Esercizio di scrittura: raccontare un oggetto
Ci sono storie ovunque, anche dove meno ci si aspetta. Ci sono storie persino dietro le parole. Per trovarle è necessario cercare tra i significati, i significanti e l’etimologia dei termini. Se non ci credete provate a compiere questo esercizio di scrittura: scegliete un oggetto, uno a caso, e raccontatelo. Non descrivetelo, ma raccontatelo.
Fatelo utilizzando un tono ironico e dirottatelo verso un finale nostalgico, quasi con un pizzico di solitudine. Funziona.
Se non ci credete, ecco un esempio: raccontare un pattìno.
Il pattìno (o moscone)
Il nome esatto è pattìno di salvataggio, probabilmente uno dei termini meno azzeccati della lingua italiana. Se non lo hai mai visto con i tuoi occhi, magari nemmeno in fotografia, se nemmeno ne hai mai sentito parlare e all’improvviso leggi questo nome da qualche parte scritto senza l’accento sulla “i”, e quindi erroneamente leggi pàttino piuttosto che pattìno, dico, che idea ti fai?
Un pàttino. Ti immagini una sorta di marchingegno da calzare ai piedi o quantomeno da agganciare alle scarpe.
Di salvataggio. Dà l’idea di velocità, forza, sicurezza, qualcosa che permette appunto di salvare una vita, anche in modo incredibile. C’è il giubbotto di salvataggio, la scialuppa di salvataggio, la zattera, il bagnino, il cane, la sagola, i cartelli di salvataggio (si, ci sono anche i cartelli, detti anche segnali di salvataggio). E più o meno, di ogni cosa riesci a farti un’idea, ma del pattino, cavolo, del pattino di salvataggio proprio no.
Nel senso, chi indosserebbe un paio di pattini per soccorrere una persona in difficoltà? Che si tratti di un disagio o un sinistro avvenuto per strada, in acqua, in montagna, in una grotta o in un tunnel, penso ci siano almeno altri cinque mezzi migliori rispetto ai pattini con le rotelle (a meno che non ci si trovi in un lago ghiacciato e a qualcuno venga la strepitosa idea di indossare i pattini da ghiaccio per raggiungere la persone/cosa/animale in difficoltà).
Ma non si tratta di un marchingegno da calzare o agganciare alle scarpe, e ha davvero poco a che fare con i piedi. E poi si pronuncia con l’accento sulla “i”, pattìno, come nella canzone Stessa Spiaggia, Stesso Mare.
…e come l’anno scorso, al mare col pattìno…
Il pattìno di salvataggio, o moscone (e anche qui, sul perché del termine moscone ce ne sarebbe da discutere), è uno straordinario strumento che permette una rapida, leggera e fulminea navigazione nei tratti brevi. I bagnini di Baywatch se lo sognano un mezzo del genere, loro sono abituati alle moto d’acqua che, riflettendo sulla comodità del salirci sopra, accenderle, cavalcarle, tuffarsi, salvare la persona in pericolo, tornare alla moto e risalirci sopra in due, si impiega molto più tempo che balzare sul moscone, dare qualche colpo di remi, tuffarsi, salvare chi è in difficoltà e condurlo fino all’imbarcazione per farlo comodamente distendere o sedere.
Quindi per comodità ed efficacia nei tratti brevi, il moscone batte la moto d’acqua.
Unico neo: qualcuno potrebbe lamentarsi del mal di mare.
Non se ne fanno quasi più. Dicono che sia antiquato, pesante, lento. Sul web pochi ne parlano, anche se lo si intravede in qualche fotografia condivisa da chi è stato al mare in Romagna. A riguardo ho trovato un interessante articolo che ne racconta la scomparsa e il declino, definendolo l’imbarcazione da spiaggia per antonomasia.
È finita, l’epopea del moscone. Non solo in questa riviera che l’ha visto nascere ma in tutte le spiagge italiane. Al lido di Venezia il noleggio di pattini e pedalò (il cugino del moscone costruito in vetroresina e spinto a pedali) è stato chiuso. Chiusi anche i cantieri delle Marche e della Liguria che producevano queste “utilitarie del mare”. L’ultimo “mosconaio” è a Cattolica. «Riusciamo a resistere – dice Elvino Magi, 70 anni – perché chi fa soccorso in mare si è accorto che il moscone in legno è più robusto e veloce di altri mezzi in vetroresina. Facciamo 120 pezzi all´anno e più dell’80% escono da qui dipinti in rosso e con la scritta “Salvataggio”».
L’ultimo mosconaio è a Cattolica, la mia città, la stessa da cui scrivo, stasera, con i gomiti appoggiati sulla scrivania Ikea il cui legno è davvero una bestemmia confronto a quello del pattìno. Sto già pensando di andare a scoprire questa piccola azienda che lavora il legno, senza sapere cosa aspettarmi, oltre al profumo di artigianato.
Qualcuno potrebbe lamentarsi del mal di mare, dicevo.
Eppure quest’oggetto lo trovo di un romanticismo infinito. Remare richiede uno sforzo fisico non indifferente, “fa allargare il torace”.
Quando a 15 anni lavoravo in spiaggia lo utilizzavo tutte le mattine, remare era come sbattere le ali, e a seconda del senso e del “tocco” riuscivo a planare sull’acqua, virare con agilità, solleticare la superficie. Lo utilizzavo ogni mattino, poco dopo l’alba, e ogni sera, appena prima del tramonto, dopo aver chiuso tutti gli ombrelloni e aspettato che tutti i turisti lasciassero il lido per tornare in albergo, impugnavo le maniglie e li trascinavo sulla sabbia. Li strappavo al mare e li adagiavo senza remi dove l’alta marea non li avrebbe potuti raggiungere.
Mi ci sedevo sopra e guardavo la mia ombra allungarsi verso la riva.
Lì finiva la giornata di lavoro. Lì finivano le estati, quelle che non tornano più. Lasciavo qualcosa, come ognuno fa a 15, 16 anni.
E ora immagina un moscone sulla sabbia e senza remi, al tramonto. Sopra c’è un ragazzo seduto, che è mille persone tutte insieme. Immagina quella scena e dimmi se davvero pensi che non sia abbastanza romantica.
E se il mal di mare non valga la pena.
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