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copywriter book

L’anno scorso ho letto pochi libri. Giusto qualche saggio e una manciata di romanzi. E la biografia di Michael Jordan. Stando a quello che ricordo è stato l’anno in cui ho letto di meno. Meno libri, meno riviste, meno tutto. Come a prendermi una pausa dalla corsa quotidiana che i miei occhi fanno sulle prose di autori straordinari e sulle colate di inchiostro nella pagine di carta. Che poi, poiché scrivere è il mio mestiere, non posso esimermi dal leggere, poiché da quest’azione elegante e antichissima colgo tutti i riflessi e le ispirazioni che mi aiutano nello svolgere senza noia e ripetizioni il mio lavoro.

Voltandomi indietro mi rendo anche conto che l’anno solare che lascio alle spalle è stato ricco di serie TV, film, programmi sportivi, mostre d’arte e tramonti. Non è una follia, non è una vittoria della televisione sui libri ma, a mio avviso, è un modo differente di leggere. Ho amato alla follia Dexter e The Walking Dead, ma è come se oltre ad aver seguito con ansia ed entusiasmo le storie che raccontano, ecco, è come se li abbia letti. Come se avessi applicato il filtro “tecnico” e mi fossi concentrato sulla stesura del copione, sugli storyboard, sulla fotografia. Ed è lo stesso che ho fatto guardando i programmi sportivi, analizzando il crescere della tensione fino al momento del boom, una gara di MotoGP ad esempio. Un crescendo architettato con intrecci e personaggi, protagonisti e antagonisti. Come se fosse una vera storia. E lo stesso è accaduto anche fuori casa, alla mostra di Edward Hopper – giusto per citare un momento straordinario – dove il litigio tra luci e ombre mi è rimasto nel cuore. O anche osservando certi tramonti, dicevo.

C’è una dinamica a cui non ho badato mai e che ora mi tormenta ogni pomeriggio. Il sole che scende, piano, mentre le ombre si allungano, le trame del cielo si scaldano e si scaldano sempre più finché un rosso cremisi e la porpora tormentano l’orizzonte. E poi arriva il freddo (l’antagonista?), le trame fresche della sera, che dal violaceo portano al blu poi all’oscurità e poi più niente se non le tenebre della notte. Da qui capisco che anche la natura non passa da un momento all’altro senza una sua epica.

Non dirmi che tu non ci leggi nulla. Non dirmi che non c’è nulla da leggere. Perché solo il fatto che io ne scrivo e milioni di persone prima e molto meglio di me ne hanno scritto, anche versi memorabili, se in così tanti ne abbiamo parlato è perché abbiamo letto qualcosa. Nel cielo, dentro di noi. Da qualche parte qualcosa abbiamo letto. Senza carta e senza inchiostro, né fogli né taccuini, solo le parole che si celano davanti ogni cosa che, da una serie TV ad un tramonto, da un pianoforte scordato alle grida del mare, si soffermano davanti agli occhi e lì levitano trasparenti aspettando di essere lette, filtrate e ingoiate, o assorbite, qualcosa del genere.

Nuovi formati, nuovi layout. I libri dei mesi passati hanno avuto forme e dimensioni stravaganti e inaspettate. In tutto questo, la cosa pazzesca è che nonostante la tenue crescita di volumi cartacei nella mia libreria, non ho mai smesso di leggere, nemmeno per un minuto.

piccoli paesi

Quei piccoli paesi, di solito mai sulla costa, ma appena poco all’interno, magari tra le colline e ai campi di grano, dove c’è un campanile, una drogheria, un bar, un falegname e talvolta un pittore e un collezionista di bottoni. Quei piccoli paesi, frazioni del mondo. Una manciata di anime, forse un centinaio, pochi bambini, molti anziani, perché i giovani sono partiti, quasi nessuno tornato se non dopo lungo tempo e la schiena stanca e curva. Talmente piccoli che c’è un solo barista, un solo artigiano che sa costruire tutto, un solo fioraio, un solo elettricista che ne sa anche di idraulica e metalmeccanica.

Una sola piazza dove in estate l’aria ristagna e il caldo uccide. I gatti sotto le panchine a soffrire l’afa. E i cani non hanno guinzaglio, casa e padrone, ma sono amati da tutti e mangiano facendo il giro dei portoni. Quei piccoli paesi in cui si insegna come scappare ma non come restare e rendere giustizia ad un fascino mite e qualunque, fatto di mattoni e semplicità, tenerezza e anziani che ti fissano con i loro occhi lucidi – come se stessero per scoppiare a piangere ma poi non lo fanno.

