significanti, mostrando casi di successo calzanti e originali (non i soliti Nike, Apple e IBM).

In questa guida per la realizzazione di un logo, si trovano anche le bozze di numerosi progetti di identità iconica, grazie alle quali è possibile scoprire l’intero processo creativo in cui i graphic designer si sono cimentati. In più non mancano le tante applicazioni su media cartacei e digitali, o addirittura su prodotti e superfici di differenti materiali, che mostrano quanto sia importante adottare un pensiero che unisca sia il mondo dei colori che quello del bianco e nero – due mondi che, secondo l’autore e anche il sottoscritto, sono imprescindibili e collaterali.

Il libro non è disponibile in italiano, ma solo in inglese (originale), tedesco, giapponese e altre traduzioni che trovate nel sito web Logo Design Love Book. La versione inglese in mio possesso è di facile comprensione e strutturata esclusivamente da periodi brevi, talvolta brevissimi, “quasi” a prova di italiano medio. Infine, non mancano le frasi memorabili che rendono grandioso il mestiere dei pubblicitari, tra queste:

At some point in the future, you might find yourself giving your client a lesson about design – perhaps about typography or print quality, for example. But first it’s important that you learn all you can about your client.

O anche:

To be a good designer you need to be curious about life; the strongest ideas are born from our experiences and the knowledge we gain from them. The more we see and the more we know, the greater the amount of fuel we have for generating ideas.

Gli ultimi due capitoli sono delle vere chicche: “31 pratical logo design tips” racchiude consigli e trucchetti del mestiere, mentre “Beyond the logo” conclude la guida con una galleria di progetti che ispirano e motivano il lettore.


 

Approfondimenti:

Sito web di David Airey

Blog di Logo Design Love

Sito web dedicato al Logo Design Love Book

appunti di un copywriter

Le pagine delle mie Moleskine sono inzuppate di inchiostro e grafite. Frasi, pensieri, giochi di parole, appunti, nomi, disegni, briefing, esercizi per stimolare la creatività, cose che di solito hanno a che fare con il mio lavoro. Ci sono un sacco di annotazioni che si ripetono, scritte più volte da un taccuino all’altro, cose appuntate una volta, riaffiorate in altri fogli e diventate motivo di una nuova annotazione.

Se mi tornano a balenare nella mente, e le riappunto sul taccuino, dev’essere per un qualche motivo che, di preciso, non saprei descrivere, ma sono convinto, abbastanza convinto, che mi serviranno sempre.

Volevo scriverne un testo in prosa, ma mi rendo conto che è più semplice utilizzare un elenco puntato: riportandole in rispettoso ordine cronologico, ne trovo un senso che spiega il mio modo di operare nel mondo pubblicitario.

Effettivamente non ho mai redatto un manifesto personale, da rispettare e da consigliare a colleghi, clienti, amici o persone che capitano per mille motivi su questo sito o nella mia vita.

Chiamarlo manifesto è fuorviante. Ma di certo non si tratta né di regole né di consigli. Sono, piuttosto, appunti.

Appunti di un copywriter

  1. L’ego va messo da parte, sempre. I clienti non pagano per la tua bravura, pagano per i risultati.
  2. Il copywriter non è un barbaro. Nel senso sociologico del termine (inteso da Baricco nel saggio “I Barbari”).
  3. La creatività non (sempre) paga.
    La creatività non paga (molto).
    La creatività crea valore.
  4. Di umiltà non è mai morto nessuno.
  5. La “regola delle tre carte” non fallisce mai: prezzo basso, qualità, breve tempo. Ogni cliente ne può scegliere solamente due.
  6. La professionalità non passa mai di moda. Come l’etica.
  7. Salvo rarissime eccezioni, i libri che promettono di insegnare a scrivere bene (o in modo creativo, efficace e altri termini simili) non sono utili quanto i romanzi degli autori che sanno scrivere per davvero.
  8. Confessioni di un pubblicitario” è l’unico libro indispensabile. Il resto è tutto bla bla bla.
  9. Le persone che insegnano ad avere successo, hanno successo?
    Altra versione: quelli che insegnano ad avere successo, hanno un portfolio di spessore?
    Altra versione ancora: giacca e cravatta non fanno di te un professionista.
  10. Se non hai mai lavorato con la stampa, smetti di fare quello che stai facendo e lavora con la stampa. Devi toccare la carta, riconoscerne lo spessore, la porosità, l’odore. Devi capire come viene assorbito l’inchiostro e guardare i font deformarsi. Litigare con un art director sulla scelta dei colori e sulla posizione del testo.
  11. Raccontare è meglio di descrivere.
  12. Molte cosa sembrano innocenti, e sono invece visual design.
  13. È sbagliato mettere a confronto la stampa con il web, è giusto, piuttosto, cercarne la relazione.
  14. La storia dell’arte insegna più di un libro didattico.
    Altra versione: Van Gogh era un grande Art Director.
  15. Gli account pensano in modo totalmente differente dal tuo, ma spesso hanno ragione loro.
  16. Ci sono decine di font stupendi, non utilizzare solo Helvetica e Trade Gothic.
  17. Inventa progetti personali di comunicazione, servono a tenere in allenamento il cervello.
  18. Internet ha una memoria migliore della tua.
  19. SEO è una parola che ti farà imbestialire e una disciplina che spesso fa a pugni con la creatività. Eppure c’è, è meglio farsene una ragione e accoglierla, ma senza esagerare. In casi di emergenza rivolgiti ad un esperto SEO (che di solito non è un SEO writer).
  20. Le idee non finiscono mai. A volte sono timide, si mimetizzano, scappano e ti prendono in giro. Stando seduto non le trovi di certo, esci fuori, fai una passeggiata nella natura, di solito si nascondono dietro gli alberi.
  21. Le idee non si riciclano, vanno nell’indifferenziata.
    Altra versione: le idee degli altri sono sempre degli altri.
  22. La pubblicità pulita vince sempre su quella volgare.
    Altra versione: “il bene che c’è nel mondo supera il male, ma non di molto.” (cit. di Zalman Schachter-Shalomi).

