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Costa di Tropea

A Tropea ci sono stato due volte e per due motivi: la prima volta, di sera, ho scoperto i vicoli e le meraviglie della città. Mi era stata descritta come un posto magico, quasi surreale, tra i luoghi più caratteristici del sud Italia, e in effetti era tutto vero. La seconda volta, invece, ci sono andato di pomeriggio, perché nella prima occasione avevo intuito che all’ora del tramonto ci sarebbero dovuti essere colori incredibili nei viali, sui tetti e nelle piazzette – che non sono piazze ma piazzette. In effetti, nel tardo pomeriggio Tropea è un’altra città.

All’ora del tramonto la gente si accalca ai balconi che si affacciano sul mare e punta gli occhi all’orizzonte, dove con un pizzico di fortuna si scorge anche lo Stromboli fumante. Per quanto sia meraviglioso godersi questo momento, è altrettanto favoloso dare le spalle al mare, con il naso verso le case – oserei dire casette – e perdersi nelle viuzze dove gli ultimi raggi colpiscono i tetti e le pareti, creando trame cromatiche e giochi di ombre che lasciano senza fiato. Mi viene in mente una citazione di Edward Hopper:

“quello che vorrei dipingere è la luce del sole sulla parete di una casa”.

Hopper non dev’esserci mai stato a Tropea, perché altrimenti non se ne sarebbe mai andato. Sarebbe impazzito nel vedere i colori delle pareti, al tramonto, o magari anche al mattino o ancora quando piove e all’improvviso spunta fuori il sole.

vicoli di Tropea

Tramonti sul mare

Dove mi trovo oggi, sulla costa tirrenica, il sole tramonta in mare, mentre dove vivo, sull’Adriatico, il sole in mare ci sorge. È chiaro che ad uno come me una cosa del genere affascina da morire. Non è così semplice da spiegare, ma ho bisogno di avere l’acqua salata sempre vicino a me, e con lei il moto delle onde e la legge delle maree. Sono nato con i racconti e la gente di mare e in qualunque momento dell’anno ho bisogno di vederlo spesso, come per controllare che sia sempre li. Magari cambio strada mentre guido per passargli accanto, cose del genere.
E i tramonti, qui dalle mie parti, avvengono tutti sulla terraferma, dove l’orizzonte è fatto di monti, colline e le prime luci della sera nei borghi antichi. Qui da Tropea, vedere il sole calare dolce sul Tirreno, e accanto ad un vulcano – lo Stromboli – è qualcosa di impensabile per la gente delle mie parti, una cosa che a raccontarla a chi non si è mai allontanato più di 100 chilometri dal proprio letto sembra pura follia.

Tramonto a Tropea

Ancora qualche parola sul mare

Sul mare sono state scritte e spese milioni di parole migliori di quelle che saprei scrivere e spendere io. Basta citare Hemingway e Melville per scoprire libri di un fascino senza fine. Solo per averli citati questa didascalia potrebbe finire qui, eppure c’è una cosa che mi sento di dire, ora, perché la bellezza di questo momento non si ripeterà più. La bellezza, una vera follia di osservare le onde e non scovarne mai una uguale all’altra. Puoi cercare in ogni oceano e squarcio di mare, in tutte le ore del giorno e con ogni vento e marea. Mai una uguale. Persino i colori e il suono. Mai. E neppure il tuo stato d’animo quando affondi i piedi nella sabbia e guardi l’orizzonte. Ogni volta sarà diverso. E questa è una di quelle certezze che rendono la natura così meravigliosa e la vita così fragile.

Io di storia dell’arte non ne capisco niente. Davvero. Non l’ho mai studiata al di fuori del contesto scolastico. Non mi sono mai appassionato, informato, aggiornato. Sono un vero ignorante, lo ammetto. Eppure credo di riconoscere esattamente il sentimento, la ricerca, la necessità, il gusto e la follia di alcuni pittori.

Sarà che per me l’arte è una. Che si parli di musica, letteratura, cinema o scrittura, credo che tutto si riduca ad un unico piacere che si manifesta secondo le regole e i colpi di genio di mani e muscoli, per soddisfare il solitario piacere di interpretare i giorni e le sensazioni più intime.