C’è un campetto da calcio, senza erba, solo terra e polvere, le porte senza rete, le linee bianche svanite. Un piccolo cimitero, poco altro. Il sindaco è più contadino che politico, perché le decisioni vengono prese dal vento e dal tempo, dalla terra, dai fiori.

Quei piccoli paesi, dove non ci sono alberi ma tigli, pioppi e olmi, e le persone conoscono i nomi di ogni pianta, persino dei fiori, dei funghi e delle erbacce. Gente che ha l’aspetto di chi viene da lontano e sa produrre l’olio in casa e ha la pazienza di attendere il raccolto, gente che conosce i venti e bagna il pane nel vino.

Antichi vasi di terracotta incorniciano i lati dei portoni, e nelle strade la polvere viene spazzata via solo dalla pioggia. Quando piove c’è un silenzio che ti rimette al mondo, solo la violenza del cielo e basta. E i gatti dietro le finestre, i vetri sottili che tremano e lasciano entrare il fresco.

Ora dimmi se immagini un mondo senza questi paesi. Dimmi se riesci a respirare, scrivere, pensare senza averli mai visitati. Senza aver mai parlato con quel barista, che è scorbutico, si, quando entri non dice buongiorno ma solo “cosa vuoi”.
E non è mai una domanda, è un’affermazione. Cosa vuoi.

Dimmi se immagini un mondo senza questi paesi. Che quando ti si rompe la tapparella arriva l’elettricista tutto fare che ripara anche il lavandino, il campanello e dà una potata alla siepe.

Una vita senza clacson, in equilibrio tra la quiete e la paura che assale ogni uomo e ogni donna. Perché la paura arriva dappertutto e non si dimentica dei piccoli paesi.

Impressioni d'autunno

In autunno i tramonti hanno una gran fretta di consumarsi, ma senza bruciare e fare rumore. Come se avessero voglia di sparire e basta. Nient’altro. Le ombre si allungano rapidamente e le luci dei locali brillano con timidezza. La luna si nasconde dietro le nubi, stanca di guardarci ogni notte senza mai potersi voltare.

L’autunno si porta via un sacco di cose, come l’entusiasmo e la voglia di restare svegli fino a tardi, o quella strana sensazione che si prova quando si è sicuri che stia per accadere qualcosa di meraviglioso, ma poi non accade, senza motivi né spiegazioni.

In autunno inoltrato arriva il freddo, il primo freddo, che s’infila sotto le coperte e nelle asole dei vestiti, confondendosi nelle le pieghe della vita e nei versi delle canzoni. Trascina con sé infinite ragioni per chiudersi in casa e tenersi tutto dentro, fingendo che la fatica di questi giorni sia una fonte di calore, o una sorte di colore con cui ricoprire e riscaldare le pareti.

Se provi ad uscire in strada, quando il freddo è più forte, se provi a mischiarti in mezzo alla gente, fare finta di essere come qualsiasi altra persona al mondo, se riesci a mascherare con un respiro quanto di brutto ti affligge, beh, se davvero ci riesci allora puoi anche concederti il lusso di un pianto, in mezzo a tutti. Nessuno se ne accorgerà. In fondo, il freddo giustificherà le tue lacrime. E spesso, in autunno, piove.

Località Barbischio - Gaiole in Chianti - Toscana

A luglio non ho scritto nemmeno una parola su questo blog. Nemmeno una frase. Ci ho provato senza riuscire, dando la colpa alla mancanza di ispirazione, alla mancanza di tempo e alla frenesia di questi giorni. Solo adesso ho realizzato che nessuno di questi era colpevole, solo adesso lo so, ma l’ho capito solamente dopo essermi imbattuto in una particolare forma di meraviglia.

Durante la mia vita ho visto grandi metropoli e luoghi naturali che non riuscirò mai a dimenticare, ho avuto la fortuna di viaggiare e assaggiare prelibatezze che dalle mie parti non vengono nemmeno menzionate, ma non avevo ma visto, toccato e attraversato un borgo medievale di 21 abitanti.

