Il grande Gatsby - Daisy Fay
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La solitudine di Gatsby

Servono poche pagine per capire che Il Grande Gatsby è un romanzo straordinario. Ben scritto, ricco di aggettivi ricercati e mai inopportuni, allo stesso tempo leggero e scorrevole. È soprattutto un romanzo di solitudine, i cui personaggi sono tutti inesorabilmente soli, affogati nei vizi e nello sfarzo di una città che pulsa di gente annoiata e trasparente. Eppure un’anima ce l’anno, Gatsby, Nick, Tom, e persino Daisy, seppur bucata e svuotata della ragione. Ed è l’anima più triste di cui abbia mai avuto il piacere di leggere.

Serve una certa padronanza del linguaggio, della penna e del cuore per scrivere una storia del genere, raccontare di una solitudine grande quanto il desiderio di non fuggirle mai per davvero. Occorre vedere la gente da alte prospettive per creare un personaggio come Jay Gatsby, talmente ambizioso da uscire in giardino, di notte, per verificare la porzione di cielo che gli spetta. Occorre vedere le storie invisibili che ogni persona si porta addosso, per raccontare il fascino di Daisy Fay, dal viso triste e bello – penso anche alla follia, riuscita, di trovare un’attrice con questo viso per la riproduzione cinematografica. Il tutto si riduce poi al silenzio del grande castello di Gatsby, immobile e impassibile, diviso da una distanza fioca dalla casa di Daisy. Il simbolo di tale lunghezza è una luce, verde, un piccolo lume, che brilla sul molo dalla parte opposta del mare tra West Egg e East Egg, una breve prossimità che è la stessa che divide ogni uomo dalla parte migliore di sé.

E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire mai più.

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