Questo, credo di aver capito. E sono certo di averlo riconosciuto curiosando tra le stanze di Palazzo Fava, a Bologna, in occasione della mostra di Edward Hopper. Ripeto, di storia dell’arte non ne capisco granché, ma osservando le sessanta opere esposte ho percepito il suo senso di solitudine.

Con grafite e colori, acquerelli e poco altro, lui disegnava le storie invisibili, quelle che ci sfuggono per mancanza di sensibilità. Lui le ricostruisce con pazienza e le propone chiedendoci di prestare nuova attenzione alle cose normali che sono, a suo avviso, la più grande meraviglia di ogni giorno.

Hopper disegna e racconta l’invisibile

Guardando Stazione di una piccola città trovo quella meraviglia. Al di là dello stile e della tecnica pittorica, di cui preferisco non parlare per evitare figuracce, penso che per lui quel momento, quella scena e quei colori, fossero abbastanza. Me lo immagino posare gli occhi per la prima volta su quella stazione, magari ascoltando il rumore di un treno lontano, innamorarsi della vernice sulle pareti, cercare la miglior prospettiva da cui osservare, coinvolgere quell’albero per spezzare la scena. Proprio l’albero, in musica sarebbe una pausa. In letteratura forse, una punto e a capo. Dicevo, l’arte è una.

small-town-station

Sera Blu – Edward Hopper

Sera Blu è l’opera che ho inserito come immagine di testa per questo articolo, e anche la mia preferita. La trovo di una solitudine senza fine e la interpreto come un tentativo di rappresentare il mondo. La malvagità nello sguardo del clown, l’uomo borghese sulla destra che osserva un orizzonte buio, come se possedesse tutto e niente; la donna in piedi truccata a puntino, forse una prostituta che mette scompiglio nei pensieri dei presenti; un tizio con la barba rossa, cappello e sigaretta, forse un omaggio a Van Gogh (del quale si riconosce l’influenza); il “direttore” del circo, o di qualche genere di evento, seduto in mezzo alla gente comune, come se lo spettacolo si camuffasse alla vita reale. O come se la realtà non fosse altro che una finzione devastante, e tutti noi attori, pagliacci, mossi dall’esigenza di truccarci o di indossare delle maschere. Ognuno per i suoi motivi.

Il ponte di Manhattan

Nonostante Hopper abbia disegnato decine di volte i ponti di New York, in questa opera si concentra soprattutto sui carrelli in primo piano. Il dipinto si chiama Ponte di Manhattan ma il ponte è solo una scusa per dare rilievo a quegli oggetti comuni, i carrelli. Lasciati li, soli, hanno un senso, costruiscono la scena, sono una storia invisibile.

ponte di manhattan

Gli avamposti e la voglia di restare

Hopper presta la massima attenzione al significato di ogni oggetto, costruzione o persona che incontra nei suoi viaggi. Ne cerca il senso, il motivo dell’esistenza, il motivo per il quale qualcosa si trovi in un determinato posto. Da qui la passione per i fari, quelli affacciati al mare e all’orizzonte, come in The Lighthouse at Two Lights. Li rappresenta soprattutto visti dalla parte della terraferma, quasi mai dalla parte del mare. Lui preferisce stare dietro, perché il faro traccia un confine preciso. La terra e il mare, la luce e il buio. Il faro è a tutti gli effetti un avamposto.

the lighthouse at two lights

In Starway, ad esempio, le scale conducono alla porta d’ingresso, aperta, ancora qualche passo e c’è il bosco. La porta è vista dall’interno, da dietro, proprio come i fari visti dalla terraferma. Percepisco una voglia di restare, di non oltrepassare certi confini, di non sfidare la malignità del bosco. Non mi sorprenderei nello scoprire che Hopper avesse paura del buio.

stairway-hopper

Le luci delle stanze, il sole sui muri e le ombre

L’ultimo quadro della mostra è il celebre Second Story Sunlight. Imponente. La sua luce è devastante. Le due figure ritratte sul balcone sembrano quasi un’ornamento, e quello che davvero conta è come il sole illumini la casa e le stanze all’interno. C’è il bosco dietro, buio. Ma la salvezza è in casa, al sicuro, nelle stanze illuminate. Hopper trova un certo fascino nell’oscurità ma, dicevo, se ne sta sempre ad una certa distanza, dove c’è luce.