Località Barbischio - Gaiole in Chianti

21 abitanti, 13 cani e 4 gatti, questo è il censimento più recente di Barbischio, un microscopico borgo nascosto tra le colline toscane del Chianti. Una manciata di casette in pietra, un ristorante, un piccolissimo cimitero. E basta. Ettari di verde e vigneti a non finire lo isolano dal resto del mondo. Dal resto di qualsiasi altra cosa che avevo già visto prima.

Ancora fatico a comprendere davvero come dev’essere vivere lì.

Siamo soliti lamentarci che il posto in cui abitiamo ci sta stretto, che siamo stanchi di incontrare sempre le stesse facce e fare le stesse cose, e anche che abbiamo voglia di visitare luoghi diversi, conoscere gente nuova, e provare a spostare qualche tassello della nostra vita. Penso allora ai 21 abitanti di Barbischio, si lamentano di queste cose? Hanno voglia di cambiare?

Località Barbischio, Gaiole in Chianti, Toscana

Ci sono arrivato cercando un ristorante tra i tanti presenti in quelle zone. Sinceramente non ricordo perché abbia scelto proprio Il Papavero, è poetico pensare che ci sia arrivato per caso, ed è anche una mezza verità. L’osteria è l’unica vera possibilità che possa condurci in questo borgo di sole cinque o sei casette – nessun’anima in giro per i viottoli e un silenzio di quelli che fanno bene al cuore.

Osteria il Papavero - Chianti - Toscana

I gestori del ristorante raccontano con passione storie legate al territorio e ai prodotti gastronomici, concentrandosi sulle particolarità del vino locale e sul motivo della presenza di alcuni quadri appesi all’interno del locale. Sono opere di Franco Innocenti, pittore ironico e dannatamente creativo, ancora in attività e disposto, a loro dire, a ricevere curiosi e passanti per parlare di arte, pittura, e di come va il mondo.

Le opere appese appartengono alla collezione Uno straniero tra di noi, e c’è anche un ché di autobiografico: una persona su 21 è riuscita ad elevarsi, a farsi riconoscere come artista di alto livello e a far parlare del suo piccolo borgo sperduto e nascosto tra le colline toscane. È riuscita a fare un dolce rumore in un posto in cui il rumore è un ospite sgradito.

A stranger among us - n.52 - Franco Innocenti

Uno straniero tra di noi – n.52 – Franco Innocenti

Ricominciare a scrivere

A luglio non ho scritto nemmeno una parola su questo blog, dicevo. Ho dato la colpa all’incapacità di trovare ispirazione quando invece si trattava solo di fare ordine tra le tante cose da sistemare, gli appunti, le idee e gli scarabocchi. Dovevo solo ordinare. E lì, a Barbischio – nome che sembra rubato da una favola – ho realizzato che le parole non mi servivano. In quel posto in cui qualsiasi cosa è di troppo, dove anche il postino è visto come uno straniero, dove ho camminato quasi in punta di piedi per non fare rumore, lì, non serve altro. Nemmeno le parole. Nemmeno i libri, o Facebook, la musica e tutto il resto. Qualsiasi cosa è di troppo, e tutto ciò che viene dall’esterno viene radunato all’osteria Il Papavero, che diventa così un interessante accumulatore di persone forestiere.

Nel momento in cui mi son reso conto che non avevo bisogno di nulla – se non dei cantucci con il vin santo -, ho capito che appena sarei tornato a casa avrei trovato la voglia di scrivere e una quantità enorme di storie da raccontare.

Ed eccomi qui, come rinato.

Io di storia dell’arte non ne capisco niente. Davvero. Non l’ho mai studiata al di fuori del contesto scolastico. Non mi sono mai appassionato, informato, aggiornato. Sono un vero ignorante, lo ammetto. Eppure credo di riconoscere esattamente il sentimento, la ricerca, la necessità, il gusto e la follia di alcuni pittori.

Sarà che per me l’arte è una. Che si parli di musica, letteratura, cinema o scrittura, credo che tutto si riduca ad un unico piacere che si manifesta secondo le regole e i colpi di genio di mani e muscoli, per soddisfare il solitario piacere di interpretare i giorni e le sensazioni più intime.

Questo, credo di aver capito. E sono certo di averlo riconosciuto curiosando tra le stanze di Palazzo Fava, a Bologna, in occasione della mostra di Edward Hopper. Ripeto, di storia dell’arte non ne capisco granché, ma osservando le sessanta opere esposte ho percepito il suo senso di solitudine.