Dicevo, sono frasi, bozze, appunti. Niente di più. Si sa mai che tornino utili a qualcuno.

definizione di marketing

Esistono un sacco di regole per tirare a canestro. Per tirare bene. Che poi ognuno le personalizza a modo suo, si, ma grossomodo tutto si riduce ad una serie di gesti, movimenti e tanta concentrazione. Precisione.

A qualcuno viene naturale, così, prendere la palla in mano e fare canestro senza sapere nulla di tecnica e postura. Nessuna sbavatura, senza neppure toccare il cerchio. Quei tiri che senti unicamente il “flap” della palla in rete. Flap.

Quello è il talento. Potrebbe anche essere una grandissima botta di culo, ma nel 99% dei casi è talento, eccome.

Se ci spostiamo dal campo di pallacanestro a quello della pubblicità, quel centro perfetto, flap, quel tipo di talento, diventa una grande idea.

Una grande idea può venire a chiunque, magari anche per culo. Ma se sono due, tre, dieci o ancora di più, allora chiamale come ti pare ma non è questione di fortuna, non è culo, è talento.

Poi ad un certo punto le idee da sole non bastano più. Sul campo da gioco si incontrano avversari bravi a difendere il canestro e ad oscurarti la visuale, il cerchio non lo vedi più, e anche se non ci capisci niente di postura e tiro hai bisogno di guardare il cerchio, altrimenti dove cavolo tiri. Non è una domanda, dove cavolo tiri.

Questa situazione è parte del gioco della pallacanestro, magari il cerchio non lo vedi sempre, o non lo metti a fuoco come vorresti, ma c’è il tabellone.

Il tabellone è la pubblicità.

Oh si, grande e rettangolare, lo vedi di sicuro appena ne hai bisogno. Ed è molto probabile che da qualunque punto del campo, soprattutto sottorete, quando la prospettiva si fa verticale e i difensori avanti a te coprono spiragli e speranze, è molto probabile che tu veda almeno un angolo del quadrato disegnato dentro al tabellone.

Per una legge affascinante e geometrica, quando ti trovi particolarmente vicino al canestro e lanci la palla all’interno del quadrato, è molto, molto probabile che la palla finisca in rete. Non sarà più un centro perfetto, ma un canestro di sponda, furbo. Niente flap, ma rumori di rimbalzo contro diversi materiali tra cui il ferro del cerchio.

Quindi, se il tabellone è la pubblicità, allora il quadrato del tabellone è il marketing. Non è una cosa che puoi insegnare all’università, no, ma se dovessi spiegare nel modo più semplice cos’è il marketing ad una persona che non ne vuole sapere di inglesismi e paroloni complicati, ecco, a questa persona direi che

il marketing è il quadrato del tabellone da basket.

In una partita di pallacanestro non puoi permetterti di puntare esclusivamente sull’abilità di compiere decine e decine di centri perfetti, è come pensare di cavartela nel mondo della comunicazione solo con delle buone idee.

Per vincere serve sinergia tra il talento e la strategia. Canestri perfetti e altri di rimbalzo contro il tabellone. Questo serve. E anche il gioco di squadra, ovviamente.