Second story sunlight - edward hopper

Prendevo appunti mentre passeggiavo incuriosito ed emotivamente scosso tra le stanze di Palazzo Fava, scorrendo una dietro l’altra le opere senza tempo di un pittore che deve aver combattutto un vero e proprio conflitto personale con il mondo.

Prendevo appunti, frasi incomplete scritte con grafia poco elegante, tra queste noto oggi alcune parole ricorrenti: boschi, edifici, confini, avamposti, faro sul mare, luce sui muri, solitudine.

A rileggerle ora, con il senno di poi, penso che descrivano piuttosto bene l’arte di Edward Hopper, che è fatta proprio di boschi, edifici, confini, avamposti, fari, luce, buio, pareti. Solitudine. Cercando in rete le opere che (dannazione!) mancano alla mostra, come Gas e Nighthawks, ritrovo quasi ovunque gli stessi concetti.

Nighthawks - Edward Hopper

Ma ripeto, per l’ultima volta, io di arte non ne capisco nulla. Eppure mi emoziono. A volte ho quasi paura. In certi momenti, mentre lavoro, mentre guardo il fumo uscire dalla moca del caffè o mentre passeggio sotto i portici di Bologna, mi sembra di vedere le storie invisibili. E anche gli avamposti.

Addirittura le pentole. E poi scarpe, reti, barattoli d’olio di motori per scooter, cisterne di plastica grandi abbastanza per nascondere all’interno anche due persone, corde, attaccapanni, bottiglie (un classico), salvagenti sfondati e più o meno un altro milione di oggetti che tra le onde, le correnti e le alghe hanno perso identità.

Ad ogni mareggiata il mare ci restituisce indietro tutto quello che gettiamo dalle barche, dai pontili, dai porti, o anche dalla riva. E nei fiumi. Anche quello che finisce negli scarichi di casa ha un’altissima probabilità di finire in mare, presto o tardi.

E se c’è una cosa che accade sempre, senza preavviso e senza orologio, ma con una certa costanza in ogni stagione dell’anno, è che ci torna tutto indietro. Che è anche una metafora non troppo assurda della vita. Il mare restituisce tutto – pensa che follia se decidesse di tenere qualcosa per sé.

Tutto torna indietro, nodi che vengono al pettine, errori che diventano ricordi e a qualunque distanza temporale continuano a ferire. Anche tra vent’anni, le cicatrici saranno sempre li belle esposte, in evidenza, protagoniste di un romanzo interiore. Tra vent’anni, forse, saranno anche meno sole.

Il mare, dicevo. E le mareggiate, il vento che soffia da nord, i detriti e lo sporco deposti in spiaggia come in segno di offesa.

Poi gli uomini con i rastrelli a ripulire tutta quella robaccia così in disarmonia con il resto del paesaggio. Le bestemmie e il graffio dei rastrelli sulla sabbia bagnata. Non c’è nient’altro da ascoltare.

Le gente s’incazza se le mareggiate arrivano fino alle strade e ai locali, rompendo vetrine, passerelle, cartelli, porte, trascinando via biciclette, vasi e cespugli. La gente s’incazza quando il mare si porta via le barche dai moli, trascinandole magari in qualche vialetto del centro. La gente s’incazza così tanto, ma a giudicare da quello che il mare restituisce dopo una mareggiata, non c’è motivo di arrabbiarsi.

Il mare di Cattolica non ha il fascino e i colori di quello del sud. Neanche un po’. Ma a guardarlo tutto solo raggomitolato su sé stesso, in inverno, fa quasi tenerezza. Ed è stupendo. Non riesco ad immaginare la mia vita lontano dal mare. È una sorta di certezza, che se ne sta sempre li, qualunque cosa accada. Pare poco, ma di questi tempi.