Con grafite e colori, acquerelli e poco altro, lui disegnava le storie invisibili, quelle che ci sfuggono per mancanza di sensibilità. Lui le ricostruisce con pazienza e le propone chiedendoci di prestare nuova attenzione alle cose normali che sono, a suo avviso, la più grande meraviglia di ogni giorno.

Hopper disegna e racconta l’invisibile

Guardando Stazione di una piccola città trovo quella meraviglia. Al di là dello stile e della tecnica pittorica, di cui preferisco non parlare per evitare figuracce, penso che per lui quel momento, quella scena e quei colori, fossero abbastanza. Me lo immagino posare gli occhi per la prima volta su quella stazione, magari ascoltando il rumore di un treno lontano, innamorarsi della vernice sulle pareti, cercare la miglior prospettiva da cui osservare, coinvolgere quell’albero per spezzare la scena. Proprio l’albero, in musica sarebbe una pausa. In letteratura forse, una punto e a capo. Dicevo, l’arte è una.

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Sera Blu – Edward Hopper

Sera Blu è l’opera che ho inserito come immagine di testa per questo articolo, e anche la mia preferita. La trovo di una solitudine senza fine e la interpreto come un tentativo di rappresentare il mondo. La malvagità nello sguardo del clown, l’uomo borghese sulla destra che osserva un orizzonte buio, come se possedesse tutto e niente; la donna in piedi truccata a puntino, forse una prostituta che mette scompiglio nei pensieri dei presenti; un tizio con la barba rossa, cappello e sigaretta, forse un omaggio a Van Gogh (del quale si riconosce l’influenza); il “direttore” del circo, o di qualche genere di evento, seduto in mezzo alla gente comune, come se lo spettacolo si camuffasse alla vita reale. O come se la realtà non fosse altro che una finzione devastante, e tutti noi attori, pagliacci, mossi dall’esigenza di truccarci o di indossare delle maschere. Ognuno per i suoi motivi.

Il ponte di Manhattan

Nonostante Hopper abbia disegnato decine di volte i ponti di New York, in questa opera si concentra soprattutto sui carrelli in primo piano. Il dipinto si chiama Ponte di Manhattan ma il ponte è solo una scusa per dare rilievo a quegli oggetti comuni, i carrelli. Lasciati li, soli, hanno un senso, costruiscono la scena, sono una storia invisibile.

ponte di manhattan

Gli avamposti e la voglia di restare

Hopper presta la massima attenzione al significato di ogni oggetto, costruzione o persona che incontra nei suoi viaggi. Ne cerca il senso, il motivo dell’esistenza, il motivo per il quale qualcosa si trovi in un determinato posto. Da qui la passione per i fari, quelli affacciati al mare e all’orizzonte, come in The Lighthouse at Two Lights. Li rappresenta soprattutto visti dalla parte della terraferma, quasi mai dalla parte del mare. Lui preferisce stare dietro, perché il faro traccia un confine preciso. La terra e il mare, la luce e il buio. Il faro è a tutti gli effetti un avamposto.

the lighthouse at two lights

In Starway, ad esempio, le scale conducono alla porta d’ingresso, aperta, ancora qualche passo e c’è il bosco. La porta è vista dall’interno, da dietro, proprio come i fari visti dalla terraferma. Percepisco una voglia di restare, di non oltrepassare certi confini, di non sfidare la malignità del bosco. Non mi sorprenderei nello scoprire che Hopper avesse paura del buio.

stairway-hopper

Le luci delle stanze, il sole sui muri e le ombre

L’ultimo quadro della mostra è il celebre Second Story Sunlight. Imponente. La sua luce è devastante. Le due figure ritratte sul balcone sembrano quasi un’ornamento, e quello che davvero conta è come il sole illumini la casa e le stanze all’interno. C’è il bosco dietro, buio. Ma la salvezza è in casa, al sicuro, nelle stanze illuminate. Hopper trova un certo fascino nell’oscurità ma, dicevo, se ne sta sempre ad una certa distanza, dove c’è luce.

Second story sunlight - edward hopper

Prendevo appunti mentre passeggiavo incuriosito ed emotivamente scosso tra le stanze di Palazzo Fava, scorrendo una dietro l’altra le opere senza tempo di un pittore che deve aver combattutto un vero e proprio conflitto personale con il mondo.

Prendevo appunti, frasi incomplete scritte con grafia poco elegante, tra queste noto oggi alcune parole ricorrenti: boschi, edifici, confini, avamposti, faro sul mare, luce sui muri, solitudine.