Naming 40 years Golf

C’è chi da i numeri e chi i nomi. Di solito, questa seconda eventualità, spetta ai copywriter. Nomi di aziende, di prodotti, di servizi, tutte cose che hanno a che fare con il mondo del commercio e della comunicazione, non della vita privata (nella quale ogni persona decide nomi di cose, oggetti e animali).

Restiamo al copywriter e al naming, la difficoltà è assegnare un nome alle cose, un nome che deve piacere, essere riconosciuto, divertire, convincere, stupire, stuzzicare, rappresentare, descrivere e raccontare, fare cioè quello che è previsto nel briefing.

Non ci sono nomi belli o brutti, ci sono nomi che funzionano o non funzionano.

In pubblicità, i nomi non sono un’opinione. Quello del tuo gatto lo è, quello della tua barca o del tuo peluche lo sono, ma quelle sono cose tue, devono renderti felice, non farti vendere. Questo porta molte persone, solitamente copywriter e altre figure del mondo pubblicitario, a consultare manuali sul naming e post-tutorial sui vari blog online. Il mio personalissimo parere è di saltare tutta questa roba (o almeno un bel 99%), e prendere per le mani un catalogo di un brand di automobili.

Tra i miei preferiti ci sono quelli di Volkswagen, un marchio che quanto a comunicazione ha sempre fatto scelte e pubblicazioni importanti. In una qualsiasi concessionaria o anche online nel sito ufficiale, trovate disponibile 40 years Golf. Ecco, questo è un fantastico raccoglitore di nomi che funzionano: nomi di vernici, di cerchi in lega, di optional, di comandi e tanti altri. Nessuno di questi è dato a caso.

Naming: i nomi di una Golf

Se sei interessato ad una Golf il primo quesito è scegliere il modello:

  1. Trendline;
  2. Comfortline;
  3. Highline.

Trendline è il modello base, ma è chiaro che chiamandolo “modello base” indebolirebbe il prodotto, per cui la parola trend, che richiama la tendenza, la moda e l’attualità, è qualcosa che ci fa sentire al passo con i tempi. Chiaro che Comfortline racconta qualcosa in più, qualcosa che ha a che fare con la comodità, e questo nome giustifica l’aumento di prezzo rispetto al modello Trendline. È abbastanza intuitivo capire che Highline è il top di gamma, qualcosa che evoca l’idea di grandezza, di plus.

Nomi delle vernici

Scelto il modello si passa alla vernice della carrozzeria, e qui Volkswagen è davvero creativa. Il colore più economico è un grigio scuro non metalizzato, l’unico a costo zero (compreso nel prezzo dell’autovettura). Se si fosse chiamato Grigio Scuro, o Grigio Basico, o appunto Grigio Scuro non Metallizato, l’acquirente non avrebbe percepito alcun valore ma, al contrario, avrebbe percepito una mancanza, una debolezza. Per questo, il nero economico di Volkswagen si chiama Grigio Urano. Quindi uno si può scegliere il modello base di Golf con il colore base senza vergognarsi di aver speso poco, perché ha comprato un’auto che fa tendenza dal colore grigio urano. Volkswagen è bravissima a coprire il senso di vergogna e a stimolare la percezione del valore, fattori che incidono non poco nel mercato dell’automobile.

Il grigio di qualità superiore si chiama Argento Riflesso, non male l’idea di chiamare argento una trama del grigio (non è forse più prezioso?). Un’altra variante più moderna della trama grigia è il nuovissimo Tungsten Silver, in cui gli inglesismi danno più forza al nome: Silver è più aggressivo di argento, mentre tungsten evoca qualcosa di futuristico (gli italiani ci cascano subito, anche il sottoscritto).

La vernice bianca si divide invece in Pure White e Oryx White Perla, non serve un genio per capire che il Pure White è un bel bianco, ma l’Oryx White Perla ha decisamente qualcosa in più (è infatti la verniciatura più costosa disponibile per una Golf).

Nomi dei cerchi

Il naming dei cerchi in lega, che prevede la scelta di nomi di città, evoca invece un’idea di stile e ricerca: Dover, Toronto, Perth, Geneva, Dijon, Madrid e il più costoso Durban.

Si potrebbe andare avanti per ore, citando ad esempio i rivestimenti in tessuto dei sedili, tra i quali troviamo nomi accattivanti come Pepper, Zoom/Merlin e Alcantara per indicare il tipo di tessuto, mentre per il colore sono stati scelti nomi come Nero Titanio per la trama nera, Shetland per quella beige, Quarzite per quella grigio-nero. Il nome Vienna, invece, indica la linea di rivestimenti in pelle che, a seconda dei colori, nero, marrone e beige, si dirama in tre possibili scelte cromatiche Nero Titanio, Marrakech e Shetland.

