Tag Archivio per: città

La sera, al circolo Kappa, anche l’infelicità si fa un po’ più dolce, invece di logorare l’anima pare accarezzare la pelle e soffiare sui mozziconi, quasi volesse tenerli accesi per tutta la notte. Nella sala biliardi c’è chi rimane fino a tardi, fino a quando in strada non c’è più nemmeno il vento, e l’unico suono che si sente, dentro, è quello dei colpi della stecca, o il fruscio dei birilli colpiti, o lo scontrarsi della palla bianca con quella gialla, e la rossa ferma ad aspettare. I rumori sono soli più dei giocatori, che non fiatano, si guardano e con poche smorfie commentano i tiri dell’avversario. Continua a leggere

Milano quel giorno era più bella che mai: c’era poco traffico e poca gente e quella poca che era a spasso sembrava che avesse profonde motivazioni per farlo e un grande amore per la città, turisti e abitanti che fossero.

Per scrivere una frase come questa bisogna percepire cose speciali in tutti i segni del quotidiano, vedere storie e magie dove nessuno le vede. Magari è una questione di odori, o dell’osservare la gente che passeggia per la strada, o i riflessi del sole sui vetri dei palazzi, i suoni della città, magari anche i silenzi – prova a cercarli, a Milano, ti giuro che ci sono -, il toccare i viscidi paletti della metro, cose così. Che poi sono storie, e permettono di raccontare una certa meraviglia. Continua a leggere

Non è che mi piaccia proprio tutto della notte. Si, ha il suo fascino, senza dubbio. C’ha le stelle, e quelle appaiono solo nel buio, e la Luna, anche se lei ogni tanto fa capolino pure di giorno, credo per colpa del sole che la illumina in qualche modo. No, non è di quel modo lì che scrivo, ma piuttosto di ciò che della notte detesto. Perché nel suo palinsesto fatto di neon accesi, lucciole che si fingono lanterne e cosce nude sulle strade, trasforma quanto di più raffinato in orrore. Le farfalle, ad esempio, le farfalle notturne mi fanno quasi schifo, sono farfalle ma senza colore, e quando volano fanno un gran baccano, approfittano dei silenzi notturni, che fanno quasi paura, sia le farfalle che i silenzi. Il loro sforbiciare d’ali mi fa temere che anche gli angeli, di notte, debbano fare un gran casino quando si librano il volo. Gli angeli volano alti ma il loro ricordo precipita come una pioggia di piombo, e tingono di catrame e oscurità ogni tentativo di fuga e di abbandono. Ecco il nero, e le ali delle farfalle. E le stelle lontane apparire.

Un po’ per rabbia un po’ per orgoglio, ti viene la voglia di uscire di casa sbattendo il portone e fare una passeggiata sotto la pioggia. Dopo pochi passi smette di piovere. E resti fermo e immobile col mento verso il cielo, un perfetto imbecille in mezzo alla strada. Anche a star lì impalato – e imbecille – sei certo che non cadrà più una goccia d’acqua sulla tua fronte. Eppure la cerchi. Sperando che ti travolga e ti affoghi, e porti via, lavi e trascini lontano da quella prigione intercostale tutto lo sporco che c’è. Le pozze di umidiccia malvagità e ingiustizia che si incastrano tra una costola e l’altra. Quasi fossero spine inforcate nelle ossa, incastonate nel corpo fermo in mezzo alla strada. Che guardi avanti o guardi indietro non cambia necessariamente nulla. Gli occhi si trovano sempre di fronte ad un panorama in cui non c’è niente da vedere. Un paesaggio di cui poi non ti ricordi nulla. Lì capisci che non c’è scampo. Sei in trappola. Eppure non piove. Torni a casa con i nervi tesi e affilati, ti spogli e lasci tutto lo sporco che hai addosso, almeno quello che porti appresso, fuori dalla doccia. Apri l’acqua e aspetti che sia tanto bollente da strappare la pelle. Quando credi lo sia abbastanza ci entri dentro, e nonostante tutto il vapore, tutto quel furioso calore, quello che senti è solo un freddo cane e bastardo. E non percepisci più la differenza tra ciò che hai dentro e ciò che hai fuori.