In inverno il mare di Cattolica è più solo anche del cielo, dove almeno di tanto in tanto capita di incontrare qualche nuvola. Non si fanno nemmeno compagnia, cielo e mare, se non quando cala la nebbia, che è aria umida – aria bagnata fradicia -, una sorta di via di mezzo, di passaggio, di frontiera, tra i due. Tra il mare e il cielo. E qualche barca, all’orizzonte, pare un bottone che li tiene uniti.

Devono esserci le nuvole in cielo, scure e umide, in un orario preciso, verso sera, al calar del sole. Devono verificarsi favorevoli circostanze e singolari coincidenze per poter assistere ad un tramonto dalle trame dorate. Di quelli che smuovono masse di persone facendole correre sulle spiagge e nelle strade, fuori di casa, lungo i viali e i campi erbosi, senza muri attorno ma solo cielo a non finire. Così tanto cielo da averne quasi paura, di cadere, del vuoto, paura di restare soli per davvero. Tutto questo per un tramonto così lontano e prezioso che si manifesta con l’ambizione di mettersi in mostra e raccogliere applausi e meraviglia.

Come se un qualsiasi fenomeno della natura avesse bisogno del nostro elogio, della nostra attenzione, anzi, anche solo della nostra presenza.

Christa Wolf, “Nessun Luogo. Da nessuna Parte”.

Se c’è un buio peggiore di questo, dietro la Luna o anni luce in là, oltre una direzione che non ha nulla a che fare con l’orizzonte, non saprei, ma il sospetto pulsa nel vuoto apparente che separa il mare e il cielo alle undici di sera, una paura o una volontà oscura che si nascondono dove finiscono i bagliori. Se c’è un buio peggiore non lo so ma amo la notte, quasi da impazzire, che mi illude che le stelle cadenti siano davvero stelle e non polveri incendiarie. Del fuoco invece ho davvero paura, che tutto illumina e tutto brucia, senza badare a cosa porta via e quali strade invece illumina, tutto incendia tranne il mare, che in fin dei conti è una di quelle certezze che assieme alla notte mantiene un certo equilibrio, una dignità e una sicurezza che l’orizzonte non può infrangere – poiché è tutto dello stesso colore.

C’è una nave piena d’oro, una nave piena d’oro e gioielli preziosi, gremita di gente dalla pelle nera senza capitano, senza timone. Marinai che guardano in cagnesco, disarcionati dalla vita e salpati a bordo di una nave zeppa d’oro massiccio. Quasi affonda. Quasi va a fondo. Scompare presto all’orizzonte. Si nasconde in naufragi sottomarini, o in qualche città sommersa, ce ne sarà pure qualcuna, ancora. Imbarca acqua, una goccia al giorno, una sola e mai di più, anche nei giorni di tempesta, una e una soltanto. E per quanto possa pesare una goccia d’acqua salata, una goccia di un mare immenso, di quella lunghezza il veliero affonda. Alba dopo alba. I marinai, neri con la faccia di chi nella vita non ha mai sorriso, vanno a fondo, vanno a picco con tutto quell’oro, tutto quell’oro che non è loro e non sarà mai di nessuno, mai più di qualcuno. Chissà se nelle città sommerse avrà ancora valore. Chissà se quella gente mancherà mai a qualcuno, o a nessuno. Demoni e pensieri in balia di un cavallo d’acqua scura, come un’onda che cavalca e non ascolta, non si ferma e tutto porta via in un denso trascinare.

Credo che ogni città abbia con sé una certa magia, un’intensa bellezza che può nascondersi in cose anche banali, è solo questione di trovarle. Mica c’è bisogno di un monumento, una torre, la barriera corallina o cose del genere. Quelle sono altre cose. Io parlo di quello che c’è per le strade, i negozi, le luci, i neon, i profumi, cose così. Mi ricordo quando qualche anno fa alle 5 del mattino rientravo in albergo passeggiando tra le vie di Milano, e ho visto una delle albe più intense della mia vita. Cioè, sono abituato a veder sorgere il sole dal mare – e questo la dice lunga – ma quella mattina li, tra i palazzi annoiati di Milano, c’era una costellazione di colori straordinari che sfondavano le strade, e tutto era, incredibilmente, lilla e perla. E mi viene in mente quel paese sperduto ai confini di Londra, Swan Place, due strade che s’incrociano e decine di negozi di fiori, un laghetto con i cigni che danzano silenziosi, un caffè con dei muffin fatti in casa, l’odore caldo del cioccolato fuso. Questa magia qui.