A rileggerle ora, con il senno di poi, penso che descrivano piuttosto bene l’arte di Edward Hopper, che è fatta proprio di boschi, edifici, confini, avamposti, fari, luce, buio, pareti. Solitudine. Cercando in rete le opere che (dannazione!) mancano alla mostra, come Gas e Nighthawks, ritrovo quasi ovunque gli stessi concetti.

Nighthawks - Edward Hopper

Ma ripeto, per l’ultima volta, io di arte non ne capisco nulla. Eppure mi emoziono. A volte ho quasi paura. In certi momenti, mentre lavoro, mentre guardo il fumo uscire dalla moca del caffè o mentre passeggio sotto i portici di Bologna, mi sembra di vedere le storie invisibili. E anche gli avamposti.

campo da calcio di notte

Affianco casa mia c’è un campo da calcio, ci si allena una delle squadre della città, non ricordo la categoria tanto è bassa. Il terreno è tutt’altro che uniforme, ci sono avvallamenti e pendenze, zone prive di verde e qualche velo di sabbia vicino alle porte. Nonostante questo il manto erboso è sempre ben curato, basso, morbido, umido e di una trama quasi rilassante. Di notte, nel buio, è grigio pesto. Un tappeto color piombo, morbido sotto le scarpe, quasi accompagna i passi.

Mi trovavo lì fermo nel buio assieme al mio cane, poco prima di mezzanotte. Ce ne stavamo dentro al cerchio della metà campo. Mi sono seduto, prima, aspettando che Milo si appoggiasse al mio fianco in cerca di un contatto – lo fa sempre, è una sensazione che gli trasmette una sorta di tranquillità -, poi ho appoggiato la schiena a terra, rivolgendo il naso verso il cielo stellato. Sai, di quelle notti che le luci del quartiere sono spente e le stelle brillano più forte. Sdraiato sull’erba con il respiro del mio cane accanto. Geometrie disperate in cielo. Ricordo di aver cercato la Luna e sono più che sicuro di non averla trovata.

L’ho cercata giusto qualche istante prima di dimenticarmene. In fondo non mi importava davvero che ci fosse o meno quella lanterna bianca. Eravamo li, io, il buio, le stelle e il mio cane, riuscivo a distinguere lo scoccare delle lancette dell’orologio. Non ricordo nemmeno quanto tempo siamo rimasti li, stesi nel mezzo di un campo da calcio nel cuore della notte. Era abbastanza.

Quel momento era abbastanza.

inventori

Ti dico una cosa, lo faccio con un dispiacere nell’anima, davvero: gli inventori sono gente di altri tempi. Gente sempre fuori luogo, insoddisfatta per natura, ambiziosa, gente di altra pasta e altri posti.

Devi metterti in testa che gli inventori non esistono più. Oggi ci sono gli ingegneri, i designer, i progettisti. Si, c’erano anche una volta, ma oggi la loro figura professionale ha guadagnato terreno ed importanza, togliendone, come ti dicevo, agli inventori. Apparentemente la differenza è sottile, anche i dizionari faticano a scandire bene il ruolo di uno e dell’altro. Beh, te la spiego io questa faccenda che, ti assicuro, è molto più romantica e lungimirante di quanto si possa immaginare.

La differenza tra inventori e ingegneri

Gli inventori sono ossessionati dall’esigenza di creare cose che non esistono e che migliorano la vita, anche in modo assurdo. Hanno inventato oggetti geniali come la cannuccia e il cavatappi, tu ora dirai che sono cavolate ma prova a pensare ad un mondo senza cannucce e cavatappi. Capisci di cosa parlo? Hanno trascorso l’intera esistenza a semplificare la vita di noi coglioni. La radio, per esempio, quasi abbiamo smesso di ascoltarla, se non quando siamo al volante o in un centro commerciale. Ma hai idea di quanto genio serva per concepire un apparecchio del genere? Non costruire ma concepire. Non solo la radio, pensa alla tastiera dalla quale stai scrivendo, ti sei mai chiesto perché i tasti sono disposti in quel modo? Lo sai perché iniziano con la Q e non con la A? C’è stato un tizio, un certo Christopher Sholes, inventore, che ha brevettato un nuovo modo di disporre le lettere: lo ha chiamato QWERTY, come le prime sei consonanti che trovi sulla tastiera, e ha permesso a chiunque di battere a mano più velocemente evitando che s’inceppassero i merletti della macchina per scrivere. Sholes ha fatto tutto questo nel 1864, ascolta bene, milleottocentosessantaquattro. Non c’erano ancora le penne a sfera.