C’è una nave piena d’oro, una nave piena d’oro e gioielli preziosi, gremita di gente dalla pelle nera senza capitano, senza timone. Marinai che guardano in cagnesco, disarcionati dalla vita e salpati a bordo di una nave zeppa d’oro massiccio. Quasi affonda. Quasi va a fondo. Scompare presto all’orizzonte. Si nasconde in naufragi sottomarini, o in qualche città sommersa, ce ne sarà pure qualcuna, ancora. Imbarca acqua, una goccia al giorno, una sola e mai di più, anche nei giorni di tempesta, una e una soltanto. E per quanto possa pesare una goccia d’acqua salata, una goccia di un mare immenso, di quella lunghezza il veliero affonda. Alba dopo alba. I marinai, neri con la faccia di chi nella vita non ha mai sorriso, vanno a fondo, vanno a picco con tutto quell’oro, tutto quell’oro che non è loro e non sarà mai di nessuno, mai più di qualcuno. Chissà se nelle città sommerse avrà ancora valore. Chissà se quella gente mancherà mai a qualcuno, o a nessuno. Demoni e pensieri in balia di un cavallo d’acqua scura, come un’onda che cavalca e non ascolta, non si ferma e tutto porta via in un denso trascinare.

Succede che vado al bar e nessuno tifa più per Valentino Rossi. Nessuno. Tutti quelli che fino a poco tempo fa sostenevano il nove volte campione del mondo, ora che la sua carriera è scivolata in una brutta crisi, tutti, cazzo, tutti negano di essere stati fan accaniti del # 46. Sono gli stessi che ora lo danno per fallito, gli stessi che improvvisamente si sono rivelati seguaci storici di Marco Simoncelli. Naturalmente, anche questo fanatismo è nato solo dopo la triste scomparsa del pilota di Coriano. E io non capisco questa forma di tifo, che poi parlare di tifo non è nemmeno esatto. Forse è più corretto parlare di una insolita forma di simpatia, che va già meglio. Moda, è perfetto.

In un mondo dove anche gli eroi svaniscono così in fretta, qui, in questo mondo qui, non vedo alcuna possibilità di scampo, di talento, di salvezza. Salvezza, sì, perché i campioni e gli eroi servono anche a questo, per salvarci e farci sognare, evadere dalla realtà. Fanno le cose incredibili, cose che noi non possiamo, ma vogliamo fare, e una di queste è salvarci. Salvarci, che è molto diverso da farsi belli al bar dimostrando di essere in perfetta sincronia con la moda del momento. Salvarci dalla quotidianità, dalle bugie, dai nostri limiti e dalle paure, dai falsi sorrisi e dalle verità trattenute come si trattengono solo gli starnuti.

Che cosa resta dello sport, e che fine fanno i campioni, se nessuno poi si salva… Che cosa rimane del brivido di un sorpasso, dello stupore – stupore – per una staccata violenta, di un traverso. Che cosa rimane se il pubblico smette di cercare un sentimento, un senso, e s’arrende alla paura di tifare con il cuore. Non rimane granché, né dello sport, né dei tifosi.

Succede che vado al bar e tutti indossano la moda più consueta, e tutti appaiono bellissimi con il loro amore per Casey Stoner e per i goal di Ibrahimovic. Vado al bar e scopro solo queste cose qui, e se chiudo gli occhi e mi concentro su quello che c’è da sentire, ma sentire con il cuore, succede che non sento nulla, se non un profondo silenzio. Come se la mancanza di sorpresa generi solamente silenzio, e in questo silenzio precipitano gli eroi. Che fine fanno loro, eccola qui, la fine, nel silenzio e nell’assenza di stupore. E nessuno si salva più.

Credo che ogni città abbia con sé una certa magia, un’intensa bellezza che può nascondersi in cose anche banali, è solo questione di trovarle. Mica c’è bisogno di un monumento, una torre, la barriera corallina o cose del genere. Quelle sono altre cose. Io parlo di quello che c’è per le strade, i negozi, le luci, i neon, i profumi, cose così. Mi ricordo quando qualche anno fa alle 5 del mattino rientravo in albergo passeggiando tra le vie di Milano, e ho visto una delle albe più intense della mia vita. Cioè, sono abituato a veder sorgere il sole dal mare – e questo la dice lunga – ma quella mattina li, tra i palazzi annoiati di Milano, c’era una costellazione di colori straordinari che sfondavano le strade, e tutto era, incredibilmente, lilla e perla. E mi viene in mente quel paese sperduto ai confini di Londra, Swan Place, due strade che s’incrociano e decine di negozi di fiori, un laghetto con i cigni che danzano silenziosi, un caffè con dei muffin fatti in casa, l’odore caldo del cioccolato fuso. Questa magia qui.