Come dicevo, si potrebbe andare avanti per ore.
La lettura in chiave pubblicitaria di un catalogo automobilistico vale molto più dello studio di molti manuali-fuffa. Questa cosa me la disse anche un brillante docente di Costruzione del Messaggio Pubblicitario ai tempi dell’università:

i libri che promettono di insegnare a diventare creativi, a scrivere bene e a persuadere le persone, sono tutti un lungo bla bla bla.

Ho ancora l’appunto scritto a mano sulla mia Moleskine del 2009.

VeryBello cultural events

In una cosa noi italiani siamo davvero imbattibili: fare pasticci. Abbiamo l’ambizione di progettare grandi cose, la voglia di comunicare all’americana e tutto il potenziale per poterlo fare. Poi però una volta scesi in campo (proprio come la nazionale degli ultimi anni), combiniamo solo pasticci.

Proprio ieri il ministro Franceschini ha presentato con fierezza e soddisfazione il progetto VeryBello, che ha il compito di valorizzare tutto il Paese e allungare il periodo di pernottamento dei turisti durante il periodo dell’Expo 2015. Il target è, in senso generico, l’intero pubblico mondiale e quello dello stivale. Un po’ ampio per un progetto di comunicazione, ma forse gli ideatori del progetto sono molto ottimisti.

Che cos’è VeryBello?

In poche parole, VeryBello è un sito web. Poco più, davvero. Al di là del nome stravagante e discutibile, che strizza l’occhiolino al celebre brano “That’s Amore”, il sito è un semplice aggregatore di eventi presentati in un’unica pagina. A farla breve: un calendario online. Chi lavora nel mondo SEO e nel web marketing si sarà strappato i capelli nel vedere il proprio Paese presentato senza alcun criterio tecnico (niente SiteMap, Robot.txt, pagine dedicate ad ogni singolo evento e tanti altri ben elencati nel post di Matteo Flora). Chi non lavora in questo settore, invece, probabilmente non troverà mai alcuna voce di questo sito tra i risultati dei motori di ricerca, di certo non si perderà nulla di straordinario.

Al sito si può dare solo una prima occhiata, che è anche l’ultima, c’è davvero poco da leggere e approfondire, ma vale la pena soffermarsi su quello che non c’è, come la seconda lingua, la privacy policy, il nome dell’azienda che ha realizzato il portale (siamo pur sempre in un sito ministeriale, ci dovrà pur essere stato qualche appalto, giusto?) e, magari, un testo di presentazione. Restando in tema “quello che non c’è”, qualcuno noterà che sull’immagine di copertina della pagina Facebook sono state tagliate la Sicilia e la Calabria, alla faccia di valorizzare tutto il territorio italiano.

Epic fail

Ma quello che davvero fa ridere – e pure incazzare – è la gente che festeggia vedendo l’hashtag #VeryBello tra i TT di Twitter. La stessa gente non è a conoscenza, però, che la stragrande maggioranza di tweet a riguardo sono satirici, offensivi e drasticamente critici. E se c’è una cosa che i social media insegnano è che l’antico ideale del “purché se ne parli” oggi è un’enorme cavolata. In meno di 24 ore si sono scatenati più di 15.000 tweet contro il progetto italiano e già testate come La Stampa parlano di epic fail del progetto VeryBello. C’è davvero da esultare?

Ma il Ministro Franceschini cerca di liquidare le critiche, anche quelle costruttive, un po’ come fanno molti altri boss della politica italiana. E questa non è un’altra storia, è sempre la stessa, è la nostra reputazione nel mondo, è la firma italian job.

Le cose comunicano, anche le più banali. Solo che non ce ne accorgiamo. Eppure c’è sempre un motivo se sono progettate in un certo modo. Un manifesto pubblicitario, la carta di identità, la sigla di Dexter, solitamente passano inosservate, e invece sono visual design. Ovvero, sono fatte in un certo modo perché devono comunicare una cosa precisa.

Prendiamo la mappa del mondo, ad esempio. Per convenzione, tutte le cartine hanno il continente americano a sinistra, l’Europa al centro e l’Asia a destra. Questa disposizione non è affatto casuale. La Terra è tonda, e quindi una cartina potrebbe iniziare anche con l’Europa a sinistra, l’Asia al centro e l’America a destra. Ma in giro non se ne trovano. Perché? Continua a leggere