Per inventare queste cose serve un certo genio. Una sorta di follia che non ha niente a che fare con la visione progettistica, di certo affascinante, degli ingegneri che hanno costruito veicoli per andare sulla Luna. Vedi, anche le astronavi spaziali sono invenzioni, ci mancherebbe, ma appartengono ad una categoria differente, dove la scienza si evolve di pari passo con la creatività. Tali invenzioni sono proprie, come ti dicevo, degli ingegneri, dei progettisti, talvolta dei designer. Un inventore non costruirebbe mai una navicella spaziale. Si impegnerebbe, piuttosto, nell’invenzione di una macchina volante, capisci dove sta la differenza?

Gli inventori si riuniscono nei club degli inventori, o almeno così facevamo fino a quando esistevano (entrambi). Oggi quanti ne conosci? Quanti ne hai visti? Nessuno, perché loro non ci sono più, si sono portati nella tomba anche la parola stessa: inventore. Non la trovi bellissima?

Se dovessi darti una definizione più precisa di quella che trovi sul dizionario, ti direi questo:

l’inventore inventa per il gusto, il gesto e la passione di creare cose che ancora non esistono fisicamente. Queste cose lui le vede prima che qualcuno ne senta l’esigenza. Le inventa prima che chiunque si possa chiedere come migliorare la vita quotidiana. L’inventore inventa oggetti e marchingegni incredibili per dimostrare che tutto è possibile. Inventa per consentire alle persone di fare cose grandiose, come volare, telefonare, scrivere meglio, respirare. Lo fa perché ha una sorta di dono che interpreta come un dovere, quasi avesse fatto uno sgarbo al mondo e si sentisse in dovere di farsi perdonare.

I nonni li ho persi molto presto, non ho nemmeno fatto in tempo a conoscerli per davvero. E capirli. Conservo ricordi vaghi in cui sono infusi i racconti dei miei genitori, e forse molte cose non sono nemmeno mai accadute, anche se mi piace pensare il contrario.

A farmi da nonni ci hanno pensato i miei vicini di casa, una coppia di anziani fortemente legata alla mia famiglia, brave persone, di quelle che fanno bene al mondo. Gente che ha sempre lavorato, che ha conosciuto la miseria e ha viaggiato per cercare la fortuna. Gente che poi l’ha trovata per davvero.

Con loro sono cresciuto, con le storie sulla guerra e la povertà, con i consigli su come crescere sano e mangiare le cose buone, come il pane pucciato nel vino. La donna, in particolare, si è sempre raccomandata con me e mio fratello di sostenerci e volerci bene. Di fare i bravi, sempre. Ad ogni mia visita e a qualsiasi incontro occasionale non mancava mai la frase

Nella vita l’importante è volersi bene, tutto il resto non conta, davvero.

Me l’ha ripetuta così tante volte che non mi sono mai soffermato a pensarci su per davvero, come se fosse solo una frase e basta. Perché come molte altre persone ho il difetto di non ascoltare mai i consigli degli anziani.

Poche settimane fa quella signora si è spenta. Serena, in pace, ricca di una vita dura e dignitosa. Negli ultimi giorni a malapena riusciva a riconoscermi. Ma quella frase ce l’aveva sempre pronta nel repertorio. Bisogna volersi bene.

Con quelle parole si è spenta. E allora io ci ho pensato, finalmente, ho ascoltato – la sento ripetermi quella frase anche ora -, mi sono fermato, come solo davanti alla morte si riesce a fare. Stop. Ho cercato con ferocia di tenere stretti i ricordi e analizzarli uno ad uno senza giungere ad una conclusione precisa, sicuro che il senso della vita fosse esattamente li, come imprigionato. È servita qualche lacrima per capire una cosa apparentemente banale:

Il tempo non si ferma, certe cose non si possono proprio cambiare mentre altre non torneranno mai più, e l’unica cosa che possiamo fare per tenerle strette a noi è fermarci, ascoltare, e volerci bene.

Io che ho collezionato casini e guai di ogni tipo vorrei davvero riuscire a farlo, dimenticandomi della frenesia di questi giorni e di tutta la superficialità delle cose a cui sono solito attribuire troppa importanza.