Non ho mai creduto di riuscire a trovare meraviglie del genere anche in città apparentemente fredde e mute, come Pesaro, che per certe cose mi ha sempre lasciato indifferente alla sue nebbie ed i suoi silenzi. Viverci così, però, qualche giorno alla settimana, mi ha cambiato il modo di vedere le cose e insegnato ad usare tutti e cinque i sensi, cosa che prima non mi era capitato mai. Pesaro e l’odore di cipolla all’ora di pranzo per le vie del corso, si sente solo odore di cipolla, non ne si capisce il motivo. Non è nemmeno un granché per chi come me la odia, ma la cosa mi fa quasi sorridere. Il mare invece, a Pesaro, credo sia molto più salato, o qualcosa del genere, perché al porto e sulla spiaggia lo senti conficcarsi nelle tue narici e ti rimane li per ore, quel calore bianco salato. E come ti allontani dalla spiaggia arriva quello di cipolla, e basta. Mare e cipolla, pazzesco.

Pesaro è ferma, muta, silenziosa, a volte sembra che non ci viva nessuno. Bisogna toccarla per sentire che effettivamente c’è. E se si trova gente lungo il corso, o una fiera nella piazza del centro, vige sempre una certa calma, un preciso equilibrio che non ho mai visto spezzarsi. Ma la cosa più bella è che ci sono decine e decine di librerie. I libri. Ci sono ancora persone, a migliaia direi, che amano comprare libri e toccare la carta nuova con l’odore di fresco tra le pagine ed il sapore giallognolo delle librerie. Se a Swan Place ad ogni cinquanta metri ci trovi un negozio di fiori, nel cuore di Pesaro ad ogni dieci passi ci trovi una libreria.

Questa cosa delle librerie mi fa pensare a quanto cavolo debbano leggere i pesaresi. Quanto tempo debbano trovare, nella loro vita, per leggere. Come se le persone si riprendessero il proprio tempo. Penso a tutte quelle pagine sfogliate, alle dita che scivolano sulle parole e sulle copertine, e tutto quello scrivere che attraversa le persone, al fermare la frenesia e squarciare la nebbia, con i libri. Sembra una cosa da niente, ma se invece ci pensiamo proprio bene è qualcosa di grandioso. È un’armonia, un ritrovare sé stessi. Ritrovarsi in una città che forse ha la forza di rompere la velocità e i rumori. Gli unici suoni che si elevano sul sottofondo della quotidianità sono le note che trapelano dal conservatorio Rossini, una gran confusione a dirla tutta, di fiati ottoni e voci.

È un’atmosfera inquieta e ansiosa, certe volte. Non è facile capirla, Pesaro. Ci sono ancora alcuni conti che non mi tornano, come ad esempio dove cavolo vadano le persone la sera, o come facciano (quelle poche che passeggiano) a non far rumore. Non c’è nemmeno il McDonald’s, forse si sono dimenticati di Pesaro anche loro. Forse se ne sono dimenticati in tanti. Forse sono in tanti che si sono dimenticati di leggere. E di usare tutti e cinque i sensi quando si cammina per le vie di una città. Sembra che stiamo accusando problemi di percezione, del sentire come i posti vivono, e come noi viviamo mentre attraversiamo le strade e i corsi del centro.

Non lo so di preciso che diamine stia accadendo, quando tutto cambierà magari avrò più chiara la questione. Perché solo quando le cose cambiano si capisce cos’è che davvero viene a mancare. Forse è per questo che Pesaro è immobile, e zitta, credo che non voglia cambiare mai, per non perdersi.

Ieri stavo passeggiando sulla spiaggia, mano nella mano con Angelica, per un istante ho lasciato la presa, mi sono abbassato per raccogliere una conchiglia e m’è sembrato come se stessi raccogliendo la mia anima.