Non ho mai creduto di riuscire a trovare meraviglie del genere anche in città apparentemente fredde e mute, come Pesaro, che per certe cose mi ha sempre lasciato indifferente alla sue nebbie ed i suoi silenzi. Viverci così, però, qualche giorno alla settimana, mi ha cambiato il modo di vedere le cose e insegnato ad usare tutti e cinque i sensi, cosa che prima non mi era capitato mai. Pesaro e l’odore di cipolla all’ora di pranzo per le vie del corso, si sente solo odore di cipolla, non ne si capisce il motivo. Non è nemmeno un granché per chi come me la odia, ma la cosa mi fa quasi sorridere. Il mare invece, a Pesaro, credo sia molto più salato, o qualcosa del genere, perché al porto e sulla spiaggia lo senti conficcarsi nelle tue narici e ti rimane li per ore, quel calore bianco salato. E come ti allontani dalla spiaggia arriva quello di cipolla, e basta. Mare e cipolla, pazzesco.

Pesaro è ferma, muta, silenziosa, a volte sembra che non ci viva nessuno. Bisogna toccarla per sentire che effettivamente c’è. E se si trova gente lungo il corso, o una fiera nella piazza del centro, vige sempre una certa calma, un preciso equilibrio che non ho mai visto spezzarsi. Ma la cosa più bella è che ci sono decine e decine di librerie. I libri. Ci sono ancora persone, a migliaia direi, che amano comprare libri e toccare la carta nuova con l’odore di fresco tra le pagine ed il sapore giallognolo delle librerie. Se a Swan Place ad ogni cinquanta metri ci trovi un negozio di fiori, nel cuore di Pesaro ad ogni dieci passi ci trovi una libreria.

Questa cosa delle librerie mi fa pensare a quanto cavolo debbano leggere i pesaresi. Quanto tempo debbano trovare, nella loro vita, per leggere. Come se le persone si riprendessero il proprio tempo. Penso a tutte quelle pagine sfogliate, alle dita che scivolano sulle parole e sulle copertine, e tutto quello scrivere che attraversa le persone, al fermare la frenesia e squarciare la nebbia, con i libri. Sembra una cosa da niente, ma se invece ci pensiamo proprio bene è qualcosa di grandioso. È un’armonia, un ritrovare sé stessi. Ritrovarsi in una città che forse ha la forza di rompere la velocità e i rumori. Gli unici suoni che si elevano sul sottofondo della quotidianità sono le note che trapelano dal conservatorio Rossini, una gran confusione a dirla tutta, di fiati ottoni e voci.

È un’atmosfera inquieta e ansiosa, certe volte. Non è facile capirla, Pesaro. Ci sono ancora alcuni conti che non mi tornano, come ad esempio dove cavolo vadano le persone la sera, o come facciano (quelle poche che passeggiano) a non far rumore. Non c’è nemmeno il McDonald’s, forse si sono dimenticati di Pesaro anche loro. Forse se ne sono dimenticati in tanti. Forse sono in tanti che si sono dimenticati di leggere. E di usare tutti e cinque i sensi quando si cammina per le vie di una città. Sembra che stiamo accusando problemi di percezione, del sentire come i posti vivono, e come noi viviamo mentre attraversiamo le strade e i corsi del centro.

Non lo so di preciso che diamine stia accadendo, quando tutto cambierà magari avrò più chiara la questione. Perché solo quando le cose cambiano si capisce cos’è che davvero viene a mancare. Forse è per questo che Pesaro è immobile, e zitta, credo che non voglia cambiare mai, per non perdersi.

Ieri stavo passeggiando sulla spiaggia, mano nella mano con Angelica, per un istante ho lasciato la presa, mi sono abbassato per raccogliere una conchiglia e m’è sembrato come se stessi raccogliendo la mia anima.